Capitolo 3

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They say an end can be a start

Feels like I've been buried yet I'm still alive

It's like a bad day that never ends

Phoenix, "If I ever feel better"


ANNO 2020

Prima settimana di marzo

Ospedale di Punta di Lago


Immobile.

Sospesa tra l'essere e il non essere; inconsistente. Avvolta nell'abbraccio meccanico di un macchinario rumoroso, senza luce né aria. Poi fuori, e ancora altri mostri di metallo. Flash improvvisi. Voci. Ore eterne di buio, istanti forse, o giorni interi.

Esistere, ed esserne consapevole soltanto quando il dolore tornava a trafiggerla. Fitte alla testa così strazianti da farla gridare. Era davvero quella, la sua voce?

A volte un'interferenza le attraversava la mente, simile a una scossa elettrica.

Un rumore regolare, amico, accanto a lei. Quasi un sussurro, un respiro.

Chi era? Ed era davvero lei, lì? O qualcuno respirava al suo posto?

E poi, insieme a quell'ombra bianca e gentile che le si avvicinava di tanto in tanto, giungevano i momenti di pace. Le sfiorava la fronte con una mano guantata. Toccava qualcosa, lì accanto, e una sensazione di liquido freddo si irradiava dal suo braccio a tutto il corpo. Portava sollievo, riposo. Durava un po', poi il dolore tornava a urlarle contro, perché la battaglia era ancora in corso, la guerra non era ancora vinta.

Provava ad aprire gli occhi, a volte. Ma intorno a sé vedeva solo contorni indistinti. Persino quello che sembrava un uomo, o un fantasma, o un astronauta, che impartiva istruzioni, monotono, a qualcuno che stava al suo fianco.

A volte, nei momenti in cui era cosciente, le facevano delle domande. Certe risposte erano semplici da dare, altre per nulla. Il suo nome ad esempio, quello sì, era facile. Ma l'età non lo era affatto: quanti calcoli da fare! Era un rompicapo impossibile da risolvere. Una volta aveva risposto chiedendo a sua volta che giorno fosse, pensando che così ci sarebbe arrivata prima. Ma la data che aveva sentito pronunciare le era suonata ancora più assurda.

Duravano poco, quei momenti in cui la mente provava a fare il suo dovere: il peso delle palpebre tornava presto ad essere eccessivo e Tea si richiudeva nel suo guscio, desiderando di restarvi per sempre.


*****


Anche quella mattina il risveglio era stato confuso e doloroso. La flebo era ancora attaccata al braccio. Tea si guardò attorno. Nella stanza d'ospedale era sola, la porta era socchiusa. Fuori, un medico stava parlando con qualcuno al telefono. La conversazione le arrivava frammentata, ma per la prima volta si sentiva abbastanza lucida da riuscire a seguirne il filo logico.

"No, non si può entrare" disse, più di una volta. "Ma è questione di pochi giorni, poi sarà dimessa. Dovrà però rimanere in isolamento. [...] Sì, esatto, spazi in cui nessuno dovrà avere accesso. [...] Se non è possibile che resti nella propria residenza, dovrete cercare una sistemazione più adatta. [...] Capisco. Potrebbe lasciarmi il recapito dei suoi genitori, in modo da prendere accordi direttamente con loro? [...] Sì, commozione cerebrale. Nulla va sottovalutato, deve restare a riposo il più possibile. [...] No, non le so ancora dire in quanto tempo si riprenderà. [...] Ma certo, certo che le daremo degli aggiornamenti. La paziente verrà seguita a domicilio dal nostro personale sanitario. Qui però non può più restare. Si fidi, è meglio per tutti. [...] D'accordo, arrivederci."

Quanta stanchezza pesava ancora su Tea. Sollevò gli occhi verso il carrello portaflebo, cercando di leggere il nome del medicinale che le stavano iniettando. Ma era troppo sfinita per riuscirci. Chiuse gli occhi, e sprofondò di nuovo nell'oblio.

Non c'è una nuvolaWhere stories live. Discover now