- PASSIONE PROFONDA E TENACE -

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Il buio della notte aveva oramai catturato la luce del giorno e, come ogni sera, le lanterne del castello furono accese. Tutte le stanze agibili vennero illuminate, una sola rimase avvolta nell’oscurità e nel silenzio… La luce della luna era l’unica cosa che illuminava la loro stanza, e la sigaretta di Azazel la accompagnava con il suo colore dai toni caldi. La scintilla rossastra si accendeva e spegneva sul suo viso, rimasto coricato sul cuscino. Dall’altra parte, Eren guardava il profilo del corvino mentre lui era perso nel bianco del soffitto. I capelli neri erano ancora umidi e incollati alla sua fronte, i suoi occhi blu si confondevano con il buio di quella fresca serata di metà primavera. Le sue guance erano accaldate e si lasciavano contornare dal pallore della sua pelle. Aveva gli zigomi alti, la mascella affilata e i lineamenti eleganti. Le sue labbra, ancora gonfie e macchiate di lividi, davano un tocco di classe a quel profilo perfetto, dal naso appuntito e decorato da una leggera gobbetta. Lo studiò come fosse la copertina di un libro, perché Azazel non era ancora in grado di lasciarsi leggere. Ma qualcosa, quando gli permetteva di sbirciare qualche pagina, l’aveva capita: lui era… Tempesta. Era sporco di una vernice che gli macchiava l’anima di rosso, buio come il cielo di una città inquinata. Era tagliente come la lama più affilata e amaro come il veleno che Giulietta ingerì per il suo Romeo. Ma non era gentile, non era puro, non era sereno, non era… Non era tante cose. Eppure, Eren lo guardava come fosse la galassia più bella su cui avesse mai posato lo sguardo. Avrebbe dato la vita per poter guardare ogni stella di quel cielo infinito più da vicino.
«Hai intenzione di restare qui tutta la notte?» gli domandò Eren, ma il suo modo sfacciato di farlo non gli permise di far capire ad Azazel che non volesse cacciarlo dal suo letto. Il maggiore sollevò quindi il busto dal materasso e fece per spostare le coperte dal suo corpo ancora caldo.
«Me ne vado subito, se è questo che vuoi.» esclamò poi, fingendosi indifferente. Ma i suoi occhi lo tradirono e, in quell’apatia, Eren ci vide un adorabile senso di offesa.
La sua risata uscì cristallina dalle sue labbra gonfie, poi si affrettò a sollevarsi dalla parte destra del letto per mettersi a cavalcioni sulle gambe dell’altro.
«Non è ciò che voglio.» sussurrò, afferrando il viso di Azazel per prostrarlo al suo. Baciò le sue morbide labbra, afferrando l’inferiore tra i denti, e lo tirò lentamente fino a lasciarlo andare.
«Non farci l’abitudine.» esclamò il maggiore, lasciandosi ancora una volta tradire dalla lucentezza delle sue iridi.
«Abituarmi a cosa?»
«A questo.»
«Intendi questo?»
Eren ripeté l’azione. Prese le sue guance e portò i suoi boccioli tra quelli di Azazel, baciandoli con così tanta lentezza da far mescolare il dolce della sua bocca con l’amaro del corvino. Allo schiocco tra labbra, Eren si avvicinò al suo bacino e avvolse il suo collo con le braccia, con l’intento di continuare. Aprì la bocca e l’avvicinò rapidamente a quella di Azazel, con l’obiettivo di rubargli l’ennesimo bacio. Egli, però, sollevò il mento e portò la testa all’indietro, spingendo contemporaneamente il corpo minuto lontano dal suo bacino.
