14 - Desiderio d'amore

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Lei desiderava un sorriso
una musica muta
una riva di mare
per bagnarsi
il suo amore impossibile.
(A. Merini)

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Kageyama era distratto.
- Allora, Tontobio, che fine hanno fatto le tue alzate regali? - continuava a canzonarlo Hinata.
- Pensa per te, cretino! Per te, e per le tue lacune nella tecnica! -

Tuttavia, se lo chiedeva anche lui. Che ne era stato della sua precisione quasi disumana? Perché quel pomeriggio assolato di fronte alla palestra del Karasuno, i capelli di Shoyo sembravano profumare più del solito, con il suo aroma agrumato e impenitente, e la sua pelle brillare più del solito, madida di sudore a imperlargli la fronte come una corona. Era il rosso, il re. E le sue iridi d'ambra erano un comandamento muto che impediva a quelle blu del corvo di staccarsi.

E Tobio non riusciva davvero più a staccare gli occhi da quella figura minuta, abbronzata delicatamente: neanche il sole stesso sembrava riuscire a smettere di fissarlo, innamorato tanto da esserne attratto come un magnete, come se quella chioma color mandarino fosse il polo negativo alle piume nerissime, corvine che sedevano sul capo del più alto.

Era passata appena una settimana dal loro primissimo allenamento da soli. Sette miseri giorni, e cinque pomeriggi passati insieme, passati a imparare ogni movimento del corpo dell'altro. Sembrava che i due si conoscessero da sempre, aveva osservato più di una volta il professor Takeda uscendo dalla palestra con Ukai, ed aveva ragione: Kageyama pareva riuscire ad avvertire la presenza di Hinata, regalandogli passaggi di una perfezione quasi disumana, e l'altro, di rimando, risvegliava in lui una passione assopita da tempo ormai immemore.

I pomeriggi li consumavano ben troppo velocemente, quando erano insieme: la palla volava alta nel cielo e così facevano loro, la libertà che scorreva nelle loro vene come fuoco liquido, incendiando loro i muscoli tesi dalla stanchezza.

- Oi, Scemoyo. Pausa acqua? -
Hinata guardò Tobio come se gli avesse appena proposto di buttarsi da un ponte. - Pausa che? Proprio ora che finalmente sembravate di nuovo in grado di fare dei passaggi decenti, vostra Maestà? -

Il moro lo zittì lanciandogli addosso un asciugamano. - Chiamami ancora così, e ti prometto che i miei passaggi arriveranno molto precisamente sul tuo bel visino da mandarino iperattivo, cretino. -

Al più basso sfuggì l'asciugamano dalle dita. O forse, quella fu solo una scusa per nascondere il rossore che imporporava le sue gote tonde. - Beh, e-ecco, ma tu... Tu conosci solo parole che finiscono con ino? -

Stavolta fu Kageyama a celare il volto, girandosi verso il tramonto appoggiandosi la borraccia sulle labbra. Quelle stesse labbra sottili, sempre imbronciate, erano distese in un sorriso sfacciato che si stava facendo beffe del suo autocontrollo e di tutti gli scudi che aveva sempre alzato, quasi maniacalmente, nel corso degli anni.

Era come una matrioska, un insieme di innumerevoli scatole cinesi che aumentavano con il passare degli anni della sua adolescenza — impeccabile eppure comunque così dannatamente complessa — e con la sua crescente difficoltà a mostrarsi per il ragazzino fragile e inguaribilmente romantico che era in realtà.

