𝑪𝒉𝒂𝒑𝒕𝒆𝒓 𝒕𝒉𝒊𝒓𝒕𝒚-𝒐𝒏𝒆

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Italia si svegliò con gli occhi impastati dal sonno. Davanti a se vi era Germania che sonnecchiava tranquillo, mentre le sue braccia avvolgevano il busto di Italia. Senza che se ne rendesse conto, sulle labbra di Italia crebbe un piccolo sorriso, felice perché si era svegliato avvolto dalle braccia della persona che amava, cosa che non succedeva più da qualche tempo. Questa cosa gli diede più determinazione a stare meglio, a impegnarsi nel lasciare le brutte abitudini e i brutti pensieri, per dedicarsi a se stesso, riuscendo così ad amare Germania nel modo più sano possibile. Per tutto questo tempo aveva paura che inconsciamente lo avesse solamente usato, per isolarsi dal mondo che lo aveva ferito, deriso, sminuito, abbandonato. Ma passando del tempo lontano da lui si accorse che si, gli mancava come lo faceva sentire, ma gli mancava di più lui, come persona. Gli mancava sentirlo russare leggermente, o quando si infastidiva quando qualcuno entrava nel suo studio e gli metteva in soqquadro le cose, oppure le espressioni che faceva quando era infastidito da qualcosa che alcuni facevano (per esempio, uno dei primi giorni in cui si era trasferito nella casa dei suoi amici, capitò che una sera stavano mangiando una minestra fatta da Italia e vi era America che beveva il brodo facendo abbastanza rumore - forse anche più del necessario -, dopo pochi cucchiai Germania iniziò a sgridarlo, aveva tutta la faccia paonazza di irritazione e le orecchie che fumavano peggio dei soliti vecchi che fumavano la pipa mentre giocavano a carte con gli amici). Gli mancava tutto ciò terribilmente. Gli mancavano anche i suoi amici: di Giappone gli mancava vederlo sclerare per i romanzi che scriveva, di America gli mancava litigare su come si cucinavano la pizza e la pasta, di Russia gli mancava quella risata che sentiva in poche occasioni (solitamente quelle occasioni erano quando gli davano il permesso di bere tutta la vodka che voleva), di Ucraina la dolcezza e di Canada la schiettezza. Con loro si divertiva un mondo ed è proprio questo che lo spingeva ad andare avanti, a sforzarsi di sorridere davanti ad Australia (anche se stava cadendo a pezzi, ma in qualche modo si sentiva in dovere di sorridere in sua presenza, come se dovesse dare il "buon esempio" a chi è più piccolo di lui), a parlare di tutto con il dottore Svizzera (tralasciando assolutamente nulla, il che era un grande sforzo per Italia, che era abituato a tenersi tutto dentro; alla prima seduta "onesta" con il dottore Svizzera non aveva la minima idea da dove cominciare, quasi si dimenticò tutto ciò che gli era successo, cominciando a pensare che alla fine non stava poi così male, che ce la faceva, ma quando il dottore nominò suo padre tutto ritornò, con gli occhi pieni di lacrime e le parole intrappolate in gola per via di tutti i singhiozzi - ma alla fine riuscì a raccontare tutto -) e soprattutto di pensare positivo, forse una delle cose più difficili che doveva fare. Per una persona che vedeva sempre il lato negativo delle cose, era una grande difficoltà cominciare a pensare positivo - per Italia sembrava come se gli avessero chiesto di imparare a volare, ma lui le ali non le aveva, pensava di doversele costruire, ma non aveva la minima idea da dove cominciare a crearne, non sapeva neanche con che cosa doveva realizzarle; ma ancora non si rendeva conto di una cosa, il paio d'ali era lui stesso, lui poteva volare se voleva, doveva solo imparare a utilizzarle, doveva solamente credere in se stesso -.
<Italia.> lo chiamò Germania, con la voce impastata dal sonno.