«Stai al tuo posto.» disse, con tono quasi duro, e riprese a fumare la sigaretta rimastagli fra le dita. Eren sbuffò rumorosamente, infine si mise seduto di fronte al compagno. Intrecciò le sue dita in un gesto ansioso, i suoi denti non sembravano voler smettere di torturare il suo labbro inferiore. Osservò Azazel fare un tiro, ma ogni volta sembrava la prima. Era solito tenerla nei polpastrelli del pollice e dell’indice, e sfregava spesso la cicca tra le labbra, da una punta all’altra, in un vizio tremendamente sensuale. Poi la succhiava per due secondi esatti, creando un solco sulle guance. Infine, il fumo grigiastro usciva lentamente dalla sua bocca. Ripeté quell’azione una sola volta prima che Eren potesse tornare su di lui. Non era mai sazio di quel ragazzo, e non si vergognava di mostrarlo. D’altro canto, Azazel non faceva altro che trattenersi, e non per vergogna tanto quanto per… Qualcos’altro. Eren si fece spazio sulle sue gambe e riportò la bocca sulla sua in un solo e lento bacio, interrotto quasi immediatamente dal maggiore.
«No no no no…» sussurrò sulle sue labbra, spingendolo via ancora una volta. «Smettila.» continuò, quando capì che Eren non avrebbe smesso se non gli avesse ordinato di farlo. Portò infine la cicca della sigaretta nel posacenere e la schiacciò finché l’ultimo briciolo di scintilla rossa non si spense.
«Un’ultima volta.» disse il rosso e, per la terza volta in quei pochi minuti, tornò a baciare quelle amare labbra. Azazel fece lo stesso… “Solo per questa volta” si disse, mentre il dolce gusto di Eren impregnava la sua bocca. Lo spinse ancora, stavolta di fianco a sé, e incastrò il corpo del rosso tra il materasso e il suo petto prima di interrompere bruscamente quel bacio.
«Ho detto no.» parlò, con una severità che nascondeva il divertimento.
«L’ultima volta, promesso.»
«Bugiardo, non ti credo». La genuina risata di Eren echeggiò cristallina alle sue orecchie, e Azazel venne ipnotizzato da quel lucente sorriso. La sua mente memorizzò quel dolce rumore, quella meravigliosa vista dall’alto e il profumo fruttato che emanava. Odiava i sapori dolci, e gli odori dolci, e tutto ciò che ruotava attorno al dolce. Ma ogni volta che il silenzio si propagava tra le mura, l’unica cosa che riusciva a pensare era il buon sapore di Eren rimastogli sulle labbra.
«Dovresti fidarti di me.»
«Tu dici?» sussurrò Azazel, e i suoi occhi vennero nuovamente incatenati dal bell’aspetto del minore. Lesse ogni centimetro della sua pelle, dal volto stanco e malizioso alle clavicole rosse, dal petto graffiato al tatuaggio che si espandeva sotto di esso.
«Mhmh… E poi, chi ce la vieta?» domandò il rosso, mentre le sue mani vagavano tra le spalle e l’addome dell’altro.
«Io.» rispose il corvino, cercando di ignorare i brividi causati dal suo tocco.
«Perché?»
«Sei un bambino, non smetti mai di chiedere il perché.»
Eccola, un’altra volta, la cristallina risata, stavolta più corta e decisa. Nell’udirla ancora, Azazel si irrigidì al pensiero che il minore si stesse sciogliendo. Erano come due calamite: Azazel si allontanava quando Eren si avvicinava un po’ troppo, forse perché non voleva che si scottasse con il fuoco che aveva dentro. E si avvicinava quando Eren si allontanava, per poter risentire il suo calore o il battito del suo cuore. Il silenzio si espanse lungo le pareti e lì, tra un respiro e un altro, il maggiore riportò la sua figura al fianco del minore. Tuttavia, rimase con gli occhi fissi sull’elegante scritta che si espandeva sotto il suo petto tormentato dalle palpitazioni.
«Ladro di fiori.» disse in un filo di voce, come in un pensiero sussurrato.
«Mh?» chiese Eren, prima di seguire la traiettoria del suo sguardo. Azazel continuava a leggere il suo tatuaggio, e ne seguiva i fini lineamenti come vi fosse un messaggio segreto dentro.
