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"Forse Dio vuole che tu conosca molte persone sbagliate prima di conoscere la persona giusta, in modo che, quando finalmente la conoscerai, tu sappia essere grato."
[Gabriel García Márquez]

Mio padre, per così dire, era invecchiato più di quello che immaginavo. Era sempre un bell'uomo, curato nei minimi dettagli, a partire dalle sopracciglia fatte, i capelli brizzolati stirati da una piega perfetta, lo smoking blu scuro e la postura rigida, composta. La stessa che avevo io, quella che lui mi aveva insegnato ad assumere sin da piccola, ad essere sempre composta e perfetta nei minimi dettagli, perché la stampa poteva sempre scattarci foto e video che sarebbero finiti sui giornali. Non dovevamo mostrare nessuna emozione in particolare, soprattutto quelle negative come la tristezza, la rabbia o altro, perché i giornalisti avrebbero potuto crearci dietro qualsiasi tipo di storia a nostro sfavore. Così avevo preso la brutta abitudine di non mostrare mai ciò che portavo dentro, a nascondere la tristezza con un sorriso apparentemente sincero, così realistico che anche adesso nessuno poteva mai capire, a meno che non lo volessi, cosa provassi realmente. Quando ero arrivata, a fianco di Alexander, la sua espressione stupita lasciava capire che non pensava che mi sarei presentata veramente. Eppure dopo qualche secondo era sparita e il suo classico sorriso glaciale, quello senza sentimenti, era riapparso. E anche il mio.
«Allora, Sunshine, cosa ci farai con quei soldi?». Mio padre parlò mentre masticava una fetta di carne al sangue con gusto, ma non aprì bocca finché il pezzo rimasto da masticare non fosse quasi inesistente. Storsi il naso in modo spontaneo e raccontai ogni cosa, mio malgrado, mentre il mio piatto di svuotava. Avevo scelto un secondo di pesce, che preferivo nettamente in confronto alla carne, mentre Alexander aveva ordinato dei ravioli ai frutti di mare.
Quando finì di raccontare si portò il tovagliolo di stoffa alla bocca e non mi guardò neanche. «Non credo sia quello che la figlia di un miliardario come me si meriti».
«Neanche io credo che i traumi psicologici che mi avete dato sia ciò che mi meritavo, eppure eccoci qui. Sono sola e in cura dallo psicologo per colpa vostra, maggiormente tua». Sorrisi acida e Alexander mi diede un calcio da sotto al tavolo.
Mio padre alzò lo sguardo rabbuiato. «Se avessi accettato questi soldi prima adesso saresti ricca e avresti una vita-».
«Una vita cosa, papà?». Ringhiai. «Una vita economicamente migliore sai, forse sì, ma sarei comunque sola perché l'amore vero non dipende dai soldi. I soldi aiutano, ma ci sono cose che neanche i soldi possono comprare».
Sbuffò. «Allora perché li stai accettando?».
Lo fulminai. «Perché voglio che mi lasci in pace. Voglio lasciarmi questo passato alle spalle per cominciare a vivere veramente, non sopravvivere e basta. E per farlo, il mio psicologo mi ha fatto capire che devo perdonare il mio passato, devo perdonare te, la mamma, Konan. Devo perdonare me».
«Quindi mi perdoni per cosa precisamente?».
Scossi la testa lentamente. «Ti perdono per avermi distrutto, per non avermi insegnato nulla nella vita se non come essere la tua perfetta copia, per non avermi mai amato come si dovrebbe amare un figlio, ma-». Deglutì le spine che mi sentivo in gola. «Non ti perdonerò mai per aver distrutto la mamma. Se è morta, è morta per colpa tua e per ciò che l'hai fatta diventare».
Alexander si strozzò con il vino. «Sun-».
Mio padre mi osservò sbalordito. «Come ti permetti».
«Come mi permetto?». Risi. «Sei stato lo sbaglio più grande che lei abbia potuto commettere e ne ho ripagato io che non c'entravo nulla. Eppure io ti perdono, ma non lo faccio perché non sapevi quello che stavi facendo, tu lo sapevi eccome. Ti perdono soltanto perché, se adesso l'amore della mia vita è felice di aver potuto aiutare suo padre ad andarsene libero, è solo grazie a te. Per questo ti devo tanto».
