11. Perdere il controllo

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"Ho paura talvolta anche del mio sangue che pulsa nelle arterie come, nel silenzio della notte, un tonfo cupo di passi in stanze lontane."
Pirandello

Ayar segue i corridoi che la conducono alle gabbie con il cuore che batte a un ritmo forsennato. Ha dimenticato, in quei giorni, che è inquietante da morire stare lì sotto, camminare fra i tunnel asettici e sentire i lamenti, il graffiare lugubre contro ai muri, come se sotto la terra ci fosse qualcuno che urla e stride per farsi ascoltare. Sfuma nel suono dolce del vento, e Ayar ingoia il groppo che le chiude la gola e si ripete che è tutto frutto della paranoia, sono allucinazioni uditive – in fondo ha avuto un'allucinazione poco prima, con quella rosa e con le ferite delle spine, perciò ha compreso che non può affidarsi alla sua mente. Non è più attendibile, e non sa perché. Spera che non siano effetti collaterali dell'ipnosi, ma una cosa è certa: chiederà delucidazioni a Kilian appena avrà finito con il suo lavoro di quel giorno.

Raggiunge Edvin, nota che ci sono due sedie di fronte alle gabbie ancora chiuse e sigillate con i lucchetti. Sul tavolino in corridoio, inoltre, sono presenti degli oggetti in disordine e Ayar non riesce subito a capire di che cosa si tratta.

«Eccomi», si annuncia, «che dobbiamo fare? Spero niente di faticoso, non mi dispiacerebbe tornare a quello che stavamo facendo poco fa», aggiunge senza freni, anche se le guance le si tingono di rosso – è inevitabile. Però non può zittirsi e fargli credere che pensa sia stato tutto un errore, perché mentirebbe a entrambi.

Le è piaciuto, anche se è durato poco e sono stati interrotti sul più bello.

Edvin sembra irrigidire le spalle a quelle parole, i nervi tesi. «Dobbiamo rasare i capelli a tutte e cinque.»

Non risponde al resto, si preoccupa solo di darle quell'ordine, poi raggiunge gli oggetti sul tavolo, afferrando un paio di forbici. «Se ne rasiamo due a testa finiamo in fretta», dice, e raggiunge la prima gabbia.

Mette le manette alla prima ragazza, immobilizzandole le mani sul ventre. Ha lunghi capelli mossi e scuri, tagliarli è un peccato, ma non possono farsi sopraffare dalle emozioni e dall'inumanità di quel gesto. È solo per l'esperimento.

È solo perché sono costretti.

Ayar è rimasta immobile al suo posto.

«Vuoi rimanere lì a fissarmi ancora per molto o pensi di darti da fare?», le chiede Edvin, spostando gli occhi su di lei. 

Si accorge che ha un'aria strana e spaventata sul volto, il suo sguardo raggiunge i piccoli fori sul collo della vittima. 

Quelli che lui le ha lasciato poche ore prima.

E allora Edvin comprende il perché di quella reazione e sposta i capelli dall'altro lato per coprirli, anche se sa che non potrà nasconderli in eterno.

Non si preoccupa neppure un attimo del numero sul cartellino e dell'identità di chi ha di fronte, ma comincia a tagliarle i capelli per accorciarli e rasarli in seguito con un rasoio elettrico. Non si cura già più delle lacrime, della paura di chi subisce e supplica. Sono preghiere che non lo raggiungono, vengono cancellate nel momento esatto in cui le ascolta.

Non può provare compassione, né pietà.

Non è più permesso.

E in fondo sono soltanto capelli. C'è di peggio, Edvin sa come andrà a finire. Sono solo all'inizio, ed è sempre un ciclo ben scandito nella sua testa. I risultati non cambiano, non sono mai cambiati.

Kilian ha voluto modificare lo schema iniziale, aggiungere una seconda guardia, ma è una guardia che non riesce neppure a fare il suo ruolo.

Ha sempre saputo che Ayar non sarebbe stata in grado di fare niente.

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