«C’è una storia dietro?»
Il rosso deglutì a quella domanda, poi annuì insicuro. Il corvino ridacchiò a quella reazione e lasciò che le sue orecchie si beassero del battito veloce dell’altro. Piantò poi il gomito sul materasso, e la mano dello stesso braccio si posò sulla guancia. L’altra, invece, se ne stava sul petto di Eren a delineare le lettere di quelle parole.
«Non preoccuparti, non ti costringerò a raccontarmela.» disse, ma il rosso si era già preparato a farlo. Voleva raccontargli di sé come non aveva mai fatto con nessuno. Voleva che qualcuno lo vivesse, che sapesse della sua storia e che la portasse nel cuore come lui faceva sulle sue spalle. Azazel non avrebbe mai usato il suo passato contro di lui, sapeva non l’avrebbe fatto.
«Avevo una sorella minore.» cominciò, attirando così la sua attenzione. «Si chiamava Ophelia. I dottori le diagnosticarono la leucemia all’età di sette anni. I nostri genitori non pagavano le cure, davano la precedenza alla droga. E non andavano mai a trovarla, così lo facevo io. Tra casa nostra e l’ospedale, c’era un negozio di fiori. Il fioraio metteva sempre un vaso pieno di rose all’entrata, e io ne rubavo una a settimana per portargliela». Durante quel racconto, capitò spesso che Eren si fermasse per ripescare vecchi ricordi, altre volte per mandare via il tremolio della voce. Infine rise, mentre i suoi occhi si facevano lucidi come foglie bagnate dalla rugiada.
«I dottori la mandarono a casa quando capirono che non ci fosse più nulla da fare, e lei morì qualche settimana dopo...»
Eren abbassò lo sguardo, ma non una sola lacrima rigò il suo viso.
«“Ladro di fiori” sono state le sue ultime parole.» sussurrò. I suoi occhi si sollevarono poi verso il maggiore, che continuava a toccare delicatamente quella scritta, ma stavolta con il peso del suo significato addosso. Eren non era affatto luce, non era il cielo sereno che pensava fosse. Anche lui era pieno di ferite, alcune emarginate e altre meno, altre ancora completamente aperte. Non si sarebbero mai richiuse, perché lui non avrebbe mai dimenticato il cadavere di sua sorella tra le sue braccia e non sarebbe mai riuscito a dimenticare il vuoto causato dalla sua mancanza. Azazel non voleva chiudere la ferita né tantomeno riempire quel pezzo mancante. Ma avrebbe custodito quel ricordo come fosse suo, per sempre.
«Aveva anche lei i capelli arancioni?» gli chiese, allontanando le dita da quel tatuaggio. Non si sentiva meritevole di toccarlo o addirittura conoscerne il significato. Si concentrò quindi sui suoi capelli color fuoco per toglierli dalla sua fronte umida, facendo così rabbrividire il minore.
«Sì… E le lentiggini sul naso. Portava sempre un fiocco rosa sulla testa e un pupazzo super inquietante che le feci per non lasciarla sola in ospedale». Eren si riempì di luce, quel ricordo nostalgico riportò gioia sul suo viso. E Azazel lo notò, come notò i suoi occhi farsi ancor più lucidi per qualcuno che non faceva più parte della sua vita.
«Era come te?»
«L’opposto.» esclamò il rosso, mentre guardava le sue stesse dita intrecciarsi sulle gambe.
«Non poteva esserci lei qui al tuo posto, allora?» parlò Azazel che, con quella sarcastica domanda, riuscì a riportare serenità dentro quella stanza. Eren si finse offeso, gli diede un colpo sulla spalla e rise, per poi attirarlo a sé sul letto. Infine, si distese sul suo petto caldo e accogliente.
«E tu? Non mi racconti niente?» gli chiese.
«Dovrei?». Eren sollevò la testa dal suo busto, lo fulminò con lo sguardo e si rimise nella stessa posizione di prima.
