- IL LADRO DI FIORI -

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Si rinchiudeva sempre nel suo solito posto sicuro, con una coperta calda e un quaderno da disegno sulle cosce. Nella mano destra, invece, giaceva una piccola matita consumata. Il muro su cui poggiava la schiena vibrava alle urla dei suoi genitori. Quella sera, osservò l’orologio che aveva al polso… Erano le 23:45. Avrebbe compiuto diciassette anni al rintocco della mezzanotte e, come ogni anno, avrebbe acceso l’accendino e spento la fiamma con un bel soffio, mentre l’apatia gli divorava le belle emozioni. I sintomi del suo disturbo stavano già iniziando a farsi sentire… Quel giorno, però, più degli altri. Quelle continue grida, quei ripetuti insulti, quei rumori di oggetti urtati e schiocchi di mani sulla pelle della madre... Quella sera, tutto quel frastuono lo irritava particolarmente. Si strinse quindi alla coperta che aveva attorno alle spalle, il freddo di febbraio era rimasto impresso dentro casa per l’assenza di riscaldamenti. Quel vecchio appartamento aveva le sembianze della casa nella sua testa. Mura sottili e fragili, finestre sul punto di cedere per il vento esterno, e le grida che non smettevano di rimbombare nel corridoio. Era sempre stato così, fin da bambino. I suoi genitori, non avendogli insegnato l’educazione, avevano creato un mostriciattolo con cui gli altri bambini non volevano avere a che fare. Chi lo bullizzava, puntualmente si faceva male. Chi lo temeva, aumentava il suo ego.
Non era mai stato un bambino come tutti gli altri, forse a causa del terribile esempio o magari perché sballottato di qua e di là nelle famiglie affidatarie, da cui puntualmente scappava per tornare nella sua piccola cameretta, in quello sporco e tossico appartamento. Aveva poster di vecchi film sulle pareti – scarabocchiate da lui stesso -, la scrivania sempre colma di pennelli sporchi e voglia di fuggire lontano. L’aria era sempre troppo fredda o troppo calma, ma si impegnava affinché ci fosse sempre buon odore. Quella sera, ad esempio, accese una candela alla vaniglia. Odiava quella casa… I ricordi violenti riaffioravano nella sua mente ogni volta che metteva piede in una stanza. Ma quella camera da letto era il posto in cui la tranquillità lo avvolgeva con la stessa delicatezza di un abbraccio. Tranquillità che, però, veniva sempre distrutta da forze esterne. Sollevò la coperta fin sopra il capo e coprì le orecchie con il tessuto, pressandolo con le mani. I denti iniziarono a stringersi gli uni contro gli altri, e l’ira gli faceva tremare gli occhi. Era sempre stato così, anche questo. Le sue emozioni erano sempre state incontrollabili, e lui addossava a ciò il motivo per cui suo padre lo picchiasse. Poi, divenuto più grande, si rese conto che era solo colpa dell’alcool. Stessa cosa sua madre che, nonostante cercasse di mantenere la calma, quando era sotto sostanze stupefacenti faceva di lui una valvola di sfogo. Fuori casa, invece, la sorella era l’unica cosa che lo teneva a galla. Non aveva amici, non aveva contatti con altri parenti… Aveva sua sorella e sé stesso, ma odiava quest’ultimo a tal punto da recargli dolore. Guardò ancora una volta l’orologio…
Erano le 23:48. Il tempo sembrava non scorrere mai dentro quella casa. E le urla dei suoi genitori attraversavano perfino le sue mani e la coperta, raggiungendo ugualmente le sue orecchie. Stava impazzendo, non riusciva più a resistere. Si alzò quindi dal letto e uscì dalla stanza. Poi, attraversò il breve corridoio con passo felpato affinché i suoi genitori non potessero sentirlo.
“Uccidili” diceva la sua testa.
“Uccidili” ripeteva ancora.
Il giovane entrò in cucina e osservò la scena dalla porta. I suoi occhi spalancati e sanguinanti di odio vedevano sua madre contro il muro, intenta a salvarsi dalla stretta al collo del marito. Nessuno lo vide, nessuno lo udì. Raggiunse quindi il piano della cucina, afferrando poi un coltello affilato. Lo impugnò, senza distogliere lo sguardo dai genitori. Infine, raggiunse il padre - che gli dava le spalle – in punta di piedi.
«Devi morire, stronza!» urlava lui, mentre il viso della donna si faceva viola per l’assenza di ossigeno. Poi, di colpo, tornò del suo colore naturale. La donna iniziò a tossire, l’uomo a barcollare dinanzi a lei. E le sue occhiaie si fecero improvvisamente più scure per la pallidità del suo viso. Lei si riprese in un attimo e il suo sguardo si fece confuso a quello strano comportamento.
«Thomas…» sussurrò, osservando suo marito fare un passo indietro. Infine, egli crollò. La moglie sobbalzò e spalancò gli occhi quando vide del sangue espandersi sotto il corpo oramai morto dell’uomo. Si poggiò al muro per un leggero mancamento, e alzò lentamente lo sguardo. Due piedi nudi, un pigiama blu. E poi ancora… Una mano macchiata di rosso, un coltello tra le dita. Una felpa sporca di sangue, un sorriso malizioso. Infine, due smeraldi incastonati in due buchi colmi d’odio. Alla donna tremò ogni singolo arto, ogni singolo centimetro del suo giovane viso.
«E-Eren…» balbettò. Il ragazzo manteneva ancora il coltello ben stretto tra le dita, ma il suo viso macchiato di sangue si rilassò in uno sguardo pienamente soddisfatto.
«Ti ha fatto del male.» si giustificò.
«Dio mio, Eren». La donna sorpassò il marito e avvolse le spalle del figlio in un abbraccio… Era la prima volta. Il ragazzo non reagì, né osò muoversi mentre la madre gli mostrava gratitudine. O forse preoccupazione. Gli occhi verdi del rosso vennero coperti da un velo trasparente, poi una goccia rigò la sua guancia. Allo stesso tempo, però, il sorriso compiaciuto non stava andando via. La madre si nascose nell’incavo del suo collo, a piangere lacrime amare. Poi, di dolore. La sua pelle venne trafitta, portandola a stringere il pigiama del figlio. Sollevò il viso per guardarlo negli occhi, verde contro verde. E un’ultima lacrima scese giù.
«E tu ne hai fatto a me.» sussurrò il giovane, lasciando che la donna scivolasse sul pavimento. Finalmente, la quiete fu l’unico rumore a predominare la stanza. La quiete e il suo battito accelerato per la gioia che il sangue sulle mani gli provocava. La quiete e il fremito che gli attraversò il corpo fino ad eccitarlo. Andò poi di corsa nello sgabuzzino e prese una bottiglia plastificata. Infine tornato in cucina, versò il liquido sui corpi e raggiunse la porta, spargendolo durante il tragitto. Guardò l’orologio… Erano le 24:00. Allora, afferrò il vecchio accendino che aveva in tasca e lo accese.
«Tanti auguri a me.» sussurrò tra sé e sé, ma stavolta non
spense la fiamma. Piuttosto, lasciò cadere l’oggetto dalle dita. Giunto a terra, la puzza di benzina venne improvvisamente sostituita dal fumo delle fiamme alte.

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Where stories live. Discover now