“Cassio, io… io… non lo so. Non so se quello che ti è successo ha uno scopo. Mi dispiace che ti sia stata tolta la possibilità di essere normale. Ma ora è così, e se puoi fare qualcosa per aiutare gli altri, se puoi renderlo qualcosa di bello allora penso che sarebbe giusto farlo.”

Il suo Cassio gli avrebbe risposto che non gli importava niente degli altri. Il suo Cassio gli avrebbe risposto che avrebbe maledetto chiunque l’avesse ridotto così, ma non il ragazzo che aveva davanti. Quel ragazzo non era ancora stato disilluso dalla sua lunga esistenza. Era ancora buono, animato da buoni sentimenti, era ancora innamorato della vita.

“Hai ragione,” rispose infatti, e il cuore di Davide si contorse dal dolore al pensiero di quanto l’immortalità avesse rovinato questo suo spirito generoso e buono. “Faremo ciò che è giusto. Salveremo la Repubblica. Lo faremo insieme.”

“Domine,” uno schiavo si affacciò dall’arco che portava all’atrium, abbassando la testa con fare ossequioso. “La signora è tornata.”

Cassio annuì, poi si voltò verso Davide. “Non una parola con mia moglie. Non voglio coinvolgerla, non se lo merita.”

“Tu la ami?” la domanda gli scappò prima che potesse trattenersi. Si morse il labbro, già pentito della sua domanda. Chi amava o non amava questo Cassio non era affar suo. Probabilmente non lo sarebbe mai stato.

Il ragazzo sorrise, un sorriso malinconico. “Lei mi piace. Ma l’amore non ha niente a che fare con il matrimonio.”

Una ragazzina entrò dall’arco che dava sull’atrium, vestita di una lunga tunica stretta da una cinta sotto al seno, due orecchini pendenti d’oro e un’intricata acconciatura che le passava intorno alla testa. Aveva i capelli color del caramello, gli occhi scuri e una corporatura robusta, come si addiceva allora alle donne del suo rango che potevano permettersi di mangiare. Aveva il volto armonioso, i fianchi a clessidra, ed era bellissima.

“Livia!” esclamò Cassio, sollevando nuovamente il bicchiere. “Luce della mia anima, vieni a sdraiarti con me.”

Davide ignorò la sensazione sgradevole di acido che gli aveva invaso lo stomaco.

La ragazza, non avrà avuto più di sedici anni, obbedì. Sorrise a Davide in modo tirato e si stese accanto a suo marito, dall’altro lato rispetto a quello dove si trovava lui. “Mi vuoi dire chi è il tuo amico? Perché non ci sono i servi?”

“Li ho mandati a prendere altro vino,” mentì Cassio, con una naturalezza che non avrebbe mai perso. “Livia, questo è Davide, un mio vecchio amico. Davide, Livia. Mia moglie.”

“Tanto piacere signora,” rispose Davide, mantenendo un tono educato senza sbilanciarsi.

“Che buffo nome. Giudeo, se non mi sbaglio.”

Davide annuì. “È così. Vengo da una comunità ebraica ai confini dell’impero, verso la Palestina.”

Livia rise, ma era una risata un po’ forzata. “Non hai proprio l’aria del palestinese!”

“Ce ne sono di tutti i colori e di tutte le forme.”

“Hai ragione,” rispose Livia, allungandosi per prendere un bicchiere di vino. “Al giorno d’oggi non si capisce più niente. Galli neri, palestinesi bianchi, ormai è diventato impossibile riconoscerli.”

“Livia, non fare la maleducata,” la ammonì Cassio.

“Nessuna offesa, davvero,” intervenne Davide. “Me lo dicono tutti.”

“E com’è possibile, ebreo dai capelli d’oro, che tu conosca mio marito? Tanto da essere vecchi amici, persino.”

“Suo padre commercia spezie,” rispose Cassio, senza dargli la possibilità di parlare. “Si incontrò con mio padre diversi anni fa per affari, da quel giorno siamo rimasti in contatto via lettera. Ora è succeduto al padre ed è venuto sin qui per rinsaldare i nostri rapporti commerciali.”

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