Di scudi se ne era costruiti tanti. Il primo? Senza dubbio, i suoi occhi. Blu e scuri, grandi e duri, gli sguardi — gelidi ma brucianti — che quegli occhi accusatori erano in grado di rivolgere erano più che eloquenti. Era freddo, solitario. La sua rabbia era una tormenta di neve e grandine e ghiaccio, una valanga difficile da scatenare, una trappola dall'innesco complesso ma incontrollabile una volta attivata. Quegli occhi severi, che parevano ispezionare tutto con la rigida, disgustata superiorità di un vecchio burbero, erano sempre stati in grado di nascondere una voglia cocente e disperata di essere visti, ammirati, riconosciuti ed amati per qualcosa che non fosse il talento del ragazzo a cui appartenevano. Ma non ci riusciva nessuno, a sfondare quello scudo. E allora, persona dopo persona, la parete di ghiaccio si alzava, si inspessiva, diventava sempre più gelida e sempre più impenetrabile — sempre più difficile da superare, sia dall'esterno che dall'interno.

Si era sempre detto che servivano ad evitare di essere feriti, ma era davvero così? Di cosa aveva paura il giovane corvo? Di soffrire o di essere felice? Perché, in fondo, non era quello ciò che sentiva? Non era immenso il dolore che gli provocava non essere in grado di connettersi agli altri, di avere qualcuno con cui parlare in completa onestà e senza avere paura di essere giudicati? E, in fondo, era il giudizio altrui ciò che temeva, o era il suo giudizio distribuito agli altri come pane a spaventarlo?
Tutte quelle corazze pesanti e labirintiche che si portava sempre sul cuore servivano a tenere gli altri fuori, o a tenere lui dentro?

La realizzazione lo colpì con la stessa intensità dei raggi scarlatti del sole: ciò di cui aveva paura non era certo venire ferito, ma ferire.
Ferire quel ragazzo più basso di lui, più rumoroso di lui, più innocente di lui — tanto innocente da consegnargli il suo cuore in mano e da rendergli il suo amore per lui ovvio abbastanza da permettergli di accorgersene — era quello, ciò che lo spaventava.

La sofferenza — quella vera, comunque — gli sembrava una cosa così estranea e insensata, inesistente, quasi. Gli era davvero mai stato fatto del male da qualcuno, in quel mondo? Poteva davvero esistere il male nello stesso mondo illuminato dalla chioma color tramonto dei capelli di Shoyo, del suo Shoyo, sempre così dolce e disponibile e schietto e divertente e pronto a perdonare ed a innamorarsi?

Forse Kageyama si era solo illuso, forse si era solo fatto un'idea sbagliata della società, della vita, di tutto, e forse era solo perché non aveva ancora conosciuto lui.

Forse il mondo era davvero un posto bellissimo e ciò che lo rendeva pessimo era lui, gelido ed egocentrico e fragile, chiuso e sospettoso e dannatamente fragile, fragile, fragile: il suo animo era come una statua di cristallo, sporca di polvere tanto da sembrare di fango, ma troppo fragile perché lasciasse che qualcuno vi si avvicinasse per pulirla.

E forse era quello il motivo per cui istintivamente si era allontanato dal solare, esuberante, generoso Shoyo: sapeva bene che quel ragazzo fatto di luce avrebbe tentato di avvicinarsi al suo animo, avrebbe provato a lucidare il cuore di cristallo che albergava protetto fra le costole cave nel suo torace da corvo, ma sapeva che — involontariamente o meno — avrebbe rotto quella statuina perfetta e inarrivabile, e che si sarebbe ferito, e che avrebbe ferito Tobio stesso nel processo.

Eppure Hinata era completamente cieco ai timori del moro, almeno a quanto sembrava, e si limitava a sorridergli facendo stingere i propri occhi d'ambra e il cuore dell'altro, che lo guardava come se fosse qualcosa di spaventosamente splendido, di splendidamente spaventoso.

- Quindi, Re, sei pronto a ricominciare? -

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»» spazio autrice ««
un capitolo breve, quasi del tutto introspettivo, bruttino e pure uscito in ritardo? come fate a sopportarmi? 😂😂
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𝚂𝚞𝚗-𝚔𝚒𝚜𝚜𝚎𝚍; kagehina (in corso)Where stories live. Discover now