<Dimmi.> rispose Italia, guardandolo mentre dormiva tranquillo come un bambino. Germania disse altro, ma dalla sua bocca uscirono solo mugugni. Italia sorrise e gli diede un bacio sulle fronte, felice di averlo lì a fianco.

[•••]

<Giappone hai visite!> esclamò Ucraina dall'entrata, mentre guardava Sud Corea sullo stipite della porta. Giappone arrivò e quando vide il suo amico non seppe che fare o dire, ma istintivamente si avvicinò e aspettò che Ucraina se ne andasse, lasciandogli un po' di privacy. 
<Ciao.> sussurrò Giappone, evitando il più possibile di guardare negli occhi il suo amico.
<Non rispondi più ai miei messaggi.> disse Sud Corea con voce ferita. Giappone incontrò il suo sguardo e solo in quel momento vide quanto il suo amico fosse messo male, gli occhi rossi per la stanchezza (o di un pianto) e sotto di essi due occhiaie tendenti al marrone scuro, i vestiti stropicciati e malandati, le nocche delle mani erano piene di ferite in via di guarigione. Quella vista fece quasi perdere un battito al cuore di Giappone. Perché si era ridotto così? Per la loro discussione? Perché ha dovuto mettere al primo posto il suo stupido orgoglio? Il suo amico era a pezzi, per colpa sua, perché non lo degnava di una risposta (e Giappone sapeva che Sud Corea odiava essere ignorato, era una di quelle cose che lo mandava di più in bestia, lo facevano sentire impotente e inutile). 
Giappone senza dire niente fece due passi in avanti e strinse tra le sue braccia il corpo malandato di Sud Corea, che cominciò a piangere non appena venne accolto tra le sue braccia. 
<Perché ...> disse con una voce domata da singhiozzi che non gli permettevano nemmeno di terminare una semplice frase. Giappone gli accarezzò la schiena e cominciò a sussurrare molteplici "scusa", sperando di calmarlo un po'. Lo aveva già visto piangere, ma mai così disperatamente. Non pensava di potergli creare così tanto dolore semplicemente ignorandolo. 
<Vuoi entrare?> chiese Giappone con un filo di voce. Sud Corea annuì e sciolse quell'abbraccio che lo faceva stare meglio. Giappone prese la mano dell'amico e lo guidò in camera sua, ignorando lo sguardo curioso dei suoi amici. 
Una volta arrivato si chiuse la porta alle spalle, mentre Sud Corea si sedeva sul letto, asciugandosi le lacrime che gli rigavano le guance. Giappone raggiunse l'amico e si sedette a fianco, non sapendo cosa dire o fare per farlo stare meglio. Si sentiva un mostro, gli aveva fatto passare giorni pieni di solitudine e tristezza, e questo perché non riusciva ad accettare di non sapere tutto, di non avere tutto sotto controllo (odiava che le cose gli sfuggissero dalle sue mani, voleva sapere ogni cosa che lo riguardava direttamente e indirettamente; la cosa lo faceva impazzire). 
<Mi dispiace di averti nascosto alcune cose.> sussurrò Sud Corea cercando del contatto fisico con la mano. Giappone gli prese la mano tra le sue e sospirò.
<Non importa, non più ormai. In questo momento sono io quello nel torto, ti ho ignorato come farebbe un bambino immaturo, e questo ti ha fatto soffrire. Mi dispiace.> rispose con rammarico. 
<Niente di troppo nuovo.> rispose con una flebile voce. 
<In che senso?> domandò Giappone confuso dalle parole dell'amico. 
