Accademia

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Quando fu sera, Davide sentì di aver ripreso le forze.

Le radiazioni avevano dato una bella botta alla sua salute, ma la medicina del venticinquesimo secolo era molto avanzata, e le pillole erano riuscite a fargli assorbire le scorie che il suo corpo aveva attratto sotto i raggi del sole.

Aveva mangiato insieme all’immortale, una cena sostanziosa che era servita a ricaricarlo, a rinfrescargli la mente.

Giulia gli ricordò l’identità del suo viaggiatore, compresa di numero identificativo, e non appena il sole tramontò si sentì pronto a mettersi in azione.

Sentiva ancora i muscoli un po’ indolenziti e un vago senso di nausea, ma niente che non potesse ignorare per il bene della sua missione.

Si allisciò gli abiti, spalmò la crema solare in dotazione – necessaria di notte per via dei raggi del sole riflessi dalla luna – e Giulia lo aiutò a rimettersi il trucco, ormai sbavato. Per il tempo in cui il sole ebbe passato la linea dell’orizzonte Davide era pronto.

“Torna qui in tempo per il nostro obiettivo. E con le informazioni.”

“Ci sarò.”

Era in piedi, al centro della stanza, con il bracciale al polso pronto a saltare.

“Stai attento,” gli disse, “e non dimenticare quello che ti ho chiesto. Altrimenti ti denuncerò all’Accademia.”

I suoi occhi, scuri e penetranti, erano più decisi che mai.

“È una promessa,” rispose Davide, che pure sapeva che non avrebbe messo quella richiesta al primo posto, e dopo aver selezionato data e luogo saltò.

La funzione di emergenza del bracciale lavorò proprio come avrebbe dovuto, e lui si ritrovò nel cortile dell’Accademia, a milleseicento chilometri di distanza, nel tempo di un battito di ciglia

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La funzione di emergenza del bracciale lavorò proprio come avrebbe dovuto, e lui si ritrovò nel cortile dell’Accademia, a milleseicento chilometri di distanza, nel tempo di un battito di ciglia.

L’edificio dell’Accademia era cambiato poco, nell’ultimo secolo. Il piano inferiore, quello più moderno, aveva subito delle modifiche importando una lastra di vetro oscurato a coprire l’entrata, era impossibile vedere al suo interno.

I piani superiori, che facevano parte di un palazzo storico, erano rimasti quasi invariati, oltre alle imposte potenziate in ferro che poteva intravedere alla penombra notturna, di certo implementate per non fare entrare il sole durante il giorno.

Attraversò il piccolo giardino e si rese conto che le piante al suo interno erano diverse da quelle a cui era abituato. Il giardino che lui ricordava era coperto di erba verde e aveva degli alberi di gelso e un susino, mentre in quel momento aveva un tappeto di macchia mediterranea, arbusti bassi e dal verde sgargiante, che mandavano un intenso profumo di lentischio ed elicriso. L’erba su cui posavano questi arbusti era ingiallita, secca, e al suo camminare scrocchiava sotto le scarpe come le foglie in autunno.

Accademia CronoWhere stories live. Discover now