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"Più rabbia verso il passato conservi nel tuo cuore, meno capace sei di amare il presente."
[Barbara De Angelis]

Non c'era niente di peggio dei giorni in cui la vita ti prendeva a batoste più volte al giorno, come a ricordarti sempre che la vita non era facile. Quella mattina la sveglia non era suonata, quindi avevo perso la possibilità di fare colazione con gli altri fuori casa, mentre pulivo l'appartamento con molta fretta ero scivolata più volte e quasi mi ero rotta l'osso del collo, mi era venuto il ciclo prima di uscire di casa e, cosa più importante, Jay non si era fatto sentire. La signora non mi aveva dato un fiore e qualche cioccolatino da parte sua, non c'era fuori casa, ad aspettarmi appoggiato alla macchina, non mi aveva mandato nessun messaggio, neanche il buongiorno, e quando ero andata a fare benzina alla stazione di servizio, lui non c'era. La sua assenza nelle piccole cose che mi facevano sentire la sua presenza nella mia vita era dolorosamente strana, un po' come se fosse diventata un abitudine che mi era stata strappata. Avevo pensato molto a quello che era successo e ogni parte di me urlava cosa diverse. Non sapevo cosa avrei dovuto fare e questo aveva un solo modo per essere risolto: parlare con Calum. Lui era la mia salvezza, l'unico porto sicuro in cui potevo sfociare.
Quindici minuti dopo trovai parcheggio proprio accanto alla sua moto e ne fui felice. Casa sua era al piano superiore del Cal0x e trovare un posto dove mettere l'auto era raro tanto quanto trovare le sette sfere del drago. Usai la chiave di riserva che mi aveva donato tempo prima per aprire la porta nera, nascosta da occhi indiscreti dietro una tenda rossa all'interno del locale, e arrivata alla porta di casa bussai.
Un Calum con solo un paio di mutande nere addosso mi aprì la porta e nel suo sguardo c'era una rabbia gelata, che appena mi vide sparì. «Non sei la sola, bimba. Di là ci sono Winston e Zander».
Annuì. «Ho bisogno di te».
Non si fece dire altro, semplicemente chiuse la porta dietro di me e con la mano sulla parte bassa della schiena mi portò fino in camera sua, ordinando a quei due di non venire a disturbarci a meno che non fossero quasi morti. La camera di Cal mi era un luogo familiare, ci avevo passato notti e giorni interi quando ero appena arrivata in città, era stato la prima persona a farmi vedere come ci si prendesse davvero cura di qualcuno: con i piccoli gesti.
Mi sedetti sul bordo del letto matrimoniale, coperto da lenzuola nere come chiunque avrebbe immaginato, e lui si sedette di fronte a me, portando la poltrona imbottita davanti al letto. Era nera anche quella. «Ho visto Jay, è venuto con Heron a bere qualcosa stamattina. Era spento, più di quanto lo è stato l'ultima volta, ed è strano. È come vedere una lucciola che non fa un bagliore di luce».
«Grazie eh». Lo fulminai e posai la mano sul mento. «Mi sa che l'ho fatta davvero grossa stavolta».
Ridacchiò. «E l'hai capito adesso? Forza, parlami di cosa ti passa per quella testolina bacata che ti ritrovi».
Sbuffai. «Niente, è questo il problema. Non mi passa niente. Non so ciò che dovrei fare, non so da dove partire, non so-».
«Dovresti parlare con Jay per bene, una volta per tutte. E dico davvero Sun, parlare di tutto, basta segreti, basta incomprensioni, e come andrà, andrà».
Mi osservai le mani. «Il fatto è che non lo trovo, Cal, non so dove sia. Alla stazione di servizio non lavora più, l'anno universitario inizierà ad ottobre e Heron ha litigato con Harriet, quindi non so neanche dove sia il pulcino».
Mi guardò come se fossi stupida. «Perché non vai alla confraternita? Se non è lì, ci saranno Brad, Eryn o Derick che magari ti potranno aiutare a sapere dove si trova».
«Sei un genio!». Scattai in piedi, saltandogli addosso per abbracciarlo, e lui mi prese al volo per fortuna. «A volte il cervello ti gira per il verso giusto, è un miracolo».
Mi fiondai fuori dalla porta, sentendolo ribattere. «Prego, bimba, non c'è di che! Molto gentile!».
Tornai in cammina alla stessa velocità di un siluro, guidando verso la casa, o meglio dire confraternita, dei ragazzi. Per fortuna la Sigma Pi si trovava all'esterno dell'università, quindi aveva un suo parcheggio riservato, e non fu difficile trovare parcheggio.
