13. Liberi e soli

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"Ella appariva, così, la donna di delizia, il forte e delicato strumento di piacere, l'animale voluttuario e magnifico destinato a illustrare una mensa, a rallegrare un letto, a suscitare le ambigue d'una lussuria estetica. Ella così appariva nello massimo della sua animalità: lieta, irrequieta, pieghevole, morbida, crudele."
Gabriele D'Annunzio


Il tempo sembra costretto in una clessidra bloccata. I granelli si sono addensati in un coagulo che impedisce agli attimi di scorrere. Ormai è in gabbia da troppo tempo, tanto che il corpo è deperito e i denti stanno cominciando a caderle. Ne ha sputato uno qualche ora prima fra sangue e saliva.

Ayar rimane su quel gelido pavimento fino a sentire il corpo a pezzi, privo di energie, ogni ricordo felice annientato e rivissuto fino all'esaurimento solo per avere qualcosa da fare. Sente le tempie pulsare per il dolore, è talmente fragile che diviene difficile perfino sollevare un braccio. Ha smesso di lottare contro la catena e il collare che la tengono bloccata, scivolando contro la parete e portando le ginocchia al petto, abbracciandosi da sola per sentire un po' meno il freddo.

E nel silenzio assoluto, fra i rimbombi dei fantasmi e i ricordi delle urla rimaste appiccicate come umidità sulla pietra, stridule sinfonie che le sfiorano l'udito e si ritraggono in un ciclo infinito, finalmente ha un accenno di vita. 

Il rumore di alcuni passi che scandiscono i momenti, la sensazione di soffocare, e l'odore inconfondibile del sangue, da qualche parte. Il sangue di Edvin.

Non lo ha mai desiderato così tanto. Non è mai stata tanto felice di vederlo.

La luce circolare di una torcia illumina il buio, le ferisce gli occhi. Corre con le dita a coprirseli, accecata, e Edvin sposta il fascio dalla sua vista.

«Spero che tu sia qui per tirarmi fuori», dice, mantenendo alta l'arroganza. Non vuole trascorrere nemmeno un altro momento lì dentro, al gelo e con quella fame addosso.

«Mi piacerebbe poterti aiutare, ma finirei nei guai a mia volta», Edvin le si avvicina, «posso darti un po' di sangue, ti sentirai meglio.»

Ayar non è convinta dalle sue parole, anche se la fame dovrebbe renderla cieca. «Perché? È un gesto troppo gentile per essere una tua idea.»

«Sei qui per colpa mia», sospira Edvin, «il minimo che posso fare è aiutarti. Quando ero nella tua stessa condizione pregavo affinché qualcuno venisse in mio soccorso. So come ci si sente, so che non smette mai.»

«Tu nemmeno mi volevi qui. In fondo sei felice che sia andata così», Ayar non riesce a fidarsi di lui.

«D'accordo, se non lo vuoi posso andarmene», non intende insistere. Se quella gentilezza non le sta bene, se non le importa che sia sceso fino a laggiù approfittando dell'assenza di Kilian, allora non si merita nulla.

«No!», lo ferma Ayar, si alza in piedi sulle gambe instabili, ma è così debole che cade al suolo, ancora, e la pietra le graffia le ginocchia costellate di lividi.

Edvin sorride, si abbassa sul pavimento per avvicinare la gola alle sue labbra, il cuore stretto in una morsa di pietà e compassione.

C'è anche dell'egoismo, dietro alle sue richieste. Edvin ama il dolore, lo adora in ogni sua forma. Gli piace procurarselo, ma apprezza anche quello che gli fanno gli altri. Gli piace accendere le sigarette, fumarle e poi spegnersele sulla pelle, sentire l'epidermide che si apre e che brucia, sfrigola e si sporca di cenere. Gli piace incidersi le braccia con le lame. Prendersi a morsi fino a lasciare i segni dei denti, fino a sentire il sapore del sangue, fino a vedere i lividi: amorfe macchie violacee che supplicano pietà e indicano il devasto.

Effetto LuciferoWhere stories live. Discover now