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"Cerca qualcuno che ti faccia sentire il libro preferito, il panorama perfetto, l'occasione giusta,
la parola esatta, la coincidenza miracolosa."
[Fabrizio Caramagna]

La colazione fu la cosa più vicina ad una vera colazione di famiglia che io avessi mai provato. Eravamo tutti seduti attorno al tavolo della cucina e sul tavolo c'era il ben di Dio di cibo. Io e Harriet avevamo preparato i pancake, Jeane e Ethalyn avevano preparato due buonissime torte, una al cioccolato e una alle mele, mentre Jay, Grah e Heron si erano occupati di creare degli american coffee simili a quelli di Starbucks. Il paradiso lo immaginavo in questo esatto modo.
Jay arrivò con un paio di bicchieri alti trattenuti tra le dita. «Ecco a te il tuo amato frappuccino caramel, solsikke». Sorrisi e lo ringraziai.
Heron lo portò alla biondina, che stranamente aveva le guance arrossate e questo me la fece osservare con maggiore criterio. «Per te, bionda del mio cuore, il tuo iced caramel macchiato, con panna e cioccolato sopra». Chiusi volontariamente le orecchie per non sentire cosa lui le stesse dicendo, non volendo vomitare di prima mattina e Jay ridacchiò, dando a sua madre e sua sorella i rispettivi caffè americani. Un white chocolate mocha e un coffee frappuccino toffee nut.
Osservai curiosa il bicchiere di Graham, un tripudio di rosa. «Tu che hai scelto? Non mi pare di averlo mai visto».
Era molto entusiasta del suo caffè o qualunque cosa fosse. «È nuovo! È un cream frappuccino Strawberries&Cream». Me lo porse. «Vuoi assaggiare? Fai pure».
Non so perché, ma i miei occhi si strinsero cercando di fermare un qualcosa di bagnato dentro di essi. Mi portai un dito all'angolo esterno dell'occhio e sgranai gli occhi, vedendo una piccola lacrima poggiata su di esso. Il cuore mi si strinse in una morsa.
«Idony?». Jay mi osservava preoccupato, ma non era l'unico. Solo la mia cara amica bionda era più sorpresa che spaventata.
Mi schiarì la voce. «Scusate un secondo, io-». Non trovavo le parole, quindi mi alzai di scatto. «Torno subito, voi continuare pure, per favore». Uscì dal retro, per fortuna poco distante dalla cucina, perché le gambe erano lì lì per cedermi e farmi ritrovare con le chiappe sul pavimento. Feci il giro intero della casa ben due volte prima di convincermi a sedermi all'ingresso, dove c'era quella sedia a dondolo di legno chiaro che avevo già visto ieri, ma non mi azzardai a sedermi lì. Ero sicura che fosse la sedia di Freedle, il loro padre, e non mi sarei sentita a mio agio. Quindi mi sedetti al suo fianco, per terra, tra la sedia e il legno del portico. Un leggero vento freddo mi regalò un po' di tregua dal caldo afoso del Tennessee. D'altronde era metà agosto, non c'era molto da rimproverare al clima. Poi mi tornò un ricordo in mente.
Ogni mattina mi affaccio dalla finestra per prendere una boccata d'aria, ed è da quando se n'è andato che non me la fa mancare mai, muovendo il vento anche nelle giornate più calorose.
Sorrisi spontaneamente, immaginando che, magari, era davvero il suo modo per dire "sono qui". Mi sentì così accolta, pur essendo da sola, che mi misi a sussurrare una canzone.