Bevve un lungo sorso di vino e per la prima volta mostrò la stanchezza sul suo volto. «Ho fatto quello che tutti avrebbero fatto, perché in tutti noi c'è un po' di bontà, se solo siamo in grado di trovarla. Mi dispiace averti-». Si fermò per inspirare profondamente. «Mi dispiace averti distrutto, Sunshine, malgrado sia sempre io ad averti creato. E sono felice che tu adesso stia, o almeno provando, ad andare avanti. Comprendo la tua scelta di non volermi più nella tua vita e non ti ostacolerò mai più. Te lo devo».
Annuì. «Non hai salvato me, ma hai salvato Freedle e va bene così».
Sorrise, tornando alla sua solita espressione. «Una persona cara per una persona cara». Lo guardai confusa. «Io ho salvato suo padre e Jaymes sta salvando te».
Guardai Alexander e poi mio padre. «Glielo hai detto?».
«Io no, ma lui mi ha detto che ti aveva già trovato prima che io ti vedessi a casa mia. Ti osservava da qualche mese e avrà chiesto informazioni su Jay, prima di sapere il suo cognome». Alzò le spalle.
Sorrisi lievemente, risentendo la frase di mio padre. Ho salvato suo padre e Jay sta salvando te. «Sì, Jaymes mi ha salvato».
Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un foglietto bianco e me lo porse. «È già compilato, non ti resta che andare in banca e riscuotere i soldi. Fallo prima di partire, ci penserà Alexander a tenerli al sicuro, quando ne avrai bisogno lui ti aiuterà. Sarà la tua spalla destra, come lo è per me».
Annuì. «Ci lasciamo andare, allora?».
«Credo che sia l'unico modo per non distruggerci a vicenda, figlia mia. Noi siamo troppo uguali per stare nella stessa vita». Sorrise.
Sospirai. «Due calamite uguali si attraggono, ma la forza è troppo forte e si spingono via automaticamente».
Stavolta fu lui ad annuire. «So che sei in buone mani, Sunshine. E che non sei affatto sola, soprattutto. Stammi bene e per favore: tieni sempre la testa alta, che forse è l'unica cosa bella e utile che ti abbiamo saputo insegnare».
I miei occhi si fecero caldi. «Lo farò, papà. Impara dai tuoi errori, te ne prego, non fare come me». Mi alzai, al seguito di Alexander, e gli porsi il foglietto più importante della mia vita.
Osservai i suoi occhi verdi, chiari e indefiniti, e sorrisi. «Grazie, Alex. Se tu non avessi insistito, sarei ancora bloccata nel passato». Lo abbracciai.
Mi strinse forte, posando il mento sulla mia testa. «Prego, piccolo sole. Ma dovrei essere io a ringraziare te-». Si abbassò alla mia altezza. «Grazie per aver salvato Jaymes da qualcosa che nessuno aveva notato prima».
Pensai a quella frase per tutto il tragitto in hotel, durante la doccia, mentre mi struccavo e poi per tutta la notte. Quel pensiero non lasciò mai la mia mente, come un promemoria di ciò che potevo fare, se solo volevo. Potevo salvare qualcuno, potevo prendermi cura di qualcuno, ne ero in grado. Nella mattina seguente ero così esausta e di fretta da non aver fatto colazione, il pasto più importante della giornata che puntualmente dimenticavo, e poi mi subivo la nausea mattutina. Di conseguenza non mangiavo comunque. Un loop.
«Sei pronta per un'altra ora di aereo?». Alexander, che stava salendo dietro di me le scale dell'aereo, ridacchiò.
«No». Lo fulminai. «Spero non ci sia nessuno bambino piagnucolante o mi uccido prima che parta».
Stavolta rise fragorosamente. «Potrei piagnucolare io».
«Se lo farai, sarà perché ti avrò preso a pugni io». Sibilai. «Ora zitto e porta rispetto per chi ha sonno».
Fece il segno dei militari. «Sissignore!». Mi ricordò Jay e una mancanza mi strinse lo stomaco.
Mi sedetti al suo fianco su uno dei primi posti dell'aereo, indossai le cuffie e appoggiai la testa sul sedile, chiudendo gli occhi. Da lì non sentì nessun tipo di rumore, attorno a me sparì qualsiasi cosa. Il mio pensiero tornò alle prime ore della mattina, quando ero andata a prelevare i soldi in banca con l'aiuto di Alexander. Quando mi avevano messo davanti tutti quei soldi in contanti, così tanto da dover creare una piramide sul tavolo di vetro, mi ero sentita sbiancare. Ero abituata al lusso, ma mai a sentirli miei. Uscita da lì, lui aveva aperto il borsone dal doppio fondo, e aveva sorriso. «Non vedevo tutti questi soldi in contanti da quando ho fatto la prima e ultima rapina in banca», aveva detto. Io mi ero girata a guardarlo allarmata e lui aveva riso così forte da far voltare le persone verso di noi, alzando i palmi delle mani in aria. «Sto scherzando, scherzo scherzo! Non ho mai rubato niente in vita mia, mio padre mi ha insegnato a sudarmele le cose, non a prendere la via più facile. Credo che tu lo possa notare da Jay», aveva ribattuto. Ci avevo creduto davvero, insomma, aveva la faccia da un possibile ladro. Quando le sue mani, che ormai avevo imparato a riconoscere dai modi poco delicati, mi scossero le spalle, fui tentata di dargli una testata.
