Capitolo 10.

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Domenica,  11 Ottobre 1964 

Ore 23:12

Se sapevo che Toly era innamorato di me? Sento che una parte della mia coscienza l'ha sempre sospettato, ma tenuto ben nascosto per il triste fatto che io.. Non lo ricambio.
Non amo Toly, forse non so nemmeno cosa significhi amare.
Ma se l'amore è ciò che ha fatto lui stasera, allora non lo voglio.

E mi sento terribilmente sola.
Ho allontanato Toly così come ho fatto con Bucky.. Inizio a pensare allora che forse ho allontanato anche mia madre.
Forse il problema sono semplicemente io.
Quando arrivo alle prime palazzine, sto tremando per il freddo. Mi è penetrato nelle ossa, sento le dita intirizzite e i piedi non avere più alcuna sensibilità. Mi trascino per i marciapiedi finché non incontro una locanda.
Non mi fermo nemmeno a leggere il nome, spingo la porta di vetro per entrare e il calore delle stufe mi avvolge in un confortevole abbraccio. C'è parecchia gente e il mio arrivo non è nemmeno notato, per cui procedo in libertà verso il bancone.
«Cosa le servo, signorina?»
Il barista è un uomo grassoccio sulla cinquantina, una benda ad un occhio e la camminata claudicante.
Quando parla, i suoi grossi baffi grigi ballano.
«Ehm.. Una cioccolata calda.»
L'uomo solleva il grosso sopracciglio e mi squadra.
«Sì, sì. Ha l'aria infreddolita.»
Mi siedo sullo sgabello imbottito e fisso il vuoto mentre riprendo mobilità dei piedi.
«Ecco qua. Ci ho messo anche la panna.»
Raccolgo la grossa tazza bollente tra le mani e lo ringrazio.
Non ho molta voglia di bere o mangiare, ma qualcosa dovevo prendere per usufruire del calore di quel posto.
La tazza mi riscalda le dita, osservo come lentamente la panna si scioglie nella cioccolata.
«Beh, non la beve?» 
Mi domanda il barista dopo qualche minuto.
«Oh, sì.. C-certo.»
Faccio un piccolo sorso e la bevanda deliziosa mi scalda la bocca, la gola e lo stomaco.
«Mmh.. Allora, problemi con un bel giovanotto?»
Sollevo lo sguardo confuso sull'uomo, ancora fermo lì.
«Come, prego?»
«Beh, ha lo stesso faccino che fa mia figlia quando ha problemi con quel mascalzone del figlio del fornaio.»
Accenno un sorriso e annuisco appena.
«Diciamo che è così.»
«Aaah!»
Alza una manona in aria e la agita come a voler scacciare qualche insetto.
«Alla malora questi uomini. Ai miei tempi non si lasciava di certo una fanciulla da sola in questo stato. Nemmeno con la guerra in corso.»
Quelle parole, assieme al suo strano accento, mi destano curiosità e sfrutto la cosa per distrarmi.
«Lei per chi patteggiava durante la guerra?»
La mia domanda becca nel segno e l'omone mi guarda col suo unico occhio volpino.
«Sei una che studia, vero?»
Borbotta.
«Abbastanza.»
Ammetto mentre la cioccolata mi tira a fare un altro sorso. 
«Comunque mia cara, uno straniero non sopravvive tanto a lungo mettendosi a raccontare i fatti suoi. Specialmente qui.»
Quella frase mi fa sorridere.
«Ma ha appena detto che è un..»
L'uomo si posa il grassoccio dito indice tra i baffi.
«Shhh. Ho detto ciò che è vero e ciò che è vero è che manca dell'altra panna su quella cioccolata.»
Sono le 23:00 quando il locale inizia a svuotarsi: l'indomani il turno in miniera inizierà alle 5:00 e la maggiorparte degli abitanti di Norilsk lavora nelle grandi industrie di estrazione; non è cambiato molto da quando era un gulag stalinista. 
Io sono ancorata su questo sgabello da ore, non ho un piano e non so come tornare a casa.
Per essere completamente invisibile, l'Hydra ha una linea telefonica che non si può raggiungere da un semplice telefono, ma soltanto da un altro identico che si trova a Mosca. Non ho altri modi per contattare la base e non posso semplicemente prendere un taxi e rivelare la nostra posizione.
Forse sarebbe meglio dormire qui. Penserò domani a come tornare a casa, mi basta non vedere Anatoliy per il resto della serata.
