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Grace: 8 anni

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Grace: 8 anni.
Michael: 13 anni.

«Sai giocare a scacchi, bambolina?».

Fu quella la prima frase che mi rivolse Michael, quando, per l'ennesima volta, venni rimessa in punizione.

Li facevo per lui. Ne combinavo di tutti i colori: non svolgevo i compiti, rubavo nella dispensa, tiravo i capelli a Margot e lanciavo i temperini in faccia a Jonah. Qualsiasi cosa, pur di passare del tempo con lui.

A volte capitavo nella stanza accanto alla sua, ma riuscivamo a parlare attraverso la grata. Altre Michael sgattaiolava nella mia, o altre ancora la direttrice sbagliava, anche se di rado. Ormai aveva capito quello che stavamo costruendo noi due, peccato che non me ne importasse granché.

Io e Michael ci eravamo incontrati per un fortuito caso del destino, un banale errore di distrazione, ma ero stato io a scegliere di tenerlo con me.

Michael, colui su cui viaggiavano storie raccapriccianti e fantasiose, un povero bambino rinchiuso nella folle solitudine, io l'avevo scelto. Lo avevo fatto nello stesso momento in cui avevo compreso che era stato l'unico a condividere un biscotto con me.

In tutto quel viaggio infinito, coperto di incertezze e tentennamenti, avevo trovato il mio limite, un estremo che mi impediva di varcare la soglia della sofferenza e gettarmici a capofitto.

E quella dolce casa aveva ciuffi chiari e occhi spettrali, di una bellezza diabolica. Vantava la voce vellutata, quasi una favola che veniva raccontata ai più temerari bambini.

Seduta sul materasso impolverato e pieno di acari, scossi il capo. «No, non so giocare. Tu?».

«Vuoi imparare?». Inclinò il capo, inginocchiandosi di fronte a me e guardandomi dal basso delle sue lunghe ciglia.

«Ma non abbiamo la scacchiera...»

«Rispondi, Grace. Vuoi imparare?».

Strinsi la stoffa della mia gonna scozzese in un pugno. «Sì, mi piacerebbe».

«Bene», pigolò, poi produsse uno scricchiolio di ossa nell'alzarsi in piedi. «Aspetta un momento».

La piccola finestra posta in alto filtrò abbastanza luce affinché potessi guardarlo bene. Un po' di ombre gli scavavano le guance e le iridi sapevano di vuoto, eppure era bellissimo. Sembrava disegnato, scolpito direttamente nel marmo per quanto i suoi lineamenti fossero perfetti.

Lo osservai piegarsi in avanti, nella mia direzione, e quasi soffocai quando mi sovrastò in tutta la sua altezza e presenza ingombrante. Spalancai gli occhi d'istinto, cercando di farmi piccola piccola.

«Che stai facendo?», squittii, imbarazzata.

Gli sfiorai la linea del collo con la punta del naso. Respirai il suo profumo. Sapeva di bagnoschiuma da discount, uno di quelli economici che facevano pure da shampoo, uno uguale al mio, ma su di lui stava bene. Non faceva così schifo come su di me.

Call Me MichaelDove le storie prendono vita. Scoprilo ora