Aprì gli occhi, togliendomi una cuffia, e sbuffai. «Ma che vuoi? Lasciami dormire!».
«Dormire?». Strabuzzò gli occhi. «Hai già dormito, Sun! Siamo arrivati in città, idiota».
Mi irrigidì e guardai fuori dal finestrino, notando la pista di atterraggio. Oh cazzo. «Ma sono passati poco meno di dieci minuti per me!».
Alzò le spalle. «È così che funziona il tempo, quando ti interessa una cosa».
Imprecai rumorosamente, mentre prendevo il mio trolley e lui la sua valigia che era in realtà un borsone. Quando fummo lontani da possibili guardie di polizia, mi avvicinai al suo orecchio. «Come mai non ci hanno chiesto nulla e nessuno pastore tedesco ha iniziato ad annusarci, per poi farci finire nei guai?».
Rise. «Vedi troppi film. Abbiamo fatto la dichiarazione valutaria prima che tuo padre ti dasse il bonifico, quindi non stiamo violando la legge, Bonnie».
«Bonnie?». Alzai gli occhi al cielo quando capì il riferimento e mi portai una mano sulla fronte, come a schiaffeggiarmi. «Ci hai appena paragonati a Bonnie e Clyde? Sul serio?».
Sorrise fiero. «Saranno i nostri nuovi nomi in codice, cognata. Ti salverò in questo modo anche in rubrica».
Scossi la testa. «È strano sentirmi chiamare cognata da te, che quando ero piccola eri il mio unico amico». Ripensai al passato. «Ti ricordi quando mi allacciavi le scarpe perché non sapevo ancora farlo?».
Annuì, sorridendo affettuoso. «O quando facevo quattro PB & J invece di due, come in realtà voleva tua mamma, e puntualmente ci scopriva quando ancora stavamo mangiando il primo».
Scoppiai a ridere. «E li facevi pieni di burro di arachidi e marmellata!». Era bello pensare a quei tempi felici, gli unici in cui mi sentivo normale, con un amico a fianco e il mal di pancia per le risate. Quando mio padre, di solito se c'erano particolari eventi, aveva bisogno di lui per un tempo prolungato, Alexander rimaneva a casa mostra tutto il tempo. Dormiva nella camera a fianco della mia, di notte guardavamo film horror, il motivo per cui erano i miei preferiti, mangiavamo schifezze create da lui, giocavamo alla play che mio padre gli aveva regalato poco tempo prima e molto altro. Era il mio compagno di giochi e quando quel tempo era finito, perché lui era diventato grande e anche quando soggiornava da noi aveva del lavoro da fare, mi ero sentita tradita e ferita.
«Sun». Alzai lo sguardo. «Mi dispiace se-».
«Sunshine Idony Nowak!». Strillò la biondina, mentre camminava con furia verso di noi. «Come ti viene in mente di partire senza dire nulla?!».
Dietro di lei, un Calum arrabbiato camminava nello stesso modo. «Per caso ti sei bevuta il fottuto cervello?». Osservai dietro di loro e avevano tutti la stessa espressione, da Eryn a May.
Jaymes si avvicinò quasi correndo e quando il suo abbraccio mi spostò di qualche metro indietro a causa della forza con cui mi stava stringendo, non potei fare altro che sorridere e sbattere le palpebre sorpresa. «Pensavo fossi andata via per sempre!». Si tirò indietro e poggiò la fronte alla mia. «Non ti azzardare a farlo mai più, Idony Nowak».
«Sunshine». Mi osservò confuso. «Chiamami Sunshine d'ora in poi. Fatelo tutti, per favore. È più adeguato».
Sorrise per la prima volta dopo mesi. «Bentornata Sunshine». E quello, oh, quello era molto di più che un "bentornata in città". Ed io ero grata di essermi innamorata di una persona del genere, anche se tra di noi non sarebbe più andata allo stesso modo.

MepakWhere stories live. Discover now