«Non torna a casa, signorina?»
L'uomo prende la seconda tazza che ho svuotato e la lava.
«Non posso.. Sono troppo lontana ed ero venuta con.. Beh, penso abbia capito.»
«Mmmh..»
Lo guardo sistemare gli ultimi bicchieri e poi pulirsi le mani con uno strofinaccio.
«Quando esci di qui, vai a destra. Cammina per due isolati e poi sarai di fronte al Wallace&Bruce. Dì al vecchio Bruce che ti mando io.»
Faccio un sospiro di sollievo.
«Grazie, signor..?»
«Oh, ovviamente io sono Wallace. Harry Wallace.»
Non trattengo un'evidente considerazione.
«Non sono dei nomi molti patriottici.»
I suoi baffi si sollevano, segno che sta sorridendo.
«Dipende in quale nazione ti trovi.»
Lo vedo posare un bicchierino sul bancone.
«Lei non beve, giusto?»
Faccio segno di no con la testa, quindi lui si riempie il bicchiere di vodka.
«Sei Giugno 1944.. Ricordi la data?» 
«Lo sbarco in Normandia.»
Lui annuisce fieramente.
«Ero caporal maggiore all'epoca. Aah, fu una bella battaglia, sì. Tutti riuniti ad un tavolo per decidere come cacciare quei pezzenti ariani. Rafforzammo il fronte e attirammo parecchio l'attenzione del Führer. In seguito, sai com'è andata.»
Alza un braccio, brinda verso di me, poi scola la vodka.
«Mi racconti dell'America.. Com'era?»
Il vecchio Harry ridacchia.
«Beh, io ero di Brooklyn. Quando iniziò l'arruolamento e ci diedero le divise, tutto sembrava dovesse andare per il verso giusto. Si festeggiava, andavamo a ballare, le signorine stravedevano per un soldato in divisa. C'era uno scienziato ai tempi, dalle nostre parti, uno un po' folle che diceva che le auto avrebbero potuto volare o che so io.. Un certo Howard Stark, mi pare.»
Mi lascio trascinare dall'immaginazione e la mia mente lo fa contemplando inevitabilmente come doveva essere la vita di Bucky. Magari doveva aver avuto una ragazza che non lo ha più rivisto.. Dei genitori. Degli amici.
«E ricordo che andò di moda, per un periodo, uno strano tipo vestito in calzamaglia con uno scudo su cui avevano disegnato la bandiera americana.»
Harry si versa dell'altra vodka mentre ridacchia di gusto.
«Lo chiamavano Captain America. E diamine, era di Brooklyn come me!»
Mi raddrizzo immediatamente sullo sgabello.
«Lei conosceva Steve Rogers?!»
Mi ritrovo un'occhiata sorpresa addosso.
«Che cavolo, dovrei essere io a chiedere a lei come conosce Steve Rogers!» 
«N-no io lo conosco soltanto da qualche racconto, ma lei? Lei lo ha conosciuto?»
La sua espressione si fece seria.
«Era diventato un eroe. Un vero eroe. Ha disobbedito a degli ordini per salvarci tutti dopo che eravamo stati imprigionati in Austria dal nemico. Che diamine.. Ne aveva di forza quel giovanotto di Brooklyn.»
Questa volta mi unisco alla sua risata e scuoto la testa; se solo sapesse quanto davvero era forte quel giovanotto di Brooklyn e perché.
«Poi un giorno, semplicemente scomparve. Era diventato un simbolo, la nostra icona. Sa, si vendevano le sue bambole con dei piccoli scudi di caramello che poi i bambini mangiavano.»
Harry scuote il capo e si divora il secondo shot di Vodka.
«In che senso scomparve? In battaglia?»
«Non si sa. Il governo non lasciò trapelare troppe notizie. Ricordo che la perdita del suo amico lo aveva scosso parecchio.»
Sento il mio cuore fermarsi e ho quasi paura di fare la domanda che mi ronza in testa, perché temo di conoscere la risposta.
«E lei lo conosceva il suo migliore amico?»
Harry mi guarda e vedo nostalgia sul suo volto, segno di ferite mai rimarginate.
«Se lo conoscevo? Per tutti gli inferi, ero sotto il suo comando! Il Sergente James Barnes fu il primo a seguirlo quando tornammo in America. Era uno dei nostri migliori cecchini, un uomo valido. Purtroppo lo perdemmo su un treno nemico in Austria. Cadde nel vuoto e lo dettero per morto.»

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