«Qualsiasi cosa andrà bene.»
Quando i suoi occhi tornarono a guardare il soffitto, Azazel realizzò di non aver mai vissuto momenti del genere con Bryan, né con qualcun altro. Con lui era sempre la solita storia: non parlavano, non ridevano, non si raccontavano del loro passato. Passavano le notti schiavi della loro lussuria, di una passione che veniva solo e soltanto dalle loro teste. Con Eren era diverso. Era sempre diverso. Lui riusciva a renderlo vulnerabile, a far scattare la scintilla ogni volta che lo guardava negli occhi. Riusciva a farlo ragionare alla stessa velocità con cui gli faceva perdere la pazienza, e lo faceva sentire al sicuro. Decise quindi di renderlo ancora una volta il suo scrigno prezioso e raccontargli segreti che neanche la luna sapeva.
«Anche io ho un nomignolo che odio.» gli disse; ed Eren, sorpreso da quelle parole dopo un interminabile silenzio, alzò la testa dal suo petto.
«“Zel”. Mia madre mi chiamava così.» continuò, giocherellando con i lunghi boccoli arancioni. «È lei la donna di cui ti ho parlato quella volta». Il rosso ricordava perfettamente le parole da lui usate quel giorno. Improvvisamente, il suo petto venne scosso da una tremenda sensazione. Una stretta al cuore, o forse un vuoto immenso. Aveva trovato la pesantezza che portavano quelle parole.
«Era malata, e io non lo sapevo. La cosa peggiorò molto quando iniziarono gli esperimenti. Si dava la colpa, e questo la tormentava giorno e notte. Smise di prendere le sue medicine, non usciva più dal suo letto. E si tolse la vita… Avevo dieci anni.» si interruppe, improvvisamente stravolto dal ricordo di lei appesa al soffitto. Sentì il cuore crollare giù dal petto, ancora una volta. Ma nient’altro, perché la sua anima era già volata via con la sua mamma.
«Lei odiava il mio nome, ma mio padre la convinse a darmelo. Azazel… “Colui che è più potente di Dio”. Uno dei tanti nomi del diavolo, o di uno dei suoi seguaci. Mi chiamava Zel per questo. Viene da “zelo”, un’espressione poetica che significa “passione profonda e tenace”». Anche Azazel si permise di fermarsi tra una frase e l’altra, ma per scacciare via i ricordi che riaffioravano durante quel racconto. Fu la sua prima volta. Non aveva mai raccontato niente di sé, del suo nome, di sua madre. Sentì il petto alleggerirsi, ma quel masso pesante lasciò un enorme vuoto dentro di sé. Allora, si pentì di aver aperto bocca… Lui non era abituato alla leggerezza.
Eren se ne stava sul suo petto, a sfiorarne la pelle con le dita per tracciare il tatuaggio tribale che aveva su di esso. Respirava con tranquillità, e il suo cuore batteva sereno dentro la sua gabbia toracica. La sua sola esistenza riempì quel vuoto.
«Mi piace “Zel”.» sussurrò, quasi impercettibilmente, come se avesse paura della reazione di Azazel. «Come reagiresti se ti chiamassi così?» gli chiese poi.
«Non lo so». Non lo sapeva, non lo sapeva davvero. Non aveva mai sentito nessuno chiamarlo così oltre sua madre, e andò fuori di testa quando Bryan osò farlo. Come avrebbe reagito se quel nome fosse stato pronunciato da Eren?
Il rosso si sollevò dal suo petto, voleva guardarlo dritto negli occhi.
«Zel.» sussurrò poi, ma Azazel sembrò non prestarvi attenzione. Il suo sguardo, infatti, era atterrato sui boccioli gonfi del rosso, che lo distrassero.
«Ripeti.» disse lui, in un filo di voce.