«If I told you this was only gonna hurt. If I warned you that the fire's gonna burn. Would you walk in? Would you let me do it first? Do it all in the name of love. Would you let me lead you even when you're blind? In the darkness, in the middle of the night. In the silence, when there's no one by your side. Would you call in the name of love?». Sentì il vento farmi volare i capelli ancora un'altra volta e sospirai. «Sono qui da meno di un giorno e già è cambiato molto, quasi tutto. Mi sono lasciata andare con Jaymes, che è comunque un uomo, ho fatto colazione dopo anni, in famiglia per giunta e poi mi sono commossa». Mi portai le mani in faccia. «Idony Nowak si è commossa, ti rendi conto? Non mi conosci, perciò non puoi, ma credimi è una delle cose più simili ad un miracolo al mondo. Non piango da quando ho visto mia madre essere rinchiusa in una clinica di riabilitazione. Non lo faccio più da quando ho capito che piangermi addosso non mi insegna a rifare tutto da capo, da sola. Non mi ha insegnato a fare il bucato, lavare il pavimento, stendere i panni, tenersi da parte i soldi dell'affitto, cercare di non sprecare luce, acqua e gas, a fare la spesa o a cucinare. E neanche mi ha insegnato a convivere con il silenzio, dove l'unico rumore è "tic tac tic tac tic tac" dell'orologio. L'unica cosa che mi ha insegnato è stata tenermi alla larga da qualsiasi forma di amore, perché se non ami qualcosa, se non hai paura di perdere qualcosa, sei invincibile, no?».
Sentì un cambio di vento alle mie spalle e con la coda dell'occhio notai un paio di ciocche biondo chiaro. Sapevo chi fosse senza dovermi girare. Dopo qualche minuto di silenzio spiccicò parola. «Da quanto non lo togli?».
Aggrottai la fronte, dimenticando che non potesse vedermi, quindi poi fui costretta a rispondere. «Che cosa?».
Sospirò. «Questo muro che ti sei creata attorno, il muro di filo spinato che protegge la tua anima e il tuo cuore dal mondo esterno. Sai, forse proteggere non è propriamente il termine giusto. Più che proteggerlo, lo isola. Perché quando proteggi qualcosa di molto importante lo allontani solo dalle cose negative, quando lo isoli, invece, lo allontani da tutto». Mi girai a guardarlo nel momento giusto, quando un lampo di comprensione gli illuminò lo sguardo. «Anche dalle cose belle».
Deglutì. «Lo dici in un modo che mi fa pensare che tu ne sappia poco più di me».
Sorrise debolmente. «Sì, pulcina dai capelli castani, noi due non siamo così diversi. So bene che cambiare fa paura, perché è più comodo lasciare che le radici crescano nel modo sbagliato piuttosto che estirparle e rimetterle nella giusta direzione. Ma, a volte, un cambiamento può salvarti la vita da un futuro di solitudine. A volte cambiare il modo in cui ci poniamo davanti alla vita è necessario per continuare il nostro percorso. Abbiamo una sola vita e non è mai troppo tardi per fare qualcosa di nuovo». Si alzò e mi aiutò. «O magari non è niente di nuovo, ma solo di diverso». Sospirai, ma non aveva ancora finito.
Spostò il peso da un piede all'altro in imbarazzo e questo mi sorprese. Lui, Heron Murray, in imbarazzo? L'apocalisse era vicina. «Posso chiederti una cosa?».
Lui che chiedeva il permesso? Mio Dio. «Certo».
«Perché ti sei commossa? Sono più che sicuro che non sia stato cucinare con Harriet o Jay che ti ha preparato e portato il frappuccino al tavolo».
Maledizione. «Per Graham e il suo offrirsi di farmi assaggiare il suo cibo. Non l'aveva ancora neanche assaggiato, ma ha comunque pensato a me. Per la sua gentilezza, per i valori che Jeane e Freedle hanno trasmesso ai loro figli, per il loro modo di vedere le cose. Forse è da bastardi dire che sono dannatamente invidiosa di loro, ma è così. Avrei voluto-».
Finì lui al posto mio. «Che la mia famiglia fosse stata così».
Annuimmo all'unisono l'uno alle parole dell'altro. Non sapevo niente del suo dolore e lui non sapeva niente del mio, eppure non eravamo mai stati così vicini emotivamente. Lui poteva capire il peso che portavo nel cuore.
«Forza andiamo, pulcino spennacchiato. Ho bisogno del mio frappuccino».
Sorrise e insieme varcammo la soglia della porta sul retro. «Mi sono illuso che potessi sentire il mio bisogno e non del cibo».