La porta mi fu aperta da un ragazzo a petto nudo, che mi osservava curioso, e sudato come se fosse appena tornato dalla palestra. «Dimmi pure».
«Cerco un ragazzo che fa parte della confraternita». Indicai l'interno della casa, ma lui attese il nome. «Ja-».
«Lei è con me, schifoso puttaniere, torna ad alzare pesi!». Tuonò la voce di Derick, e il ragazzo mi lasciò entrare, sparendo poi in un corridoio alla mia destra. Indossava solo dei pantaloncini da basketball blu e arancioni, come i colori della Auburn Tigers.
«Giochi negli Auburn Tigers?». Lo guardai sorpreso, mentre mi portava in cucina.
«Certo». Si abbassò per prendere del latte dal frigo e un contenitore pieno di biscotti, che sperai fossero quelli di Bradford, ma non lo erano. «Come pensi che io possa avere un fisico così bello? Perché ammettiamolo, è più che stupendo».
Risi. Non era muscoloso come Jay, né aveva braccia enormi come Brad o spalle grosse come Cal, ma aveva un paio di addominali ben scolpiti, come se fossero veramente di pietra, e qualche tatuaggio sulla parte bassa, alcuni che scomparivano sotto i pantaloncini, che non avevo mai visto. Era un po' il contrario di Cal, che aveva braccia e gambe piene di tatuaggi, ma nel suo petto o nella schiena se ne trovavano esageratamente quattro. Pensai a Jay e a quanto sarebbero stati bene dei tatuaggi sul suo corpo massiccio e sempre abbronzato, tatuaggi che potessero raccontarlo tramite dei disegni. Mi passò un bicchiere con il latte e inzuppai il biscotto con delle gocce di cioccolato, inevitabilmente pensando a lui e al suo odio per esso. Ne aveva passate così tante, eppure era così forte e sempre allegro.
«Jay è in camera sua comunque, da quando è tornato dal Cal0x con Heron non è uscito da lì. Credo non abbia neanche pranzato».
Mi irrigidì. «Come non ha pranzato? E voi non lo avete costretto?!».
«Lo sai anche tu che non si può costringere qualcuno a fare qualcosa che, in testa sua, non vuole fare». Mi guardò di traverso. «Glielo abbiamo detto ma ha risposto come suo solito».
Alzai un sopracciglio. «Ovvero?».
Alzò le spalle. «Che ci è abituato e può sopravvivere anche senza fare tutti i pasti del giorno». La sua voce si era abbassata notevolmente, con un tono di voce più triste. Mi sentì male al pensiero che Jay avesse potuto dire ciò.
«Ti dispiace se vado da lui? Credo che lui abbia bisogno di me come adesso io ho bisogno di lui». Abbassai lo sguardo sulla gonna bianca che indossavo da quella mattina, giocando con la parte svolazzante. Assomigliava a quelle delle tenniste, solo plissettata.
Dalla sua voce capì che stava sorridendo. «Vai pure, mi vida». Quando mi alzai, la sua mano sulla spalla mi fece fermare. «Ricordati che sono anche un tuo amico, Idony, non solo di Jaymes. Siamo amici, Idony. Puoi contare su di me». Gli accarezzai la mano, con un emozione calorosa in pancia e un sorriso affettuoso sul viso.
Mi allontanai verso le scale, che la prima volta avevo paragonato a quelle del Titanic, e quando arrivai all'ultimo scalino mi scontrai con un corpo. Fu proprio come la prima volta che ci ero venuta e speravo vivamente che da quel momento non succedesse più o mi sarei rotta qualche osso prima o poi.
«Scusa, stavo guardando altrove, Idony!». Una mano mi prese per il braccio e mi alzò fino all'ultimo scalino, come se pesassi niente.
«Bradford?». Fui sorpresa di vedere chi mi stava aiutando.
Si osservò intorno. «Sì?».
«Mi stai davvero aiutando?».
Mi guardò come si guarda una pazza. «Che dovrei fare sennò? Spingerti e farti volare giù per le scale?».