«Zel.» esclamò Eren, con tono più sicuro. Azazel sollevò le sue attenzioni, e le loro iridi si legarono come il cielo e la terra. Il fuoco di Eren stava combattendo contro il suo ghiaccio, e lui si stava lasciando sciogliere dalla sua bellezza… Ai suoi occhi, Eren indossava lo splendore della luna, le sfumature del tramonto, la meraviglia di una galassia intera.
E la sua delicatezza, pari a quella di una piuma che si adagia con eleganza sul terreno, lo obbligava a non fargli del male, come se avesse paura di formare una crepa su quel bel viso di porcellana.
D’altro canto, Eren non poteva che pensare lo stesso, ma l’opposto. Azazel era di una bellezza folgorante. Non si poteva descrivere a parole, e furono in molti a provarci prima di lui. Aveva il fascino dell’oscurità, il mistero di una foresta buia. Ed era attraente, così penetrante che chiunque si sarebbe sentito spoglio delle proprie sicurezze, fuori dai propri nascondigli. Il suo sguardo era così tagliente da lacerargli la gola, i suoi occhi di un blu così scuro che sembrava avere la notte incastonata nelle iridi. Aveva quella bellezza irraggiungibile, intoccabile, invidiabile. Ed Eren ne era geloso, perché sapeva non fosse l’unico a vederla.
«Ancora». Azazel non ne aveva mai abbastanza, della sua voce, dei suoi occhi, di lui. Amava quando lo guardava, quando gli parlava, quando gli chiedeva attenzioni con il suo modo di avvicinare il viso al suo. Ed Eren lo accontentò, solo per sentirgli dire “ancora” altre decine e centinaia di volte… Amava il tono calmo e gutturale che usava per farlo.
«Zel». Eren si avvicinò ancora, con calma, e si permise di sfiorare la punta del suo naso con il proprio.
«Ancora.»
«Zel». Quel tono di voce, così tranquillo e profondo, non era affatto lo stesso di sua madre. Lei lo pronunciava con dolcezza, con vivacità, come se il mondo non gli stesse crollando addosso.
E amava il modo in cui lo chiamava sua madre ma, in quel momento, lei era l’ultima persona a cui stava pensando. Anzi, non riusciva a pensare a nessuno, a niente. Aveva il nulla cosmico nella testa, era il suo petto a manifestare ciò che essa non riusciva.
Il cuore gli batteva forte, Eren lo percepiva nelle punte delle sue dita. E gli fremevano le labbra, come se lo stessero supplicando di avvicinarsi a quelle del rosso.
«Ancora.» pronunciò, ancora.
«Ze-» la bocca di Azazel si fece spazio su quella di Eren prima che potesse finire di pronunciare quel nome.
Zel. Zel. Zel. Eren continuò comunque a ripeterlo dentro la sua testa… Amava il modo in cui suonava con il suo stesso tono di voce. Aveva trovato una nuova parola preferita.


~


«Che ci fai qui?». Sulla soglia del laboratorio, la spalla di Ash si distaccò dallo stipite per avvicinarsi ad Azazel.
«Nulla…Tu come stai?» pronunciò lui, staccando gli occhi dallo schermo del computer.
«Ho solo un forte mal di testa, ma passerà. A volte sottovaluto troppo la sua forza.»
«Come fa ad essere così forte?» gli chiese.
«Non è forte. È fuori di testa, perciò fa le cose senza pensare alle conseguenze.»
«Mh.» rispose l’altro, ormai tornato con lo sguardo sullo schermo. Ash venne attirato dal suo particolare stato di concentrazione e si avvicinò alla sua schiena per scoprire da dove derivasse.
«Stai cercando di scoprire qualcosa sul suo conto?» gli domandò il biondo quando vide delle schede aperte sul desktop del computer... Lo Stregone era il protagonista delle sue ricerche.
«Sì. Voglio capire con chi avrò a che fare fra qualche settimana.»
A quelle parole, Ash si voltò scattante verso Azazel e mostrò il più grande e splendente dei suoi sorrisi.