Storsi il naso e mi rivolsi alle persone sedute nel tavolo, tra cui Jay che mi guardava assorto. «Se mai ne avrò, allora è bene che voi tutti cominciate a correre, perché sicuramente Lucifero starà spazzando via la terra». Ethalyn rise di gusto e Heron mi fece il dito medio. Tornai a sedermi accanto a Jay e la colazione passò tra conversazioni semplici, inizialmente su Harriet, i suoi studi, la sua famiglia e poi gli stessi argomenti furono chiesti a me.
Jeane mi sorrise dolcemente. «Quindi anche tu studi arti liberali?».
Annuì, fermandomi un momento prima di rispondere per ingoiare il pezzo di pancake che avevo morso. «Sì, ma il mio studio principale è il disegno».
Graham ne sembrava particolarmente affascinato. «E quali sono le materie che ci sono attorno al tuo corso?».
Sorrisi, felice che ne fosse interessato. Ormai le anime affascinate dall'arte, che essa fosse sotto forma di ritratto, fotografia o quadro, erano rare. «Un po' di tutto: psicologia, filosofia, comunicazione, storia, letteratura, scienze politiche e sociali».
Era così tenero vedere i suoi occhi brillare. «E queste materie si svolgono attorno al disegno o parlano anche di altro?».
Sorrisi nuovamente. «Ci fanno studiare anche cose che non c'entrano con il disegno, così da poterci dare una cultura generale e soprattutto per renderci pensatori critici e spiriti creativi alla fine del corso accademico».
«Di quali argomenti parlate di solito in psicologia, letteratura e materie del genere?».
Mi schiarì la voce, attualmente un po' a disagio. «Per quanto mi riguarda i nostri professori sono i migliori, impegnati a insegnarci l'essenza di ciò che parlano e non la struttura generale. Alla fine di ogni lezione probabilmente siamo sempre persone diverse da quelle che sono entrate». Presi l'ultimo sorso del mio buonissimo frappuccino prima di continuare. «Ad ogni modo, i temi principali di solito sono i sentimenti. Cercano di farci capire come affrontarli nella vita e il nostro professore di disegno si occupa di aiutarci a trasferirli attraverso una semplice matita e un foglio. A volte parliamo di amore, altre di tristezza o rabbia, e altre ancora analizziamo delle citazioni famose su cui poi il professore argomenta sopra al fine di farne capire la sua vera essenza, come dicevo prima».
Graham a quel punto era entusiasta. «È fantastico!».
Mi si riempì il cuore a sentirlo parlare così. «Dopo potrei farti vedere come eseguo uno dei test che ci hanno lasciato da fare, se ti va».
Anche la bionda si unì al discorso. «Anche io ho un compito da fare, se vi va potreste aiutarmi a realizzarlo».
Graham annuì felice e cominciò a liberare la tavola alla velocità della luce, con l'aiuto di noi altri. Presi la palla al balzo e mi avvicinai alla biondina.
«Allora?».
Mi osservò confusa. «Allora cosa?».
Alzai gli occhi al soffitto. «Dimmi cosa succede tra te e il pulcino».
Le sue guance si colorarono di un rosa tenue, cominciando a ridacchiare e a muoversi in modo nevrotico, questo mi fece capire di aver colpito il punto giusto. «Non è niente di ufficiale, però credo di essermi presa il compito di fargli capire che può essere meritevole dell'amore come noi tutti. Anche se si sente sbagliato, anche se i suoi genitori non lo hanno fatto». Mi scoccò un occhiata, come a dire "chissà a chi assomiglia".
Alzai le spalle. «Per quanto preferirei essere morsa da un cobra piuttosto che dirlo, Heron è un bravo ragazzo malgrado la vita non lo sia stata con lui».
Mi guardò con un espressione indecifrabile. «E non è l'unico, Sun».
Osservai Jay, sentendomi stringere il cuore nel sapere in che guaio ci stavo cacciando. «Non ne sono così sicura». Sospirai e mi allontanai per portare i piatti a lavare. Ma lei si avvicinò nuovamente, cocciuta come un mulo.
Sembrava irritata, dalla rigidità dal suo corpo. «Perché devi sempre pensare al peggio?».
