1 - Corvo solitario

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Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
(G. Leopardi)

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Il suono della penna danzante sulla carta accompagnava quelle dita lunghe, snelle e curate mentre le parole prendevano forma sotto il sangue blu dell'inchiostro nella sua biro.

Tobio Kageyama detestava i traslochi. Era nato in quella minuscola prefettura giapponese, Miyagi, ma si era dovuto trasferire in quella di Ōita appena dopo la scuola materna. Dopo Ōita era venuta la prefettura di Hyōgo, dopo ancora Ishikawa, Kanagawa e Nagano. Ora, però, i suoi genitori avevano trovato lavoro in nella città dov'era nato, e vi aveva fatto ritorno.

Non aveva mai messo radici — o meglio, non ci era mai riuscito. Costruisciti una corazza, si diceva, e non lasciar entrare nessuno. Non affezionarti, e non rimarrai ferito quando dovrai andartene. E quella corazza se l'era costruita, concedendo due sole ed uniche passioni il lusso di avere un posto nel suo cuore già indurito: la pallavolo e la scrittura.

L'allenamento era una costante per lui: sentire i muscoli bruciare e tremolare dallo sforzo, provare l'ebbrezza di saltare in alto e sfidare con lo sguardo il cielo, tutto di quello sport lo faceva sentire incredibilmente se stesso. E quando non aveva la possibilità di allenarsi, si rintanava nei libri, in quelle collezioni di pagine ruvide macchiate di storie e di vite — vissute o meno — dai contorni tanto esaltanti da riuscire a strappare un sorriso anche alle sue labbra, solitamente piegate in una smorfia a metà fra il disgusto e la noia.

Degli amici non ne sentiva il bisogno, a lui bastavano la palla, il campo e la rete. Solo il pallone, per la verità: ogni luogo era buono per allenarsi, ogni ora passata in palestra una buona scusa per evitare le uscite con coloro che cercavano di avvicinarsi a lui.
Nemmeno le sue squadre gli andavano particolarmente a genio: lui giocava da solo, era il re del campo con le sue alzate vertiginose — non sono impossibili da battere, ripeteva a tutti i ragazzini che provavano a criticarlo, siete voi che non siete bravi abbastanza da riuscirci — e, a meno che non fossero al suo livello, i compagni dovevano quanto meno portargli rispetto.

Aveva sempre allontanato gli altri, e gli altri avevano sempre fatto lo stesso con lui. Ormai non lo faceva soffrire nemmeno più, era abituato. Finché c'era la possibilità di giocare a pallavolo e di avere uno spazio suo per scrivere, però, era soddisfatto. La pallavolo e la scrittura, questo bastava a renderlo felice per davvero.

Scrivere era sempre stato parte di lui. Da bambino lo faceva assiduamente, era sempre con una penna in mano e mille storie per la testa, ma era cresciuto e aveva deciso che era una cosa da sfigati, e dunque smesso. Ma quando crebbe ancora e riprese la sua penna in mano fu come ritornare a respirare.
Gli era naturale, esprimersi in quel modo, avventurarsi in quel mondo fatto di pagine ricoperte con quella sua grafia
sbilenca e affilata come mille coltelli, disegnare storie e mappe e creature con quei magici simboli d'inchiostro che erano in grado di urlare a gran voce tutte le parole che si teneva per sé. 

La punta della sua penna continuava a scorrere rapida e instancabile contro il foglio, martoriandolo di citazioni.
"D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;"

Era un passero solitario, lui? Probabilmente sì. Un corvo, più che un passero, con quei suoi capelli color della pece.
Accompagnato solo dalle ali che spiegava quando giocava a pallavolo e dal canto flebile della penna sulla carta ruvida del suo quaderno, il suo passo era deciso, il suo sguardo insondabile, le piume nere della sua chioma svolazzanti, animate dal vento e dal furore con cui colpiva la palla e il foglio.

Controllò l'ora sulla radiosveglia che teneva sulla scrivania, l'ordine di quest'ultima turbato da mille pagine scarabocchiate.
2:37, ho fatto di meglio — si disse, cinico.
Il giorno dopo avrebbe affrontato la seconda settimana del nuovo anno scolastico al liceo Karasuno, e probabilmente la avrebbe affrontata con due borse sotto gli occhi da far invidia al piumaggio color pece della mascotte scolastica — un corvo, appunto — se non si fosse messo a dormire presto.
Sospirò con aria sconfitta e decise di coricarsi sul suo letto pulito, spegnendo la luce.

Il sonno, tuttavia, non sembrava particolarmente intenzionato ad accarezzarlo con le sue dita argentee, ed i suoi occhi color della notte rifiutavano di serrarsi e permettergli di riposare.
I suoi professori lo avevano già inquadrato: a parte la letteratura, le materie non gli interessavano granché, e si accontentava di una sufficienza tirata.

Di giorno si allenava a pallavolo, di notte scriveva: non c'era spazio per il sonno nella vita del corvo.
Erano talmente tanti i palloni che voleva alzare, erano talmente tante le parole che voleva scrivere, che dormire era qualcosa che ormai aveva dimenticato da molto.

L'ozio non aveva spazio nel corpo giovane e vivo di Tobio Kageyama, l'unica sinfonia che gli interessava erano il rumore delle suole delle scarpe sul pavimento della piccola palestra dove avrebbe messo piede per la prima volta, il giorno successivo, e il vociare dei suoi compagni di squadra mentre si scambiavano dritte e richiami per l'azione successiva; le uniche che lo attiravano erano quelle che la sua penna produceva quando scriveva con furore le sue storie, le sue poesie, le sue frasi e citazioni e pensieri; le uniche persone a cui voleva legarsi erano quelle in grado di schiacciare le sue alzate eccellenti e incoronarlo vincitore di set, partite, interi campionati, e tutte le altre — complici i numerosi traslochi e la sua personalità chiusa — le aveva dimenticate.
Di tutto il resto, lui, non aveva bisogno.

Anche se... Anche se ce l'aveva un vago ricordo che ancora lo faceva soffrire, un viso dolce che aveva visto da bambino e amato senza rendersene conto davvero; anche se, per quanto scavasse a fondo nella sua memoria, non riusciva a riportare alla luce nulla a parte una chioma color carota; anche se quella rimembranza era una luce flebile e priva di effettiva importanza, lui la conservava con dolcezza, ripensandovi con trasporto mentre scriveva le sue righe più tristi.

Sbuffò di nuovo, le palpebre ormai finalmente pesanti, e poi decise di provare di nuovo a dormire: stavolta ci riuscì, e si abbandonò ad un sonno lungo e senza sogni.

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miei cari biscottini, eccomi qui! dopo la eremin ritorno con una kagehina perché beh, chi non li ama, questi due?
ho lasciato che il capitolo fosse un pochino più introspettivo per caratterizzare un po' questo tobio, ma vi assicuro che dal prossimo inizia l'azione!!
a presto biscottini belli ♡♡
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𝚂𝚞𝚗-𝚔𝚒𝚜𝚜𝚎𝚍; kagehina (in corso)Where stories live. Discover now