«Sei riuscito a convincerlo?»
«È stato difficile, ma sì.»
«Fantastico.» sussurrò il biondo. «È davvero fantastico.» pronunciò ancora, in un pensiero detto ad alta voce.
«Comunque…» continuò poi. Il suo corpo si era oramai allontanato da quello di Azazel per avvicinarsi al bancone su cui giaceva ancora una fialetta. Ash sospirò, quella era una delle due dosi che doveva prendere quel giorno. Azazel si iniettava sempre da solo la seconda dose perché la riteneva meno dolorosa della prima. Perciò, diceva sempre di non aver bisogno della sua supervisione. Ash si chiese dunque se quella fosse la prima volta o se non avesse mai davvero preso la seconda dose dell'antidoto.
«Vedo che oggi non hai preso la seconda dose.» esclamò, picchiettando le dita sulla siringa per far risalire le bollicine d’aria.
«Sì, e a proposito. Non credo sia un’ottima idea farne uso proprio ora. Mancano pochi mesi alla festa e vorrei riprendere le forze.»
A quelle parole, Ash rimase immobile sul posto.
«Ti sei appena abituato.»
«Lo so, ma-»
«Sei forte anche con l’antidoto, Azazel. E dovrai soltanto parlarci, mica ucciderlo». Quel rimprovero fece scattare una sorta di scintilla rabbiosa negli occhi di Azazel… Non era più impassibile come prima.
«Chi mi dice che non mi attaccherà? Lavoro per l’avversario del suo capo.»
«Ma chi vuoi prendere in giro.» quasi urlò Ash, e le mani ai lati dei suoi fianchi si serrarono immediatamente in due pugni.
«Sappiamo bene entrambi che vuoi recuperare le forze per mostrarti più potente di lui.» disse poi. Azazel aprì la bocca in risposta, ma solo un frustrato sbuffo uscì da essa. Dopotutto, il suo amico aveva ragione… Non era un possibile attacco il motivo per cui volesse recuperare la sua forza. Ash si avvicinò a lui, roteò la sedia su cui l’altro era seduto e vi poggiò le mani sui braccioli. Fu veloce, scattante come un fulmine in un cielo sereno.
«Ti svelo un segreto.» parlò ancora il biondo, prendendo posto a pochi centimetri dal suo viso.
«Anche con il massimo delle tue forze, non riusciresti a batterlo.»
Il volto di Azazel tornò impassibile, i suoi occhi penetranti come un ago sottile.
«Lo hai visto tu stesso. È molto più forte di te e non hai un briciolo di speranza contro di lui.»
«Non è così.» gli disse il corvino, scattando su dalla sedia. A quell’azione, il biondo fu costretto a tornare dritto col busto ed indietreggiare.
«La forza non è tutto.» aggiunse. E mentre Azazel si avvicinava a piccoli passi alla sua figura, non riuscì a non pensare di aver esagerato con la benzina. Quel giorno, gli occhi di Azazel avevano il fuoco dentro, le fiamme dell'inferno. Il biondo non sapeva cosa o chi l'avesse acceso a tal punto da non riuscire a nasconderlo, ma era consapevole di aver messo troppa benzina su di esso. Perciò deglutì nel silenzio e disse: «Lo stai sottovalutando».
«No». Il silenzio inondò la stanza e, con esso, si poterono udire solo i passi lenti di Azazel. Ash non smetteva di indietreggiare, intimorito da quello sguardo pungente. Era suo amico, sapeva che non gli avrebbe fatto del male. Ma quando si arrabbiava e, di conseguenza, mostrava quella indifferente apatia, non lo riconosceva più. L’Azazel che aveva davanti non era il vero, pensava. Piuttosto, sembrava uscito dalla leggenda che si narrava nelle strade di Chicago, e che lo descriveva come il Diavolo in persona.
«Tu… Stai sottovalutando me.»

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Where stories live. Discover now