Mi girai di scatto, ormai furiosa. «Ho mai sbagliato tutte le volte in cui l'ho fatto?». Non rispose, quindi mi avvicinai di più a lei. «Dimmi, Harriet, è mai successo che il mio aspettarmi il peggio si sia rivelato sbagliato?».
Il suo sguardo si piegò fino ad arrivare ai nostri piedi e la sua testa si girò di lato, con la mascella stretta in una morsa nervosa. Neanche questa volta mi rispose, sapeva anche lei della verità delle mie parole. Mi osservai intorno, sentendo lo sguardo di tutti i presenti su di noi. Heron era visibilmente irritato, Jay mi fissava aggrottando la fronte e la sua famiglia distolse subito lo sguardo, tornando a fare ciò che avevano iniziato. Mi recai verso la porta e all'ultimo alzai la testa, ma senza girarmi. Harriet sapeva che stavo per rivolgermi a lei. «Credimi, biondina, questa cosa finirà male per tutti».
Una volta fuori dalla casa cominciai a camminare senza una meta precisa, mi succedeva spesso in luoghi di campagna, specialmente la mattina in cui il sole era forte, ma c'era anche una lieve brezza fresca che mi accarezzava la pelle. Avevo un semplice vestito bianco con dei fiori azzurri, che aveva le maniche a palloncino e mi arrivava fino a metà ginocchio, con un taglio netto sul lato che lasciava libera la gamba sinistra. Era leggero, quindi non portava caldo malgrado il clima elevato della città. Mi ero avvicinata a quei quadrati di fiori colorati che avevo notato ieri, ma non mi azzardai a toccare nulla per paura di rovinare qualcosa. D'altronde ero molto brava a rovinare tutto, no? Di cose belle nella mia vita non c'è n'erano, perché la sensazione irremovibile di sentirmi sempre sola non me ne lasciava averne. Quanto il mio corpo rimase lì, in quel punto, seduta sull'erba morbida e verde, con la mente a tutti i momenti belli che potevo ricordare con affetto, io non lo sapevo. Mi resi conto che ne avevo ben pochi e la maggior parte erano tutti da quando ero arrivata ad Auburn: le risate durante le lezioni di filosofia con Harriet, le serate al Cal0x a fare la cavia per i nuovi drink analcolici, giocare a Ramino insieme a May nelle ore buca dell'Università, sedute sotto l'ombra di un albero, o gli scherzi che creavo con Angel nel periodo di Halloween, tutti dedicati ad Harriet e la sua paura verso i clown. Rividi la cena con gli amici di Jay ed Heron, dove Derick ci prendeva in giro per i nostri gusti, Eryn appoggiava i miei esperimenti e Bradford ci offriva i suoi buonissimi biscotti. Riuscì a sentire la risata di Jay nelle orecchie, quando aveva scoperto il mio amore per gli scoiattoli che mi faceva strillare in qualunque posto fossi, o le dolci carezze che mi aveva fatto il giorno prima, pensando unicamente a me e al mio piacere. Era diverso, me ne rendevo conto, e anche il mio cuore era in grado di percepirlo, mentre il mio cervello si rifiutava categoricamente. Decisi di rientrare, non volendo passare per la scansafatiche che arrivava a malapena in orario solo per sedersi a tavola, e varcata la soglia un enorme silenzio mi accolse. Aggrottai la fronte e passai dal salotto prima di fermarmi di botto. Jaymes era steso sul divano, con le gambe che fuoriuscivano per via dell'altezza e con la maglietta marrone un po' rialzata, con la parte bassa dell' addominale totalmente scoperta. Potevo vedere l'inizio del solco della V che quasi tutti i maschi portavano, più o meno definita in base ai muscoli. Lui non era esageratamente muscoloso, come per esempio Calum che aveva le spalle grosse quanto un armadio, ma non era neanche esile come Eryn. Era il giusto equilibrio, con la vita stretta, gli addominali duri e la schiena più muscolosa rispetto al resto, così come le braccia e le grandi mani. Probabilmente li aveva sviluppati con i lavori che era abituato a fare in fattoria o al resto dei lavori che aveva fatto per sostenere economicamente la sua famiglia con la morte del padre. Non mi piaceva sapere che avesse sofferto nella vita, ma era una cosa che prima o poi succedeva a chiunque. Nessuno poteva scappare dal dolore tanto quanto dalla morte.