Alzai gli occhi al cielo. «È che di solito non sei proprio genti-». Scossi la testa. «Lascia stare». Lo superai, diretta alla camera di Jay, pur non sapendo bene quale fosse visto che non ci ero mai entrata. Eppure lo capì subito nel momento in cui vidi la bandiera di Puerto Rico su una porta e sorrisi, con la certezza che quella fosse di Derick e che quella accanto fosse quindi di Jay. La porta era semiaperta e riuscì a vedere il suo corpo steso sul letto, il petto scoperto dalla maglia stropicciata, le gambe aperte e allungate pigramente sul resto del letto ad una piazza e mezza. Il suo viso era affaticato, come se anche i suoi sogni fossero vicini alla realtà: le sopracciglia aggrottate, la sua bella bocca piegata all'ingiù, ogni tanto storceva il naso e girava la testa di lato. Non resistetti più a guardarlo così affranto per colpa mia e mi voltai, con le lacrime agli occhi. Ero diventata una piangiona, ma che non riusciva a far sgorgare neanche una lacrima. Per colpa mia.
«Idony». Mi voltai. «Vieni con me, lille».
Tirai sù con il naso, cercando di aprirmi le narici improvvisamente chiuse e raffreddate. «Lille?». Lo seguì giù per le scale, dove si trovava camera sua, nella parte inferiore, nel corridoio dietro le scale. Lì c'era anche la camera di Heron.
Vidi due fossette spuntare, seguite da un sorrisetto. «Lille significa piccola in danese. Sono nato in Danimarca proprio come Heron». Ora capivo come Jay facesse a parlare danese e da dove era uscito il soprannome "solsikke".
«Io non sono piccola». Aggrottai la fronte. «Smettetela di dirlo tutti».
Alzò le spalle. «Non è una cosa brutta. Molti pagherebbero oro per tornare ad essere bambini, quando tutto era più facile e si apprezzavano di più le piccole cose». Quanta verità nelle sue parole.
La sua stanza era interamente bordeaux e nera, con alcuni trofei e simili dei nostri Auburn Tigers. «Anche tu giochi?».
Annuì. «Io sono in difesa e Derick in attacco. Una squadra meravigliosa».
Risi e rifiutai il suo invito a sedermi nel piccolo divano di pelle che aveva in camera, in imbarazzo da quella nuova vicinanza. «Perché sono qui?».
Sospirò. «Perché avevi bisogno di un consiglio, non è vero?».
Annuì. «E da quando ti interessa darmi consigli? Non mi hai sempre odiato come nessun altro?».
«Io non ti ho mai odiato!». Spalancò la bocca. «Non potrei mai. Solo che-». Inspirò e imprecò. «Sapevo come sarebbe finita, quindi cercavo di non dare troppo affetto a nessuna di voi. Specialmente a te, che sei la più complicata e testarda».
«Allora perché hai lasciato che lo facessi comunque, se sapevi già come sarebbe finita?». Lo fissai sorpresa, con le spalle che si incurvavano per il pesante peso che sentivo su di esse.
Mi osservò con tenerezza per la prima volta. Quei occhi così scuri, neri quanto i miei, brillavano finalmente di qualcosa che non fosse negativo. «Perché se te l'avessi detto non mi avresti ascoltato». Si avvicinò in tutta la sua altezza e dovetti alzare il viso per continuare a guardarlo. «Se non ti avessi fatto tastare con le tue mani ciò di cui eri convinta di avere il controllo, non avresti mai capito di non averlo. Ti ho fatto provare ciò di cui eri così sicura e ho aspettato che tu capissi che non eri pronta, perché poi non avresti potuto fare altro che darmi ragione. Solo così avresti capito che non ero il cattivo della storia».
Inspirai di scatto e lo allontanai con uno spintone. «Ma hai lasciato che lo facessi più di una volta!».
«Perché non sempre basta che le cose accadano una singola volta per capirne il loro valore! Ho aspettato quanto tempo bastava, quanti stupidi tentativi bastavano, per farti capire che quando ti rimprovero con lo sguardo, quando sono severo con te o perfino odioso, lo faccio perché ti voglio bene e ti sto consigliando la strada giusta che tu non riesci a vedere». Si passò le mani tra i capelli tirandoli un po'. «Puoi dirmi che sono uno stronzo, Idony, ma non che ho torto. Adesso ci sei arrivata a questo ragionamento?»
Sbuffai e tornai seduta sul divano. Capire che la persona che più avevo odiato in realtà non mi odiava, era come veder crollare un castello di sabbia ai tuoi piedi. E soprattutto, capire che in realtà non era sola, che con me non c'era solo Calum o Harriet, ma anche Derick e Brad, era una nuova realtà a cui avrei fatto fatica ad abituarmi. Avrei fatto molta fatica a ricordare di non essere più sola, di non dover per forza pensare a me in autonomia, a lasciare che qualcun altro possa aiutarmi.
Si piegò sulle ginocchia per guardarmi. «Dovresti andare da lui, lille». Si alzò e mi tirò con sé, sistemando la maglietta come se fosse un fratello, e il gesto mi scaldò il cuore.
