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Il loro udito venne infastidito ancora una volta dall'assordante musica nell'istante in cui uscirono dal bagno. Azazel fece appena in tempo a chiudere la zip dei pantaloni, quando gli altri compagni si avvicinarono.
«Avete visto Eren?» urlò Ash ai due, quando si rese conto che il nominato fosse ancora disperso nella folla.
Azazel e Bryan fecero di no con la testa, e ascoltarono la risposta di Ray arrivata alle loro orecchie poco dopo.
«Mi ha appena scritto. Ci sta aspettando fuori.»
A quell'affermazione, la squadra uscì dal pub e si avviò nel parcheggio, dove videro Eren poggiato alla sua moto in procinto di buttare la sigaretta più in là nel marciapiede.
«Andiamo?» chiese lui, confondendo così i suoi compagni.
«Dove vuoi andare?» parlò Denver.
«C'è lo studio di un tatuatore a qualche isolato da qui.»
«Non aggiungere altro, abbiamo capito.» rispose Ray, prendendo posto sulla sua moto.
Eren si lasciò sfuggire una leggera ed irregolare risata, poi spostò la schiena dal sedile del veicolo, causando così un leggero barcollio. Azazel lo fermò immediatamente dal montare in sella, e la puzza di alcool entrò nei suoi polmoni.
Lo aveva notato da subito, quel suo sguardo insolito.
Così come si era accorto della macchia che aveva al collo.
«Che vuoi?» sputò acido il rosso, mentre cercava in tutti i modi di rimanere in piedi senza alcun sostegno.
Aveva le guance rosse e i suoi occhi brillavano di un'intensa ed ubriaca luce... Aveva decisamente bevuto troppo. O forse quella luce gli apparteneva e basta, ma gli era solito mostrarla solo nei momenti di poca sobrietà. Fu improvviso, il contatto che ebbero i loro petti per via del maggiore. Gli rimase incollato per qualche secondo e, per quanto Eren ci stesse provando, la sua poca forza non gli permise di allontanarlo. Sentì il respiro calmo di Azazel solleticargli l'incavo del collo, e il suo caldo petto scontrarsi con il proprio. Non si dissero una parola, non con la bocca almeno.
Il minore lo guardava quasi infuriato, forse perché gli aveva impedito di salire sulla moto, o magari per quel suo assurdo modo di avvicinarsi senza un apparente motivo.
D'altro canto, il corvino non gli diede una benché minima occhiata. Mantenne lo sguardo fisso davanti a sé, dove un anziano si era appena piegato per raccogliere il pacco di sigarette dalla fessura della macchinetta posta al fianco di una tabaccheria, e afferrò rapidamente il tessuto del cavallo dei suoi pantaloni, tirandolo verso il basso mentre chiudeva la cerniera.
«Sta più attento la prossima volta.» sussurrò, e finalmente puntò gli occhi sul suo modo crudo e instabile di fissarlo.
«Sali in moto con me. Prenderai la tua domani mattina.»
«No». Dopo la sua dura risposta, Eren gli diede le spalle e fece per salire sul sedile, ma ancora una volta venne frenato, stavolta con una spinta più forte al braccio.
«Ho detto-»
«E io ho detto no.» urlò, ottenendo l'attenzione degli altri.
«Eren, Azazel ha ragione. Non puoi guidare in questo stato.» intervenne Ash.
«Non salirò in moto con lui.» parlò con tono ancora alto, e sempre più instabile.
«Allora vieni con me.» ordinò il biondo, dando nel frattempo dei colpetti dietro di sé. Gli fece spazio sul veicolo e lo lasciò salire, mentre Azazel prese a sospirare, purché impercettibilmente. Salì anche lui in sella, e si lasciò guidare dai suoi compagni di squadra, finché non fu l'ultimo a parcheggiare di fronte ad uno studio per tatuaggi.
«È chiuso.» esclamò, provocando una risata generale.
«Perché, credevi che non lo fosse?» disse Eren, appena sceso dal veicolo. Coprì in seguito il suo volto con la camicia e, senza pensarci un attimo, lanciò con forza il casco verso la vetrina, spaccandola.
L'allarme partì, attirando l'attenzione di alcuni cani in circolazione, che iniziarono ad abbaiare insopportabilmente.
Eren sparì dentro lo studio, e tornò qualche minuto dopo con una macchinetta per tatuaggi. Tra una risata e un'altra, tornò in sella e le moto ripartirono, stavolta più veloci di prima...
La polizia era ormai dietro di loro.
La sirena infranse la quiete ed echeggiò dentro i loro caschi per provocare paura. Eppure, per ovvie ragioni, quella sensazione era a loro poco nota.
«Siete fuori di testa?» parlò Azazel, mentre gli auricolari dei caschi permettevano alle urla e alle risate dei suoi compagni di giungere alle sue orecchie.
