Capitolo 4. Brother The Cloud - Eddie Vedder

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"E poi?"

"Un etto di prosciutto cotto, e sono a posto, grazie."

L'operatrice al banco mi porse la busta e mi avviai verso la cassa per pagare la spesa. Notai che in fila davanti a me un signore aveva in mano un solo sacchetto con i limoni. La signora davanti, il carrello pieno fino alla quarta guerra mondiale, lo aveva visto benissimo, ma cominciò a guardare mielosa la cassiera dicendole che aveva fretta e buttando lì, a caso, che se non si sbrigava subito, avrebbe sicuramente perso il bus. Strinsi le labbra, e ancora di più quando la signora guardò il signore dietro di lei con finta aria contrita. Volevo cambiare fila, ma la situazione non era delle migliori da altre parti, magari c'era gente meno stronza però. No, forse no. Sussurrai un mi dispiace rivolto al nonnino davanti a me. "Io l'avrei fatta passare."

"Non si preoccupi, signorina. Io non ho fretta." Minimizzò lui, con un dolce sorriso.

Inutile lamentarsi a vuoto dentro la testa mentre mettevo la busta nella cesta della bici e sfrecciavo via, verso casa. La gente è stronza, egoista, paranoica, sempre pronta a fregarti. Ma se non impari a farti i cavoli tuoi finisci col vivere male, o morire peggio, pensai, mentre ricordavo scene da supermercato con accoltellamenti per l'ultimo pezzo di prosciutto in offerta. Mentre ero ferma a un incrocio, appoggiai il piede sull'asfalto rovente e sorvolai un po' sopra le nuvole, assaporando la prossima volta che ci saremmo visti io e Dino. Feci volare l'immaginazione, fino a non accorgermi che una moto mi sorpassava rombando soddisfatta, e io mi ero ritrovata a respirare i suoi fumi tossici a pieni polmoni.

Casa.

Casa mia era il regno del caos. Un semplice appartamento al quarto piano di un palazzo, situato su un'arteria molto trafficata della città, fulcro epocale di tutte le mie avventure, porto sicuro per i miei amici in cerca di confidenze, e dimora eterna di Kobe Bryant e Oreste. Loro erano i principi pelosi di tutta quella bambagia, fatta di deliziosi cuscini morbidi, un divano in tessuto intrecciato arancione tutto da grattare, briciole di pane da mangiare di nascosto, scarpe da tennis odorose e invitanti, e poi, attenzione alle buste riciclabili della spesa dimenticate a terra: queste erano i nascondigli perfetti per i miei micioni.

Dopo aver riordinato la spesa mi buttai sul divano e accesi Netflix. Mentre le immagini della mia serie tv preferita scorrevano, mi portai le gambe sotto il sedere e aprii Facebook. Kobe, gatto nero molto intelligente e sensibile divenuto molto presto uno dei miei migliori amici, saltò sul divano e con disinvoltura sistemò le sue zampette anteriori sopra la mia gamba, poggiando il resto del corpo sul cuscino accanto a me. Nulla di nuovo sul fronte Dino e i suoi compagni musicisti. Solo chiacchiere di cacate di cani, di quartiere, polemiche infinite su questo o su quel problema, cattiverie gratuite fra perfetti sconosciuti che provavano un non so cosa di eccitante a smerdarsi sui gruppi di cui facevano parte, finendo sempre fra risse nell'etere che manco Dio.

Chiusi Facebook, aprii Instagram, dove almeno la tastiera serviva solo a modificare le foto e scrivere qualche cazzata di abbellimento sull'immagine da postare sulle storie, o frasi molto intelligenti con hashtag fighi, e non a commentare con cattiveria ogni cosa. O quasi.

Feci scorrere qualche storia fino a trovare lui, in un repost di Jenny, la presunta ragazza del frontman. Sorrisi, guardando quanto era bello nel video boomerang in cui sollevava indice e medio in segno di vittoria con un'espressione a tonto, le riabbassava e le risollevava, e così via. Tornai indietro più volte per riguardarlo. Stavo per dirmi finalmente basta, quando l'immagine sparì subito per una chiamata in arrivo: Emma. Presi un bel respiro.

"Ehi!" la salutai. Misi in pausa la puntata.

"Allora?"

"Le solite cose."

Emilia Koll - Il velo sul visoTahanan ng mga kuwento. Tumuklas ngayon