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Quando conobbi Michael Baker avevo soltanto otto anni e fu del tutto un caso del destino a farci incontrare

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Quando conobbi Michael Baker avevo soltanto otto anni e fu del tutto un caso del destino a farci incontrare.

Dovevo scontare una punizione e, nella foga, la direttrice aveva sbagliato stanza in cui chiudermi. Mi aveva gettata in quello spazio fatiscente privo di luce, riservato al pericoloso Michael Baker, colui che aveva ucciso padre e madre a soli dieci anni, inconsapevole di ciò che avrebbe scatenato.

Nessuno aveva mai saputo il motivo, il perché avesse fatto una cosa simile. Quella era una notizia che spettava solo a chi di dovere esserne a conoscenza, fatto sta che all'epoca credevo che Michael non fosse così cattivo.

Credevo che fosse un'innocua vittima della vita. Che se aveva fatto una cosa del genere, allora doveva essergli stato fatto di peggio.

Solo in seguito avevo compreso che non c'era nulla di buono in quella persona, ammesso che fosse davvero un essere umano.

Ero venuta a patti con la consapevolezza che Michael Baker era la reincarnazione del male. Lui non aveva la concezione di giusto o sbagliato, Michael agiva e basta. Poteva accarezzarti e poi piantarti un coltello nel cuore senza porsi alcun problema.

La mattina del trentuno, per ovvie ragioni, le scuole erano rimaste chiuse e, in vista di Halloween, il sindaco aveva deciso di imporre il coprifuoco. La notizia di un assassino a piede libero, per di più durante una notte come quella dove tutti erano mascherati, aveva scombussolato l'intera cittadina.

Aveva scosso me. Non avevo chiuso occhio per l'intera nottata, troppo concentrata nell'osservare l'ambiente che mi circondava. Temevo che Michael potesse sbucare da un momento all'altro e non volevo che mi cogliesse a sorpresa.

A rigor di logica, quella giornata in istituto la passai come uno straccio. A pranzo fu sul serio il mio turno di lavare i piatti e, tra una sciacquata e l'altra, mi feci scappare non so quanto sbadigli.

Dopodiché trascorsi l'intero pomeriggio a giocare con Reese nella sala ricreativa. Le avevo insegnato a giocare a scacchi, ma ne aveva ancora di strada da fare per poter realizzare partite meritevoli di essere chiamate tali.

Perciò poi avevamo optato per disegnare. Non ero mai stata brava a farlo e nemmeno Reese da quello che avevo potuto vedere.

Quel piccolo folletto era un concentrato di disastri, ma se c'era una cosa in cui era dannatamente brava, era farti venire il mal di testa. Reese aveva una lingua lingua e non chiudeva mai il becco.

L'adoravo soprattutto per la parlantina che aveva, ma passare un intero pomeriggio con lei era da matti. Rischiavi di farti scoppiare il cervello.

Call Me MichaelWhere stories live. Discover now