«Ci conviene accelerare.» urlò Ray, convincendo i compagni a guidare più velocemente, finché non riuscirono a sbarazzarsi dell'auto lampeggiante. Tolsero finalmente i caschi e si lasciarono inebriare dal vento gelido di quella notte, che scompigliò i loro capelli. Quella sensazione di libertà non era nuova a nessuno di loro, ma ogni volta sembrava la prima. Per Azazel, però, fu diverso. Non fu sorpreso dalla folle azione del rosso, né tantomeno dal loro modo di disinteressarsi alla polizia.
Ma quella fu la sua prima volta. La prima e forse unica volta in cui riuscì a sentirsi davvero libero. I palazzi, le luci, le persone. Tutto gli scorreva accanto a velocità stratosferica. La luna sembrava rincorrerli, e il cielo correre con loro. Il vento gli strapazzò i capelli in una violenta carezza, e la sua pelle venne infastidita dal freddo pungente di quella gelida stagione. Per un solo piccolo istante, poté percepire una perdita di pesantezza lungo il petto, come rimasto immerso tra le schegge di quel vetro rotto per dargli più leggerezza, anche solo per quella sera. E il tempo, sembrava scivolargli tra le dita. Si rese conto dell'orario solo quando, scesi davanti al Maggie Daley Park, poté finalmente guardare il suo orologio al polso. Forse era quella la libertà di cui tanto parlavano i libri. Riuscì a toccarla, a sentirla, a vederla... A respirarla. E lo realizzò solo in quel frammento di quiete, tra gli schiamazzi dei suoi compagni e la mano in mezzo ai capelli scompigliati. Rimase pietrificato tra le lancette dell'orologio che, ai suoi occhi, sembrava si muovessero più velocemente del solito. Si distaccò da esse solo quando Ray, tra una risata e un urlo, si scontrò contro la sua spalla per via di uno spintone da parte del migliore amico.
«E adesso?» domandò, solo dopo aver visto i compagni prendere posto su una panchina in mezzo agli alberi.
«Adesso questo.» prese parola il rosso, subito dopo aver messo in mostra la macchinetta per tatuaggi.
«Sul serio?» esclamò Azazel, interdetto.
«Sul serio.» affermò Eren. Azazel non sapeva più come reagire a tale follia. Da un lato, Eren era totalmente ubriaco; dall'altro, il resto della squadra sembrava fidarsi ciecamente di lui nonostante le sue condizioni. Una parte di sé lo stava convincendo a partecipare a tale follia, senza porsi domande né affermare un "se" o un "ma". La sensazione di libertà provata poco prima gli scorreva ancora nel sangue e gli riempiva i polmoni, ma la preoccupazione frenava il suo cuore dall'accettare o rifiutare quella novità. Perciò gli rimase appesa in gola, tra i fili delle corde vocali e in bilico tra il dimenticatoio e il cassetto dei ricordi.
«Cosa ci tatui stavolta?» chiese Denver al rosso.
«Visto che siamo al completo, direi che possiamo fare qualcosa che simboleggi la squadra.» rispose lui.
«Tipo?» parlò ancora il castano.
«La mezzanotte in numeri?» suggerì allora Bryan, non prima di aver acceso la sigaretta tra le labbra.
«Troppo banale.» sputò acido Eren.
«A me piace.» parlò Ray, che venne poi appoggiato dal resto del gruppo.
«Decidiamo un punto in cui farlo, allora.» disse il rosso dopo un leggero sbuffo, apparentemente infastidito dal pensiero che quell'idea provenisse proprio dal mulatto.
«Polso?» propose Ray. «O caviglia.»
«O sotto il petto. Qui.» lo interruppe Ash, segnando con le dita il punto in orizzontale tra il petto e gli addominali.
«Mi piace.» quasi urlò Ray. «Via le camicie, su.»
In seguito a un'ondata di risate, i ragazzi sbottonarono le loro camicie e le raggrupparono in un unico angolo della panchina.
Eren attaccò la macchinetta all'alimentatore portatile e invitò Ray a farsi avanti. Concluso il tatuaggio, Denver fu il prossimo e, subito dopo, anche Ash e Bryan si fecero avanti. Azazel fu l'ultimo a tatuarsi, nella speranza che la mano ormai allenata di Eren non facesse errori. Buttò via l'ennesima sigaretta fumata in quell'arco di tempo, e lasciò che il rosso gli sfiorasse la pelle mentre la macchiava d'inchiostro. Era delicato, quasi come avesse paura di toccarlo, e ciò rese l'aria più tesa nonostante le risate in sottofondo. Azazel stava disteso sulla panchina, con gli occhi rivolti verso le stelle e una mano che apriva e chiudeva nervosamente il vecchio accendino di suo padre, finché non sentì il dolore placarsi di getto. Portò le sue attenzioni sul ragazzo e, nel vedere il suo sguardo serio rivolto verso il suo petto, il suo viso si abbassò confuso verso di esso.
