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Grace: 8 anni

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Grace: 8 anni.
Michael: 13 anni.

«Hai un cuore buono, Grace. E quando penserai che sia un male, tu continua a fare del bene».

Me lo diceva sempre la mia mamma. Me lo sussurrava la sera, mentre mi pettinava quei capelli quasi bianchi che tanto le piacevano, prima di rimboccarmi le coperte e baciarmi la fronte come solo lei sapeva fare.

Raccontava favole, la mia mamma. Bastava sentirla parlare per immergersi in storie mai nate e lasciarsi cullare dalla delicatezza di una voce senza fine. Non perdeva mai quel suo tono così pacato e dolce, lei, nemmeno quando si arrabbiava. Nemmeno quando non le restavano che lacrime.

Mia madre era... era un angelo. A tutti gli effetti. E un po' la odiavo, perché se ero cresciuta in un certo modo, era tutta colpa sua. Perché se solo mi passava per la testa di comportarmi in una certa maniera, allora un infido verme cominciava a strisciarmi nella pancia.

No, Grace, tu non sei così, mi diceva a ogni stretta di denti, tu sei luce, Grace, e devi illuminare, non spegnere.

La odiavo. La odiavo così tanto, per tutte le volte che l'avevo e avrei continuato a deluderla.

Perché il confine tra la bontà e il dolore era sottile, e io balzavo da una parte all'altra senza sosta. Senza fermarmi mai.

Perché con la bontà le persone ci giocavano, si divertivano ad accartocciarla e lanciartela adesso, privi di umanità e sentimento. L'avevo imparato a mie spese, purtroppo. Avevo permesso di farmi grattare la pelle, di raschiarla e togliermi via ciò che ne era rimasto della mia mamma.

«Palla avvelenata!», esclamò Jonah, adombrato dal suo tipico sorrisetto crudele, prima di lanciarmi il pallone sullo stomaco. «Troppo lenta, piccola cessa».

Annaspai, gli occhi strabuzzati e già pieni di lacrime dalla sofferenza, mentre mi piegavo in avanti per proteggere la mia pancia dolorante. 

Era già il terzo colpo nel giro di cinque minuti che ricevevo, e non importava quante volte venissi eliminata, loro continuavano a salvarmi ogni volta per riportarmi in gioco e farmi ancora del male.

La nostra insegnante di ginnastica, non che mi aspettassi altro, se ne fregava alla grande. L'importante era non fare storie e piagnucolare.

«Tirati su, Gracie, non fare la solita piagnucolona», sbuffò Margot, in piedi al mio fianco. «Non è colpa nostra se fai schifo».

I polmoni mi fecero male per la fatica che impiegai per forzarmi di respirare lentamente. Non dovevo permettere alla rabbia di sopraffarmi, io dovevo restare calma.

Call Me MichaelWhere stories live. Discover now