Capitolo 12. Paper Bag - Fiona Apple

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Fino a questo momento.

Erano passati più giorni di quanto previsto, molti giorni, e Dino era ancora a casa mia. Avevamo spostato insieme dei mobili per fare spazio alle sue cose. La casa si stava riempiendo di colori nuovi, di libri, di quadri, di dischi che mancavano alla mia collezione. Lavoravamo entrambi, durante il giorno, lui a scuola e io a Grandi Sogni; quindi, approfittavamo del poco tempo libero rimasto per sistemare nel migliore dei modi quei pochi metri quadri a nostra disposizione. Il tutto sotto un'attenta supervisione dei gatti, i quali accolsero l'ingresso di Dino con un'aria di sufficienza, ignorandolo tutte le volte che provava ad accarezzarli, o sfuggendogli con una zampata fitta di artigli, le rare volte che provava a prenderli in braccio.

Dino suonava sempre la sua chitarra, nella Stanza della Musica, ormai l'avevamo nominata così. Suonava e scriveva i suoi pezzi. Li cancellava, accartocciava tutti i fogli facendone un mucchio disordinato alle sue spalle, e li riscriveva da capo. Spesso mi sorprendevo attaccata alla porta chiusa, ad ascoltarlo, assaporando quegli arpeggi che restavano impressi per sempre nei suoi spartiti. Adoravo il modo in cui toccava la sua chitarra, e quando toccava me, immaginavo di essere anch'io il suo strumento. O almeno, mi piaceva pensare che per lui fosse così.

La parete vicino al mio comodino era stata riempita di foto. Prima era solo una, un selfie di noi due, scattato dal suo cellulare: una foto sgranata in cui io ero uscita pure con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Poi si erano aggiunte le foto fatte alle macchinette automatiche, quelle dei baci, quella sulla Big Bench davanti alla costa frastagliata del lungo mare, con Dino in piedi, le mani sui fianchi e un sorriso che scopriva tutti i suoi denti bianchi, come Peter Pan, ed io seduta a gambe incrociate con i capelli arruffati in una cipolla storta, le mani sotto il mento, come la classica Trilly imbronciata. Sono i nostri ricordi, mi aveva detto.

Troppo veloce, avevo pensato.

Ero stata travolta da questi cambiamenti senza neanche accorgermene. Come quando ascolti un'opera lirica, ti perdi in essa, nella storia che racconta, e non ti accorgi che la fine è già arrivata, devi alzarti in piedi e lasciare il teatro. Non volevo arrivare a quella fine.

Gli avevo fatto promettere di scrivere tutti i suoi pezzi, di svilupparli, di aggiungere i testi. Lo incoraggiavo, perché conoscevo il suo talento, la sua voce. Lui mi sorrideva, incerto. Non sapeva scrivere, mi diceva. Però poi ci provava lo stesso.

Aveva paura di tradire i Fabio.

"Per ogni pezzo che scrivo, tu scrivi la tua pagina di successo." Aveva aggiunto, un pomeriggio, spingendo il pollice su una corda e creando un arpeggio.

"Forse. Se te lo meriti..." avevo ribattuto.

"Per il tuo concerto di Natale."

"Ah ah ah!" risi, poco convinta, scompigliandogli i capelli e uscendo di casa, non senza prima sentire il suo Non ho specificato di quale anno, però... borbottato.

* * *

"Signora Teresa, queste costolette di maiale sono la fine del mondo. Non c'è nessuno che le fa gustose e succose come lei!" esclamò, a bocca piena, la mia infallibile amica Emma, invitata a un pranzo domenicale dedicato alla famiglia Koll. Il freddo bussava alle finestre della grande sala da pranzo, creando piccole condense agli angoli dei vetri, quando incontrava l'aria calda dell'interno della casa.

"Emma, come sei dolce. Grazie, faccio quel che posso. Finisci queste ..." le disse Teresa, mentre mi passava vicino con il vassoio ancora pieno di costolette e sugo profumato: "Perché non ti unisci a noi per il pranzo di Natale? Vieni con la tua famiglia."

"La ringrazio." Emma si pulì la bocca unta con il tovagliolo, prima di continuare. Giò, nel frattempo, mi aveva afferrato una ciocca di capelli e iniziato a ciucciarla: "Ma in famiglia siamo a pranzo a un ristorante vicino Bolgheri, siamo una vagonata di gente e non credo riuscirei a farli entrare in casa vostra, magari passo nel pomeriggio, ok?" poi si allungò verso mio nipote, spiaccicandomi contro la sedia, toccandogli le guanciotte paffute e mormorandogli con un repentino cambio di voce mielosa, da cartone animato: "Chissà cosa porterà Babbo Natale a questo patatino. Chissà?"

Emilia Koll - Il velo sul visoWhere stories live. Discover now