«Cosa?» gli domandò, interrompendo lo stato di ipnosi in cui il rosso era appena entrato. Non rispose, ma il suo sguardo lo fece per lui: la brillante luce che portava nelle iridi stava pian piano svanendo. Il minore riprese a tatuarlo e il corvino riportò la testa sulla panchina, ignorando l'insopportabile voglia di conoscere il motivo per cui lo avesse guardato in quel modo. Aveva le attenzioni poste su mille cose, e niente al tempo stesso. Il vento gli stava gelando la pelle, ma bruciava per il dolore che quegli aghi gli stavano provocando. Gli altri fumavano in un angolo remoto, e in mezzo ai loro sospiri pieni di fumo non mancavano di certo chiacchiere di qualsiasi tipo. Azazel aveva la luna proprio sopra di sé e lo illuminava come fosse una divinità. Era agitato, e non era di certo per via del dolore; ma si illuse che fossero solo i troppi rumori ad infastidirlo. Peccato, però, che non gli dispiacessero affatto. Forse era solo quello proveniente dal suo petto, a renderlo nervoso. Si concentrò quindi sulla luce della luna che perforava gli alberi per raggiungere i suoi occhi e potersi riflettere su di essi. Poi, però, qualcosa sembrò turbarlo così tanto da impedire al rosso di concludere il suo lavoro. Il suo busto si sollevò improvvisamente dalla fredda panchina e il suo sguardo si proiettò verso l'esterno del bosco; agli occhi degli altri, sembrava riuscisse a vedere ben oltre quegli immensi tronchi. Infatti, una luce gli stava disturbando la vista, e il rumore di quel qualcosa - che si stava avvicinando con schiacciante rapidità - gli stonava le orecchie. Eppure, non si poteva leggere nulla da quell'espressione spenta. I ragazzi si accorsero dopo non molto dello stato di allarme del compagno, a cui chiesero invano cosa sentisse da lontano. Pochi secondi dopo, quella sirena giunse anche alle loro orecchie.
«Merda.» esclamò Bryan, che rese più veloci i suoi movimenti per sistemare la camicia.
«Dobbiamo andare.» parlò poi Eren, che aveva già staccato la macchinetta dall'alimentatore. Azazel restò immobile, nonostante i continui richiami da parte dei compagni. C'era chi lo stava incitando ad indossare la sua camicia, e chi di posare il pacco delle sigarette in tasca... Ma solo una voce giunse alle sue orecchie con tale forza da risvegliarlo. Aveva la testa piena di mille cose, mille suoni, mille preoccupazioni; ed era buffo anche solo da pensare. Come poteva, una persona come lui, entrare nel panico solo per la polizia? Nessuno si stava ponendo quella domanda, perché nessuno - se non colui che aveva urlato il suo nome per far zittire tutto quel trambusto - si era accorto che quella situazione lo avesse fatto entrare completamente nel panico.
«Azazel.» urlò Eren, e finalmente il ragazzo sentì quel chiasso svanire dalla sua testa. In un battere di ciglia, il corvino indossò l'indumento e sistemò le sue cose dentro le tasche del pantalone, per poi correre insieme agli altri verso le loro moto. Montarono in sella e, ancora una volta, si ritrovarono la polizia alle calcane.
Era la sua prima volta anche quella.
Non era mai stato beccato e quindi rincorso dalla polizia. Perciò, come ogni cosa nuova, gli aveva messo tale pressione da non farlo quasi respirare. Nessuno gli aveva mai insegnato il modo giusto di reagire alle cose... Soprattutto in situazioni come quella.
Perché lui era una macchina da guerra, un mostro il cui nome non sarebbe mai stato grande quanto il caos da lui stesso creato. Quindi come avrebbero potuto fermarlo dei banali uomini in divisa? Non potevano, semplice. Eppure, quella situazione lo scosse. La sua vita era basata su una perfetta quotidianità. Un perfetto stato permanente di emozioni che di "emozioni" non avevano nulla. E quell'impassibilità, di fronte alle estraneità, gli sfuggiva così rapidamente dalle dita da non sapere a cosa aggrapparsi, se non alle sensazioni che provava in quegli stessi istanti. Quella corsa contro il vento, però, gli provocò qualcosa di nettamente più forte di banale paura, che non si poteva nemmeno definire tale. Non aveva mai imparato a provarla, e nessuno osò spiegargli come funzionasse perché "non c'è nulla di più imperfetto di un mostro che ha paura". Perciò, qualunque cosa essa fosse, venne semplicemente velata dall'irresistibile adrenalina causata da quella lotta per la sopravvivenza.
Ancora una volta, poté percepire delle ali sulla schiena, le cui piume venivano accarezzate dalle dita del vento e gelate dalla sua freddezza. Sentiva le mani tremare mentre una di esse forzava al massimo l'acceleratore, raggiungendo finalmente gli altri. Le loro urla presero a danzare nelle vie sempre più strette, in un walzer che attirava l'attenzione di ogni passante. In quello che Azazel stava vedendo come un nuovo frammento da conservare tra i ricordi, quei ragazzi riuscirono a sentire la libertà diventare padrona della propria vita, e la loro vita divenire la causa per cui il mondo girasse quella notte.

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Where stories live. Discover now