«Si è addormentato mentre ti aspettava, non era sua intenzione». La voce di Jeane mi fece sobbalzare dalla sorpresa.
«Non lo stavo osservando per questo, capisco che è molto stanco». Mi girai verso di lei. «Osservavo la sua espressione tesa più che altro. Sono abituata a vederlo sempre rilassato».
Sorrise debolmente. «Era preoccupato per te, tesoro. Si è addormentato con il tuo pensiero in mente probabilmente».
La mia bocca formò una "O" muta. «La sua espressione tormentata è colpa mia?».
Mi sentì improvvisamente in colpa e lei sembrò notarlo. «Non è per niente colpa tua, tesoro mio. Mio figlio è sempre stato interessato alle cose rotte, ad aggiustare piuttosto che a creare. Ha una dote innata nel prendersi cura delle persone, ma a volte si dimentica la cosa più importante». La guardai dubbiosa e lei continuò. «Non tutti vogliono essere aiutati».
Inspirai. «Cambiare vita non è facile».
Scosse la testa comprensiva. «Immagino di no». Il suo sguardo si posò sul divano e poi passò più volte da me a suo figlio. «Posso darti un consiglio come se lo stessi dando ad una delle mie figlie?».
Sorrisi. «Certo. Non sono abituata a ricevere consigli, io non ho-». Deglutì. «Non ho una bella famiglia come voi».
Mi accarezzò dolcemente la schiena. «Anche i peggiori possono imparare ad amare, se lo si desidera». Mi sorrise un ultima volta e poi mi lasciò completamente sola ad osservare suo figlio, quasi come una maniaca. Quanto avrei voluto passare le dita sul suo viso per distendere quelle pieghe tormentate che non riuscivo proprio ad accettare su di lui. Era come accettare che la stella più luminosa del cielo un giorno possa spegnersi: impensabile, ma purtroppo vero. Lo osservai un altro po' e un idea bussò alla mia mente, che accettai con affetto. Presi una sedia badando a non fare rumore, portandola davanti al divano, e salì le scale a due a due per fare più in fretta, cercando i miei studenti da disegno nell'enorme borsone che avevo portato. Non lo lasciavo mai a casa, era con me in ogni giorno e luogo. Presi anche le cuffie, così da isolare possibili rumori attorno a me e anche per isolare i miei pensieri. Disegnare a mente piena non era sempre conveniente, soprattutto se il soggetto era delicato e dolce come Jay. Presi posto sulla sedia, aprì una pagina vuota e impugnai la matita in modo molto leggero, senza forzare la presa. Inserì le cuffie e feci partire la riproduzione casuale, che fece partire train wreck di James Arthur.
Cominciai a tracciare le linee del suo viso addormentato, la tensione delle sue sopracciglia, la bocca tesa quasi in una smorfia, il braccio posato sotto la nuca come appoggio. Non mi fermai, estraniata nel mio mondo, finché la cuffia destra non mi cadde in grembo. Fulminai la persona al mio fianco ma quando vidi il volto giovane di Grah mi costrinsi ad addolcire i lineamenti.
Mi fissò divertito. «Ti ho chiamato più volte ma non mi sentivi».
Storsi il naso. «Scusa, ero assorta. Dimmi pure».
Parlò a voce bassa per non disturbare Jay, ma dubito lo facesse veramente per lui, più per non rovinare il mio lavoro in corso. «Posso osservarti? Non ti disturbo, promesso. E non parlo neanche».
