Capitolo 3. Rock & Roll Queen - The Subways

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Camminavamo fianco a fianco, allontanandoci dalla confusione e ignorando gli sguardi che ci scrutavano, curiosi. Qualche conoscente allungava la mano verso Dino, per salutarlo: la sua statura elevata sovrastava di parecchio la mia, quindi, appena qualche occhiata si abbassava su di me, percepivo un crescente, soffocante interesse, paragonabile alla sensazione di mani vischiose che cercavano di attorcigliarsi sul mio collo.

Non appena fummo lontani dalla confusione, il silenzio tornò a regnare fra i nostri passi. Ci fermammo vicino a una delle palazzine del centro storico, dove calcinacci e piccoli detriti a terra facevano da cornice a quella serata umida. In una frazione di secondo buttai lo sguardo sulle sue clavicole sporgenti e accaldate sotto la maglietta leggera, mentre si appoggiava al muretto dietro di lui. Alzai gli occhi di scatto sui suoi, due specchi d'acqua buia fattasi ancora più scura, lontana dalle luci dei lampioni. 

"Mili" aveva cominciato a chiamarmi così dal minuto dopo che ci eravamo presentati ufficialmente. Il mio nome suonava strano, ma non mi dispiaceva "ti ho visto oggi e mi sono detto: buttati." pronunciò, roteando in alto gli occhi prima di riposarli su di me, come se avesse voluto afferrare la prima risposta disponibile.

"Mi hai visto solo oggi, eh?"

"Sì. No. Cioè, non era la prima volta." Dino si grattò il mento e spalancò gli occhi, schiudendo le labbra.

"Lo sai che lavoro lì da qualche anno."

"Non lo sapevo, te lo giuro. O forse sì." Scostò la schiena dal muro a cui si era appoggiato per accomodarsi meglio, e il suo movimento ondulatorio e imbarazzato mi fece sfuggire un sorriso. Non che io fossi da meno: le mie mani cercarono l'appiglio di qualcosa da torturare che non fossero gli orli della mia maglia Los Pollos e si ritrovarono arrampicate alle mie spalle come piccoli arpioni di aquilotti.

"E ti sei buttato così."

"Sì, è andata proprio così."

"Wow." Caro Dino, la prosa deve un po' elevarsi. Ma hai ancora tempo, pensai.

"Vorresti che ti dicessi le solite cose?" chiese, notando il mio sguardo deluso.

"Quali solite cose?"

"Del tipo molto carina, bel fisico, simpatica, sexy...?"

Feci finta di pensarci. "In effetti, non mi dispiacerebbe affatto sentirmi dire queste cose."

"In fondo non sono questi aggettivi a fare la tua sostanza."

Mi fermai. Raccolsi i miei capelli in una grossa cipolla in cima alla testa, scoprendo due paia di orecchini scintillanti. Era il momento di concentrarsi. Mi voltai, e il mio viso, libero da ogni ricciolo, si rivelò improvvisamente a punta e indagatore. Ma negli occhi brillanti di gioventù che mi guardavano non lessi alcun timore, alcun cambiamento di toni. Era un difficile gioco di equilibri e dovevamo stabilire con esattezza dove fermarci: se fossi stata ai suoi giochetti sarei tornata indietro di dieci anni in maniera ridicola; se Dino avesse arrancato dietro di me, avrei finito per umiliarlo senza volerlo.

"Mi chiamo Emilia Koll. Ho trentadue anni e sono nata e vissuta qui. Mi sono laureata in Scienze della Comunicazione e ho un master in Sociologia, ma un giorno ho buttato tutto nel cesso, perché Grandi Sogni mi sembrava il posto giusto dove poter stare, dove poter essere me stessa, libera." Mi accesi velocemente una sigaretta, cercando di non bruciarmi la punta del naso. Sputai il fumo con un rapido sbuffo.