Annuì e uscì dalla porta, fermandomi prima di uscire totalmente. «Brad». Mi voltai verso di lui, disteso sul letto. «Grazie. Grazie davvero». La sua risposta fu un sorriso affettuoso e quello mi bastò. Avevo già capito che la nostra amicizia sarebbe stata una di tipo silenzioso: niente affetto plateale, ma presenza costante nel bisogno l'uno dell'altro.
Corsi letteralmente su per le scale con la paura che Jay potesse essere uscito e quando arrivai davanti alla sua porta mi bloccai. Avrei dovuto bussare? O, vista la porta ancora semiaperta, solo chiamarlo? Magari mandare un sms o chiamarlo al telefono. Al diavolo, mi dissi. Fallo e basta, Idony.
Aprí la porta con lentezza e lo trovai seduto, con i gomiti sulle ginocchia e la faccia nascosta tra le mani. Sapere che lui era devastato quanto me mi fece sentire un po' meglio. D'altronde, sapere che qualcuno prova lo stesso dolore nostro, che può capirci, ci fa sentire meno soli al mondo. Che non siamo sbagliati, che nell'universo esiste qualcun altro, anche più di uno, che porta il nostro stesso fardello. Che, in un senso contorto, siamo uniti.
«Idony?». Rialzò il busto e il suo sguardo si fissò su di me. Nelle sue labbra suonava meglio il soprannome che mi aveva dato.
«Volevo-». Mi chiusi la porta alle spalle con un lieve tonfo. «Volevo parlare con te, di quello che è successo». Stava per dire qualcosa, ma non lo lasciai iniziare. Se solo avesse iniziato, non avrei più avuto il coraggio di dire ciò che stavo per dire. «Mi dispiace. Mi dispiace di tutto ciò che ti ho fatto, ma più di tutto mi dispiace averti fatto credere di essere cambiata, senza esserlo veramente. Mi dispiace averti ferito, mi dispiace essere quello che sono. Mi dispiace che tu stia pagando il conto di ciò che ha causato qualcun altro e so di essere sbagliata-».
Si alzò di scatto. «Non c'è niente di sbagliato in te! Il fatto è questo. Finché vedrai qualcosa di sbagliato in te, vedrai qualcosa di sbagliato in tutto». Il suo tono frustato e arrabbiato mi ferì leggermente, ma continuai.
«Hai piena ragione». Abbassai lo sguardo. «Ma sappi che non mi arrenderò dal farmi perdonare ad ogni costo. Credo che la cosa più difficile che una persona possa fare quando si sta insieme a qualcuno è riuscire a non ferire e che la cosa migliore sia, al contrario, mettercela tutta per farsi perdonare. So che adesso non ti fidi di me, ma io posso insegnarti a farlo di nuovo, come tu puoi insegnare a me come non ferirti più e io ci proverò. Non sarò sempre perfetta, ma ci proverò, e le volte in cui non riuscirò saprò sempre come rimediare allo strappo. Però niente di tutto questo può succedere solo con le mie forze. Io so che io e te ci vogliamo, quindi ti prego, per favore, Jaymes-». Alzai lo sguardo. «Ricominciamo, volendoci ancora di più».
Chiuse gli occhi, strofinandosi la mano ai lati della tempia, con molteplici emozioni sul viso: tristezza, frustrazione, disperazione, rabbia. Niente di ciò era buono. Poi li riaprì e tutta quella freddezza in quei suoi occhi caldi non riuscivo a concepirla. «Dio, avrei voluto-». Inspirò, chiudendo e riaprendo gli occhi. «Che riflettessi bene su questo prima che io mi innamorassi di te e non adesso. Adesso non c'è più niente da dire».
Strabuzzai gli occhi mentre mi passava accanto senza degnarmi di un altro sguardo e non riuscì a fare altro se non sbattere le palpebre. Quando sentì il tonfo acuto del portone della confraternita mi sedetti sul letto e lo sguardo mi cadde su una foto della sua famiglia posata sulla scrivania. Tutti insieme sorridenti, amorevoli e-
«Famiglia». Sussurrai sfiorando la foto con delicatezza, come se potessi, in qualche modo, distruggere quell'amore con una carezza. Era così basso il pensiero che avevo di me stessa. Mi allontanai scuotendo la testa. «Se solo mi aveste insegnato l'amore, adesso non sarei a questo punto». Mi alzai con fatica, maledicendo la mia famiglia, Konan, il mio passato per ciò che mi aveva insegnato: distruggere ogni cosa.

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