Sorrisi. «Certo, non c'è problema». Gli porsi una cuffia e lui la prese, pur essendo dubbioso. «La musica ti aiuta ad isolare i rumori ed i pensieri». Annuì sorpreso, come se non ci avesse mai pensato prima, e feci ripartire la playlist. La musica era cambiata, facendo partire Saturn di Sleeping At Last e dovetti concentrarmi sulla matita per far calmare il mio battito frenetico, scatenato da quella meravigliosa melodia. Non c'era altro per descriverla, così triste ma così bella, era come se fosse venuta da un pianeta lontano. E se avessi dovuto descrivermi con una canzone sarebbe stata lei la prescelta, non sapevo perché, il testo forse non era neanche adatto a me visto che in essa c'era la morte, eppure la sentivo mia. Mia per il suo inno alla vita, mia per la dolcezza di una frase che era stata detta, mia per il tempo perso di cui parlava. E grazie a quella canzone ero riuscita a far capire a Sunshine, così chiamavo la parte di me che reputavo ancora piccola, che non c'era davvero niente di più bello del semplice esistere, del semplice vivere. Se non avevo mai provato a fare gesti estremi, un tempo, forse era solo grazie a questo.
Sentì Graham inspirare di scatto quando, sfinita mentalmente e con un lieve indolenzimento della mano, richiusi la matita nell'astuccio insieme ai miei colori. Alzai di scatto dello sguardo sul divano, sentendomi osservata, e mi ritrovai due occhi dalla profondità di un pozzo, in cui dentro aleggiava ogni cosa da cui sarei dovuta scappare. Il suo sguardo, caloroso e bronzato, era intrinseco di emozioni: preoccupazione e rabbia per la maggior parte, ma ad ogni modo c'era sempre la dolcezza in fondo al suo sguardo. La bontà in lui non mancava mai.
Il suo viso era stravolto dalla botta del sonno, con le palpebre pesanti e la bocca ancora tesa, impegnato a fissarmi. «Da quanto siete messi lì?».
Graham sorrise e rispose al posto mio. «Due ore».
«L'ho chiesto a lei, non a te, idiota».
Grah gli fece il dito medio e io ripetei la sua stessa frase. «Due ore». Chiusi il quaderno dei disegni con uno scatto furioso. «Aspetta un secondo. Due ore?!». Mi girai verso il ragazzetto al mio fianco.
Lui sorrise e annuì. «Il tempo per te sarà passato velocissimo ovviamente, ma per me, che non avevo altra scelta se non osservare quel rompipalle sul divano, è stato più noioso che osservare una lumaca stri-».
Un cuscino atterrò sulla sua faccia, seguito da un grugnito infastidito di Jay e la risata fragorosa di suo fratello. Jay si alzò di scatto, senza il pensiero di alzarsi i jeans che ormai erano calati fino a mostrare la V che il mio sguardo aveva osservato con particolare attenzione, e mi agguantò il polso.
Si risolve a Grah. «Vieni a bussare quando la cena è già pronta, non prima».
Lui annuì senza aggiungere battute o altro, riconoscendo la furia del fratello e questo mi fece leggermente preoccupare. Mi tirò dietro di lui, salendo le scale, senza però farmi male, eppure il panico mi stava già colpendo con i suoi gelidi e grossi artigli.
Speravo che la mia voce non uscisse disperata. «Jaymes, lasciami». Non mi calcolò, spingendomi delicatamente oltre la porta della sua camera e con il piede la chiuse alle sue spalle. Mi osservai intorno, imbarazzata, e quando riportai gli occhi su di lui lo vidi alzare la mano di scatto verso il mio viso, forse per togliermi qualcosa dalla faccia. Sapevo che non mi avrebbe fatto del male, ma il mio corpo fece spontaneamente la cosa più sbagliata: chiusi gli occhi, preparandomi ad un colpo che sapevo non sarebbe mai arrivato.
Lo sentì inspirare disgustato. «Idony».
Aprì gli occhi e lo guardai, sentendomi in colpa. «Mi dispiace Jay, non è qualcosa che posso control-».
Me lo ritrovai di fronte in pochi secondi, sentendo le sue mani sulle guance e lo sguardo che sembrava volermi entrare nel cervello. «Ascoltami bene una volta per tutte, perché non lo ripeterò più. Dovrà essere spontaneo per te saperlo». Annuì, incapace di fare altro. «Non ti farei mai del male. Niente giustifica nessun tipo di violenza e io non te ne farò mai alcuna, che sia la violenza fisica o psicologica. Se mai userò la violenza non sarà contro di te, bensì contro qualcos'altro al solo fine di difenderti».