"Non è questa la sostanza che intendevo io." ribatté, scuotendo la testa con un paio di scatti.

"È quella che sono."

"Io credo che tu sia molto più di questo."

"Non sai tante cose di me, però" lo corressi. Mi prese la sigaretta, e dopo averla guardata un po', fece un tiro anche lui.

"Non ha importanza. Vedi, quando hai detto che Grandi Sogni ti sembrava il posto giusto, lasci intendere che in realtà non lo è."

"Oh, no. Lo è, invece. Davvero."

"Ok."

"Adoro stare lì."

"Ok, ho capito."

"Tu cosa hai provato la prima volta che hai preso in mano la tua chitarra?"

"Non ricordo" ridacchiò. "È passato tipo un secolo."

"Sì, certo. Un secolo. Avrai sei anni per gamba. Avanti, ti ricordi benissimo." Lo incalzai, e lui scoppiò a ridere. Si passò una mano alla bocca, poi mi rese la sigaretta.

"È tutt'ora un'emozione di cui non potrò mai fare a meno, come l'aria."

Mi raccontò dei suoi studi alla Lizard, di quando a quattro anni i suoi genitori gli avevano regalato la sua prima chitarra a sei corde. Di quando aveva pianto, la prima volta che si era esibito, perché non aveva la più pallida idea di cosa fare una volta salito sul palco, ma gli scrosci di applausi subito dopo il primo pezzo lo avevano fatto piangere un'altra volta. La musica era tutto ciò che aveva e non era poco. Per arrotondare le entrate che aveva col gruppo, insegnava musica a dei bambini affetti da autismo in un istituto poco fuori città. Non c'era spazio per confondersi in una laurea di cui proprio non aveva bisogno né interesse, non c'era spazio per cominciare a fare il magazziniere al supermercato con un contratto di apprendistato a quaranta ore e uno stipendio di merda. Quello che guadagnava gli permetteva di coltivare i suoi sogni e di vivere a pieno la sua vita. Era bello ascoltarlo ed era bello percepire quei brividi sotto la pelle, quelle stesse morse allo stomaco che non ti lasciavano, che non ti avrebbero lasciato mai a ogni singola esibizione.

E la paura. La paura di non essere capiti, di non essere ascoltati davvero, di fare solo il pagliaccio davanti a un pubblico scettico. Quella scintilla, che brilla timida ma che si avvicina sempre di più fino a illuminare un'intera stanza senza sole, valeva ogni sforzo, ogni sputo di sangue. Lo invidiai.

"Quando suoni, ho voglia di paragonarti sempre a qualcuno, ma non ci riesco. Ti ho ascoltato, sai? Credo di capire l'emozione di cui parli."

Dino fece qualche passo in avanti dandomi le spalle.

"Fabio è bravissimo negli assoli." Disse poi, cambiando argomento. Poi si voltò, indagandomi. In quel momento di Fabio non poteva proprio importarmene nulla. Mi strinsi nelle spalle, dentro dei brividi che non facevano parte del caldo umido di quella sera.

"Si è fatto tardi. E la mia bicicletta è proprio qui, perciò..."

"Ah, questa?" disse, togliendo le mani dal manubrio a cui si era appoggiato, con uno sguardo furbo. Si passò velocemente le dita fra i capelli, buttando indietro la testa. Fu lì che approfittai per avvicinarmi. E il mio bacio fu inaspettato. Non poteva prevedere che mi arrampicassi con un piede sul pedale della mia bici per raggiungere il suo metro e ottantacinque. I miei piedi erano intrappolati in un paio di sandali di pelle, semplici, color cuoio. Avevo solo un lieve timore di scivolare a terra come un sacco di patate. Mi sentii afferrare con le sue braccia forti e chiusi gli occhi, quasi senza fiato.

Fu uno di quei momenti in cui ero esattamente dove dovevo essere.

E anche lui.

Emilia Koll - Il velo sul visoWhere stories live. Discover now