<Questo dolore che pensi di avermi causato tu, mi accompagna da anni oramai. Ogni volta che uscivi con qualcuno per un appuntamento, ogni volta che ti chiudevi in te stesso perché eri occupato con i tuoi libri. Ogni tua minima mossa è legata stretta al mio cuore, come se ci fosse un filo a collegarle, e più ti allontani più questo filo stringe il mio cuore, facendolo sanguinare.> 
Senza aggiungere altro, Sud Corea avvicinò il proprio viso a quello di Giappone e osservò i suoi occhi confusi e curiosi. Giappone non sapeva cosa dire, quella poca distanza lo metteva un po' a disagio ma non gli dispiaceva, anzi sembrava quasi che gli piacesse. Sud Corea osservò con malizia le labbra dell'amico e senza chiedergli il permesso, diminuì la distanza, unendo le loro bocche in un casto bacio, che celava il forte sentimento che nutriva Sud Corea per Giappone. Quest'ultimo rimase immobile, notando quanto sollievo e sofferenza rilasciavano gli occhi davanti a se. Si sentiva come incatenato ad essi, non riusciva a distogliere lo sguardo, più il tempo scorreva e più sembrava che non scorresse affatto. Purtroppo a tutto vi è una fine e fu proprio Sud Corea porre a termine quel bacio. Ma nonostante ciò Giappone non riuscì a distogliere gli occhi da lui, continuava a osservarlo, notando un cambiamento nel suo sguardo: i sentimenti precedenti avevano lasciato spazio all'insicurezza e alla paura. 
<Scusa, non dovevo.> sussurrò Sud Corea, alzandosi in piedi e girarsi dall'altra parte. 
<Forse è meglio se me ne vado.> mormorò nervosamente. 
<No.> rispose Giappone con voce sicura. Si alzò e si avvicinò all'amico che gli dava le spalle. Rimase qualche secondo ad osservare quanto il suo corpo era preda della paura e dell'insicurezza. Fece qualche passo in avanti e lo abbracciò, cercando di rassicurarlo. A quel contatto il corpo di Sud Corea smise di tremare e tutto il dolore e la paura di cui è stato preda in questi ultimi giorni cominciava a sparire, come se Giappone fosse una medicina con effetto immediato.
Sud Corea si voltò (ancora stretto tra le braccia di Giappone) e lo osservò negli occhi. 
<Mi sto illudendo con questo tuo abbraccio, lo sai?> bisbigliò, come se avesse paura di rompere quel silenzio piacevole. 
<Non so perché mi stia comportando così, ma sento di doverlo fare.> mormorò una risposta Giappone, anche lui con la paura di rompere quel silenzio che sembrava dire più cose di quante loro potessero mai fare. 
<Io ti amo Giappone.> sussurrò Sud Corea e senza aspettare altro, Giappone, azzerò la distanza tra i loro volti e lo bacio, con passione stavolta. Quel bacio ardeva di voglie nascoste per anni e di una passione nata dal nulla, ma che a quanto pare era destino nascesse. 
Giappone interruppe il bacio e fece sdraiare Sud Corea sul letto. Si mise sopra di lui e riprese a baciarlo, prima sulla bocca e poi scese sul pomo d'Adamo. Continuò così per svariati minuti, facendo crescere la voglia di entrambi e allungando l'attesa di molto. Si sentiva quasi la testa annebbiata, in preda a qualcosa che si era appena svegliato in lui, qualcosa di nuovo che non aveva mai provato con nessuno prima d'allora. Le sue mani cominciarono a spogliarlo di quei vestiti malandati, mentre i suoi occhi sembravano quasi sbranarlo ogni volta che una parte del corpo di Sud Corea veniva liberata dai suoi indumenti. 
A Sud Corea sembrava quasi di andare a fuoco; ogni parte del suo corpo che veniva toccata dalle mani o dalle labbra di Giappone bruciavano, come se Giappone fosse lava incandescente. 
I loro corpi si muovevano all'unisono, alla scoperta dei punti sensibili di ognuno, bramosi di esplorarsi a vicenda. Sembrava quasi che comunicassero, ogni suono che emettevano, i brividi, gli sguardi, come si muoveva il corpo al tocco dell'altro, il respiro affannoso: questo tipo di comunicazione era meglio di misere parole, parole che magari non riuscivano ad esprimere completamente ciò che si provava realmente.

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