Mi lasciò andare solo per rispondere. «Lo so, Jay. Hai troppa bontà dentro di te, non potrei mai dubitarne».
La sua espressione cambiò in un nano secondo, tornando a guardarmi con quella dolcezza che mi faceva mancare la terra sotto ai piedi. «Chiariamo un'altra cosa». Mi sfiorò la guancia con le nocche. «Ti ricordi quando, per il mio compleanno, mi hai fatto quella montagnetta di Hamburger con le candeline sopra e poi mi hai ordinato di esprimere un desiderio e spezzarne una? Ecco, mi hai ripetuto ancora una volta che "c'è sempre una prima volta" ed hai ragione». Si avvicinò al mio viso fino a unire i nostri respiri e le sue labbra sfiorarono le mie, facendomi bruciare lo stomaco di un valore affettivo. «Quella è stata la prima volta in cui il desiderio che ho espresso è cambiato, perché ho desiderato te».
Okay, no, era troppo. Troppo in fretta e fin troppo-. I miei pensieri vennero arrestati dalle sue labbra sulle mie, frenetiche e allo stesso tempo dolci, fin quando la sua lingua non premette nel punto giusto, chiedendomi l'accesso, e lo lasciai fare, dischiudendo le labbra. Le nostre lingue si sfiorarono più volte e non riuscì a trattenermi dal succhiargli il labbro inferiore, sentendo un gemito profondo affiorare dal suo petto. Iniziò a farmi indietreggiare di proposito verso il letto, finché il retro delle mie ginocchia non colpì la base di ferro del letto, e poi mi ci spinse sopra usando poca forza. Mi finí sopra, cosa che mi fece ridacchiare sulle sue labbra e lui inghiottì la mia risata con un sorrisetto, continuando a baciarmi con dolcezza. Le sue labbra sulle mie si muovevano come se quell'azione fosse il suo sport preferito. La mano finí sulla mia coscia, tirandola verso la sua vita, e cominciò ad accarezzarmi su e giù con delicatezza, mentre sentivo la mia pelle bruciare. Era una sensazione meravigliosa. La vibrazione del suo iPhone e poi la classica suoneria non ci permise di continuare, mentre sentivo Jay ringhiare frustrato. Lo prese con poca delicatezza e cliccò la cornetta verde. Quando vide il nome "Wilde" mise il vivavoce, permettendomi di ascoltare la conversazione, quindi era una persona che avevo già conosciuto forse.
«Che vuoi?». Di sicuro avevano confidenza.
La voce dall'altro capo del telefono mi era familiare. «Gentile come sempre fratello, comunque ti ho chiamato perché non volevo salire e bussare, non che la visione di Idony magari svestita poss-».
Jay sibilò come un cane. «Vai al sodo o scendo e trasformo il tuo culo sodo in un uovo sodo».
La voce familiare ridacchiò e capì subito chi fosse: Graham. «Sono arrivati i nostri altri due fratelli, sai quelli che sembravano averci abbandonato? Sì, loro, si sono ricordati di-». Ci fu un tonfo e poi un rimprovero di Jeane, la risata di Ethalyn e una voce a me sconosciuta, ma femminile. «Ahia, cazzo, Alex! Sei un ba-». Un altro frastuono e la voce di Heron prese il posto di quella di Graham. «Scendi cazzone, tutti aspettano di conoscere Idony. Ho già rovinato le loro aspettative dicendo che è una gran stronza».
Assottigliai lo sguardo. «Prega Zeus che mi faccia cadere in modo violento dalle scale, perché se arrivo intatta al salotto ti stacco la mano e te la ficco su per il-».
Heron fischiò e Jay mi sovrastò la voce con la sua risata. «Va bene, va bene, arriviamo». Chiuse la chiamata e mi osservò sorridendo.
Mi sentì a disagio. «Che c'è?».
Non smise di sorridere. «Sei assolutamente fantastica, amore».
Il soprannome "amore", detto dalle sue dolci labbra, mi mandava mille dosi di adrenalina per tutto il corpo. Ma, come sempre, decisi di ignorarle. Non potevo dargli ascolto.

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