- PAURA DI PARLARE -

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La primavera era oramai alle porte. Le temperature si facevano ogni giorno sempre più alte e, con esse, la gelida neve che copriva l’intera Chicago si era già sciolta. Si potevano udire gli uccelli all’alba, il sole si alzava in cielo sempre più presto al mattino e si abbassava sempre più tardi la sera. Gli alberi non venivano quasi più disturbati dal vento e inondavano l’aria di un buon profumo di quercia. All’interno del castello, però, le stanze erano così ampie da impedire al calore di restare; perciò, capitava spesso di sentire il legno bruciato scoppiettare dentro i camini. E la sera, dopo le missioni e fino a tarda notte, la squadra se ne stava sul divano più grande del salotto, con le fiamme del fuoco come unica fonte di luce e calore. Quelle ore trascorse insieme si facevano sempre più frequenti. Il tempo scivolava via dalle loro vite come cristalli di sabbia e si spezzava in piccoli frammenti, che ognuno di loro avrebbe custodito nel cuore per sempre. Azazel non partecipava spesso ai giochi da tavolo o alle chiacchierate, preferiva piuttosto stare in disparte sulla poltrona più vicina alla finestra a fumare una sigaretta dietro l’altra. Gli era capitato di sentire alcune storie di Ray, dalla sua prima guida in moto al suo colpo di fulmine conosciuto in discoteca e mai più rivisto. Le loro risate riempivano la stanza il più delle volte, tanto che il corvino iniziò ad abituarsi. C’era una risata in particolare, però, che non era mai stato in grado di udire. Eren aveva passato il resto dell’inverno in camera, non si presentava nemmeno a lezione o agli allenamenti. Aveva costantemente il viso stanco, impassibile o triste. Era come se si fosse abbandonato a sé stesso. Azazel lo sentiva svegliarsi di colpo ogni notte, ma non osava intervenire quando udiva il respiro corto del suo compagno dall’altra parte della stanza. A volte lo sentiva singhiozzare, altre volte tirare su col naso e raramente uscire di casa per fare una passeggiata. Quando, invece, tornava dal salotto la notte, lo vedeva sulla poltrona posta davanti al piccolo camino della camera con il rosso del fuoco sul volto. Piangeva il più delle volte, e non si impegnava nemmeno ad asciugare quelle amare lacrime quando sentiva il compagno arrivare. O magari stava sprofondando così tanto tra i pensieri da non rendersi conto della sua presenza. Guardava il fuoco con tale intensità da non vedere nient’altro, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno al suo interno. Azazel, il più delle volte, si sedeva sul tappeto davanti al fuoco e di fianco alla poltrona dai ricami dorati per riscaldare le mani dal freddo del castello. Amava il fuoco. Sapeva illuminare ma sapeva anche bruciare, e creare ferite così profonde da macchiare la pelle per sempre; in fondo, amava il fuoco perché gli ricordava un po’ lui. Così bello e così inavvicinabile, dai mille colori e sfaccettature. Non parlavano mai. A dire il vero non lo facevano dalla notte dell’ultima missione del minore. Si scambiavano raramente degli sguardi: erano quelli i momenti in cui Eren si rendeva conto di non essere solo. Asciugava le sue lacrime e distoglieva lo sguardo, nonostante la consapevolezza di essere stato visto. Le poche volte in cui se ne accorgeva prima, il verde dei suoi occhi veniva attraversato da un lampo di luce, ma Azazel non ne aveva mai compreso il significato. Non sapeva e non vedeva la speranza che giaceva nello sguardo del rosso, come se stesse attendendo qualcosa. Infatti, sperava che Azazel si accorgesse del mostro che lo stava inseguendo, e che diventasse il cavaliere pronto ad ucciderlo. Durante le solitarie notti, gli capitava di avvicinarsi alla finestra per osservare il cielo notturno ricoperto di stelle. Amava la notte, sapeva di solitudine e di oscurità; odiava l’oscurità, ma odiava ancor di più Azazel perché, in un modo o nell’altro, lui era diventato il motivo per cui stesse iniziando ad amarla. Vedeva i suoi occhi in mezzo a quel blu ricoperto di lucciole bianche. Ma Azazel non aveva le stelle nelle iridi, né una galassia intera. C’erano solo ombre e scheletri in essi, ombre del presente e scheletri del passato. Azazel era tempesta. La più caotica della specie. Si macchiava di sangue senza portarselo sulle spalle e probabilmente aveva davvero donato l’anima al diavolo per non provare una singola emozione. A volte Eren pensava che fosse un semplice trucchetto per non mostrarsi vulnerabile ma, quando qualche ora dopo lo vedeva tornare in camera, sul suo viso non vedeva davvero nulla. Aveva l’abisso negli occhi, un’impassibilità nello sguardo che gli sembrava impossibile da raggiungere.
Era perfettamente immobile, ogni volta.

L'OCCHIO DEL DIAVOLO (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora