1. Back to 1995

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instagram: lunatiepida

Julie era appena tornata a casa dopo il concerto all'Orpheum.
Si sentiva stanca, ma allo stesso tempo aveva la sensazione che se avesse allungato il braccio avrebbe potuto sfiorare il cielo.
Avvertiva ancora gli applausi del pubblico nelle orecchie, l'adrenalina che le spezzava le viscere e le luci viola, bianche, rosse che puntavano su di lei.
Sorrideva per la sorpresa dell'apparizione di Alex, proprio lì, al centro del palco, dietro la sua batteria.
E poi Reggie e il suo completo brillante, che con la sua espressione tenera le intimava di darci dentro e tirare fuori il meglio di se.
Ed infine, Luke...
La sua voce nella testa, il suo sguardo su di lei che possedeva sempre quel lampo di una tempesta che non le era possibile comprendere.
Arrossiva al pensiero, anche perché una singola parola di quel ragazzo/fantasma bastava a mandarle in subbuglio le interiora.
Musica che le era entrata nelle vene.
Le loro voci che erano risuonate ovunque.
La batteria che rimbombava nel petto.
La chitarra sulla pelle.
Il basso nelle orecchie.
E poi i suoi amici erano scomparsi.
Scosse la testa per pensare ad altro, mentre scendeva i gradini diretta verso il garage.
Julie voleva pensare alle cose belle: tutte le migliori band e musicisti si erano esibiti in quel locale e se anche lei ci era riuscita, allora significava davvero che la fortuna aveva girato a suo favore.
O forse in realtà la fortuna non centrava.
Anzi, sicuramente non aveva nulla a che fare con quello che era appena successo.
Da quando i ragazzi erano piombati nella sua vita, tutto era cambiato, tutto le era sembrato possibile e la musica era stata sia l'azione scatenante di tutta la vicenda, che il filo invisibile dalla capacità unificatrice.
Ora che la sua band era passata oltre, le restava solo rimettere insieme i pezzi e andare avanti, cercare di conservare il ricordo di questa avventura impossibile e trasformare la perdita in un bocciolo di quelle dalie che la madre aveva amato tanto.
Aprì la porta della sala prove e osservò il buio per dei secondi.
Nella sua mente ripercorse i ricordi che aveva creato con Luke, Reggie e Alex e in cuor suo sapeva che quella stanza piena di strumenti, vita e serenità, le sarebbe sembrata vuota senza di loro.
Esattamente come per un anno, la musica era stata il luogo psichico della perdita di sua madre.
Guardò dritto di fronte a se facendosi coraggio, tirando fuori tutta quella sua felicità malinconica, affermando:
«Io..lo so che l'ho già detto però... grazie ragazzi.»
E lo pensava davvero: loro l'avevano riportata in vita, l'avevano strappata al suo continuo scappare dal dolore e le avevano insegnato ad abbracciarlo, coccolarlo e accudirlo, perché la tristezza doveva riempire gli spazi, doveva darle la forza di creare qualcosa di bello.
Ma quando udì la voce tremante di Reggie dire:
«Non c'è di che»
Susseguito dai sospiri di disapprovazione di Alex e Luke, Julie capì subito ciò che stava accadendo e corse subito ad accendere la luce.
Non la sorprese trovare i suoi tre amici stesi sul pavimento vestiti esattamente come li aveva visti, un attimo prima che scomparissero dal palco.
Avevano le lacrime che gli bagnavano le guance e una nota di sconforto sul viso.
La ragazza era confusa e non c'era un briciolo di allegria in se; intuiva perfettamente che se loro erano ancora lì, allora qualcosa era andato storto.
Desiderò poter fare qualcosa.
«Che cosa ci fate qui? Io credevo che...»
Ma prima che Julie potesse terminare la frase, i ragazzi furono colpiti da una forte scossa al petto.
Si spaventò sul serio.
Non sapeva bene come reagire.
«No, no... credevo che foste passati oltre. Perché non siete passati oltre?»
Il panico prese possesso delle sue vene, sentiva il cuore pulsare dietro gli occhi e le ginocchia che non la reggevano.
Era quasi come sprofondare e sapeva che la risposta non le sarebbe piaciuta affatto.
Desiderò ardentemente che non provassero più dolore.
«Si vede che suonare all'Orpheum non era la nostra questione in sospeso.»
Le rispose Alex.
«Un punto per Caleb.»
Replicò Reggie con la sua solita ironia che però non aveva neanche una traccia di allegria, nella voce.
«Volevamo che pensassi che eravamo trapassati, quindi abbiamo fatto finta.»
Luke pronunciò le ultime parole con una certa colpevolezza, come se si sentisse male più per non averle detto la verità che per la situazione in generale.
«Però...» continuò ingoiando le lacrime che stavano per fuoriuscire ancora una volta «non sapevamo dove andare.»
Julie avrebbe tanto voluto domandare al mondo che era davvero così che sarebbe dovuta finire?
Non era già stato abbastanza crudele far morire tre ragazzi di soli diciassette anni, ora dovevano anche cessare di esistere?
Desiderò che le cose fossero diverse, per loro.
«Pensavamo andassi a dormire.»
Ammise Reggie, mentre si teneva stretto al bracciolo della poltrona.
«Beh» ansimò Alex rimettendosi in piedi «io sapevo che saresti venuta qui, ma nessuno mi ascolta...»
Un'altra scossa.
Gemiti di dolore.
A quel punto, a Julie non importava più tenerli con se, non le importava della loro presenza, voleva che stessero bene, che tutto quella sofferenza e sventura terminasse.
«Dovete pensare a salvarvi adesso!» esclamò avvicinandosi a loro.
Doveva sembrare disperata, ma non le importava.
L'idea che sarebbero morti di nuovo, senza che nulla gli fosse stato regalato da questa "nuova vita", la mandava fuori di senno.
Erano dei meravigliosi, eccezionali giovani uomini pieni di talento a cui tutto era stato portato via e anche quel poco che finalmente avevano ottenuto, stava finendo in tragedia ancora una volta.
«Svelti, unitevi al club di Caleb! Vi supplico! È meglio che non esistere affatto!» esclamò lasciando che le lacrime sgorgassero libere sulle sue guance.
Si protrasse verso la porta e continuò:
«Vi prego andate! Sparite! Fate qualcosa! Vi prego, fatelo per me. Vi prego.»
Desiderò che tutto cambiasse.
«Noi non ci torniamo lì.»
Ammise un Reggie ormai rassegnato a quello che stava per succedere.
D'un tratto, Luke le si avvicino e ogni cellula del suo corpo sembrò reagire alla sua presenza.
Sembrava così giusto averlo di fronte e allo stesso tempo così sbagliato quello che sentiva, che non sapeva neanche più interpretare se stessa.
«Non vale la pena suonare, Julie, se non suoniamo insieme a te.»
Disse guardandola negli occhi e la ragazza avvertì qualcosa che si rompeva dentro di se, come se qualcuno avesse calpestato la farfalla di cartapesta che sua madre aveva fatto per lei.
Era la consapevolezza che le cose sarebbero finite con il silenzio, con quell'assordante sensazione di vuoto e perdita che bussa alla porta quando non puoi salvare chi ami.
E il silenzio stava avvolgendo tutto con il suo manto bianco, cancellando, portando via i momenti che le avevano recato sollievo, pace ed emozioni, nell'ultimo mese e mezzo.
Luke stava piangendo.
Lei stava piangendo.
Alex e Reggie stavano piangendo.
Julie si chiese perché a questi ragazzi non era concesso un po' di pace.
Perché doveva finire così?
Perché guardando le iridi colme di lacrime di Luke riusciva a cogliere la vita che avrebbe potuto vivere?
Quei ragazzi erano una famiglia per lei.
Una famiglia composta da lei, un tizio che portava magliette senza maniche, un altro con troppa ansia e un altro ancora che – a detta di quello senza maniche - aveva la fortuna di saper suonare il basso.
Una famiglia stramba ma pur sempre una famiglia, di quelle più vere e pure.
«Nessun rimpianto.» aggiunse Luke.
Desiderò che TUTTO cambiasse.
E fu in quell'attimo che il suo corpo decise per lei.
Si protrasse in avanti e Luke la afferrò come se non volesse più lasciarla andare.
Quel contatto impossibile era stato ardentemente voluto da entrambi e ora il ragazzo, la stringeva come se non avesse bisogno di nient'altro.
Per Luke, Julie era stata un segreto nascosto, un'emozione sussurrata tra le corde di chitarra e uno sguardo di troppo.
Platonico, ma vero.
Ora invece sembrava esserci stasi.
Solo loro due mentre si abbracciavano nella danza dei battiti del cuore di Julie.
«Vi voglio bene ragazzi.»
Tirò fuori la sua bocca quando desiderò con tutto ciò che aveva, di poter cambiare le cose; anche a costo di perderli, loro meritavano di più.
Quando realizzò del contatto con Luke, Julie era ancora più confusa di prima.
Il fantasma era pervaso da una luce calda, quasi come se venisse fuori dai pori della sua pelle.
Si guardarono come a cercare le risposte l'uno negli occhi dell'altra.
«Perché posso toccarti?»
Chiese la ragazza più a sé stessa che a Luke, mentre le loro mani continuavano a sfiorarsi come se ancora non realizzassero di poter intrecciare le loro dita.
«Io... io non lo so.»
Balbettò lui, mentre lei prese a sfiorargli il viso.
Anche Luke iniziò a passare in rassegna, le guance della ragazza avvolgendogliele e sorpreso, le sorrise, mentre lo stomaco di Julie era sottosopra e brividi le inondavano la schiena.
Lui le prese di nuovo le mani, prima di voltarsi verso i suoi amici e dire:
«Mi sento più forte.»
«Alex, Reggie, venite qui.»
Li chiamó Julie.
E desiderò davvero fare qualcosa, riuscire a raggiungere il loro destino e invertirlo, riuscire a fargli avere la vita che loro avrebbero dovuto avere.
Riscrivere il corso degli eventi.
Rinunciare a loro se necessario, ma vederli vivere era ciò che realmente voleva.
E questo desiderio si fece più forte quando anche Reggie e Alex si aggiunsero all'abbraccio e fu come se la luce che fuoriusciva da Luke, adesso provenisse da tutti e tre i fantasmi e Julie, ne fu avvolta.
La luce si intensificò e da calda e accogliente, iniziò a strattonarla come se un'energia le stesse strappando via la pelle.
Come se qualcosa la stesse tirando via e non riuscisse più a divincolarsi dall'abbraccio degli amici.
Rivisse tutt'un tratto, gli attimi con Luke, Alex e Reggie, dal momento della loro comparsa alla paura che fossero scomparsi, prima di salire sul palcoscenico.
Reggie e il suo amore per la musica country, le conversazioni unilaterali con Ray e la sua innocenza che lo spingeva a cogliere le cose più tardi del dovuto.
Alex e i suoi cappelli messi al contrario, le sue felpe rosa e i drammi che vivevano solo nella sua testa.
E Luke, la sua passione, determinazione, la sua energia e creatività, che come una calamita l'avevano portata ad essere dipendente dei suoi occhi verdi e del suo sorriso smagliante.
Così come era successo per la malattia di sua madre, adesso Julie stava pregando affinché potesse fare qualcosa, affinché la sua forza le desse il coraggio necessario per aggiustare ciò che ormai si era spezzato.
Aggiustare vite che erano andate in frantumi.
La luce si fece forte, sempre più forte e alla ragazza mancò il fiato; non sentì più le braccia dei suoi amici intorno a se, ma solo qualcosa che continuava a trascinarla via, senza che lei potesse fare alcunché.
Le prese il panico.
Cercò di divincolarsi, scalciare, di muoversi il più possibile finché non si sentì catapultata verso il basso: tutto il suo corpo iniziò a cadere all'indietro, il suo stomaco percepiva di star sprofondando nel vuoto e l'aria intorno a sé la spingeva sempre di più verso il baratro.
Era inerme mentre la confusione, la paura e l'agitazione si impossessavano delle sue vene.
Julie riusciva solo a sbattere le palpebre mentre tutto quel bianco continuava a strattonarla da tutte le parti.
Okay, sto morendo.
Pensò la ragazza poco prima di cadere, con il deretano sul pavimento della sala prove.
Le sue mani percepivano la superficie ruvida del tappeto e Julie si aggrappò a quella sensazione, per cercare di calmarsi il più possibile.
Prese parecchi respiri profondi prima di rendersi conto che alle sue spalle, la luce del sole illuminava la sala.
Era giorno?
Come era possibile?
Sollevò la testa dai suoi jeans per capire meglio cosa stava accadendo e ciò che vide, la fece sobbalzare.
Si rimise in piedi in un secondo e sbatté le palpebre più e più volte prima di mettere davvero a fuoco, l'intera stanza: c'era puzza di calzini sporchi, gli avanzi di pizza e i loro rispettivi cartoni erano dappertutto.
C'erano fogli e spartiti in ogni dove, i muri non erano tinteggiati, ma avevano un sentore di grigio sporco.
Il pianoforte di sua madre era sparito e al suo posto c'era una batteria con uno striscione dietro, dei Sunset Curve.
Aveva riconosciuto il basso di Reggie e la chitarra di Luke, ma tutto il resto era completamente fuori posto.
Non c'erano le piante di sua madre o le sedie appese sul soffitto, c'erano solo vestiti ovunque, tanto casino e un forte odore di adolescente.
«Okay ragazzi, non è divertente. Venite fuori.»
Disse Julie incrociando le braccia al petto, con la testa che continuava a farle male. Puntini bianchi ovunque.
Era confusa: l'unica spiegazione logica che era riuscita a darsi riguardava un suo probabile svenimento e i suoi amici che le avevano fatto uno scherzo, mettendo a soqquadro la stanza.
Improbabile, ma quali erano le opzioni?
La ragazza attese svariati secondi, credendo di riuscire a percepire la risata di Reggie.
Che però non arrivò mai.
Diede un'altra occhiata in giro continuando a guardarsi le spalle, aspettandosi che prima o poi uno dei suoi amici saltasse fuori per farle prendere un colpo.
Ma neanche questo accadde.
Iniziò davvero a pensare che c'era qualcosa che non andava.
«Ragazzi?»
Disse ancora.
Nessuna risposta.
Julie cominciò a camminare verso la batteria di Alex, quando udì una voce che la richiamò all'attenzione:
«Scusa, ma tu chi sei? E che diavolo ci fai nel mio garage?»
Si voltò e all'uscio della porta, c'era un ragazzo smilzo, leggermente più alto di lei con i capelli neri che gli sfioravano gli occhi scuri e i vestiti che sembravano appena usciti da un video punk degli anni 90.
Qualcosa scattò nel cervello di Julie, man mano che si avvicinava alla figura di fronte a lei.
«Trevor?»
Pensò ad alta voce, Julie. Il ragazzo sembrava confuso e anche un po' spaventato, quasi in procinto di chiamare la polizia.
«Veramente io sono Bobby, ma invece tu chi...»
Iniziò a parlare il ragazzo, con Julie che gli girava intorno come un segugio.
Di fronte a sé aveva Trevor. Trevor Wilson. Il padre di Carrie, con circa 25 anni in meno.
Il panico prese nuovamente possesso del suo corpo.
Ma che diavolo sta succedendo?
Si chiese la ragazza.
Bobby però non riuscì a terminare la frase, poiché una voce familiare lo richiamò da sopra i gradini.
«Hey Bo, guarda che Reggie sta per finirsi tutte le patatine!»
È sicuramente la voce di Luke.
Pensò Julie che approfittò del momento di distrazione di Bobby per svignarsela dal cortile sul retro.
Era più che sicura di aver sentito la voce del suo amico, ma come era possibile che pure il ragazzo che somigliava incredibilmente a Trevor - che aveva detto di abitare a casa sua - lo conoscesse?
Luke era morto... allora perché aveva parlato di patatine? E di Reggie che avrebbe mangiato la porzione di questo Bobby e... oh mamma.
Bobby.
Bobby era il soprannome di Trevor da giovane, che faceva parte dei Sunset Curve, quindi questo voleva dire che...
NO!
Doveva rimanere razionale e con i piedi per terra.
Doveva camminare, schiarirsi le idee, ma persino il suo quartiere era diverso da come lo ricordava.
C'erano ragazzi che andavano in skate con un taglio di capelli molto simile a quello di Alex, auto che le sembravano antiquate e alcune donne avevano chiome fin troppo cotonate.
La testa continuava a girarle, la vista le si appannava di tanto in tanto e aveva una forte sensazione di nausea.
Le sembrava quasi di essere in uno di quei suoi sogni confusi, in cui non aveva il totale controllo del suo corpo.
Voci.
Rumori.
Risate.
Parole.
I suoi piedi camminavano senza una meta.
La fronte le si imperlò di sudore.
Non capiva cosa stava accadendo, tutto arrivava al suo cervello in modo ovattato e distante, ma si fermò di scatto quando udì dalla radio di un'auto in sosta:
«Oggi per voi, in questo caldo pomeriggio del 22 maggio 1995, This is how we do it di Montell Jordan.»
Non è possibile.
Pensó ancora Julie pensando di essere impazzita o che tutti i presenti le stessero facendo un mega, gigantesco scherzo, anche perché non trovava altre spiegazioni.
Forse l'ipotesi dello scherzo era un po' improbabile, ma di certo era più razionale del pensare di essere finita nel 1995.
La ragazza aveva voglia di scappare.
Nascondersi.
Urlare.
Sfogare la sua frustrazione in qualche modo, ma l'unica cosa che riuscì a fare fu indietreggiare cercando di non andare in iper ventilazione.
La confusione la stava divorando.
Si voltò a destra, poi a sinistra cercando di appigliarsi a qualcosa di familiare, ma con scarso risultato.
La paura e lo sconforto stavano prendendo possesso di ogni senso del suo corpo.
Sapeva di stare per svenire...
Poi negli spifferi del vento caldo, qualcuno la chiamò e fu come un sussurro, una carezza gentile e tutti i timori che aveva avuto fino a quel momento, scomparvero.
Una voce familiare, leggera, delicata.
Le sembrava quasi la voce di sua madre e la seguì ciecamente fino ad un parchetto semi-deserto poco lontano da casa sua, o meglio da casa di Bobby.
Avrebbe potuto giurare che in quel luogo fino al giorno prima, c'era stato un negozio di scarpe.
Era un posto tranquillo, dalle panchine in legno, gli alberi pieni di foglie verdi e piccole aiuole dove spuntavano diversi fiori colorati, moto familiari.
Erano dalie.
E poi d'un tratto la vide, sua madre, sotto un albero di ciliegio, non troppo distante da Julie, esattamente come la ricordava, con la sua coda di cavallo e l'abito floreale.
Le mani sporche d'inchiostro e il sorriso gentile.
Corse verso di lei, per paura che avrebbe potuto scomparire esattamente come nei suoi sogni, ma Amara non lo fece.
Però quando Julie la raggiunse e provò a toccarla, non le fu possibile.
«Ma che... mamma... che succede...»
E lo sconforto ricadde sulle spalle di Julie, che cercó di dare un senso a tutto questo con la mente sopraffatta da gomitoli sempre più annodati.
Le veniva da piangere, ma si trattenne: da un lato era fin troppo felice di poter rivedere quella figura così familiare.
«Non essere triste mija, questo è tutto frutto di un tuo desiderio.»
Le disse sua madre con il suo solito sorriso gentile.
La voce sembrava distante eppure incredibilmente vicina, come se qualcuno la stesse abbracciando senza poterla toccare.
«Mamma... un mio desiderio? Che ci faccio qui? Che ci fa tu qui? Insomma che sta succedendo?»
E la rabbia iniziò a farsi spazio dentro di sé.
Perché non era andata da lei prima? Quando la chiamava nel cuore della notte e desiderava solo vederla per l'ultima volta?
Perché adesso le appariva e le diceva che doveva stare tranquilla? Che senso aveva tutto questo?
«Lo hai desiderato e qualcuno ti ha ascoltato. Ora puoi fare qualcosa per cambiare le cose. Ora TU sei il loro destino, Julie.»
Le spiegò Amara e una luce si accese negli occhi di Julie.
Era davvero nel 1995.
Poteva davvero cambiare le cose.
Ma c'erano dei punti che non le tornavano.
«Ma è maggio... i ragazzi... i ragazzi sono morti il 22 luglio. Perché arrivare qui due mesi prima della sera all'Orpheum?»
La madre face spallucce e le regalò quello sguardo comprensivo, che tanto le era mancato.
«È il tuo desiderio, questa è una domanda a cui dovresti rispondere tu.»
E con la mente tornò indietro a quando le capitava di pensare ai ragazzi prima che diventassero fantasmi.
Sì, più volte aveva pensato alla loro vita e si era chiesta se sarebbero diventati amici anche in una situazione diversa.
Se lei e Luke... si fossero piaciuti comunque, anche se lui fosse stato vivo.
«È pazzesco... sono davvero nel 1995. Cos'è? Una sorta di altra dimensione? I ragazzi sono trapassati? Cosa è successo? Io...»
La ragazza stava letteralmente tremando.
Julie non poté terminare la frase che sua madre si avvicinò, la guardò dritto negli occhi e con il suo tono rassicurante le disse:
«Ti prometto che troverai tutte le risposte che cerchi. La cosa importante che devi sapere ora è che comunque vadano le cose, tu verrai riportata a casa. Se riuscirai nel tuoi intento, mija... è come se tu non ci fossi mai stata nel 1995, sei solo di passaggio, i ragazzi non si ricorderanno di te nel tuo presente.»
Alle parole della madre, la ragazza si sorprese
Era come se qualcuno avesse organizzato questo viaggio nel passato apposta per lei.
E la spaventava, parecchio anche.
Julie scosse la testa e si passò le mani sul viso.
Non riusciva a crederci, la sua mente non riusciva ad elaborare tutte queste nuove, assurde informazioni.
«Sono qui perché adesso mi è concesso. Vorrei poterti dire tante cose Julie, ma adesso dobbiamo andare.»
Aggiunse Amara.
Julie si sorprese del tono frettoloso della madre e la guardò interrogativa.
«Andare? Andare dove?»
Smise improvvisamente di tremare.
«C'è qualcuno che ti aspetta alla fermata dei bus.»
Asserì prima di scomparire all'improvviso.
Julie la chiamò, ma non ottenne risposta.
In cuor suo però sapeva che l'avrebbe rivista.
La ragazza si accasciò improvvisamente sul terreno caldo.
Iniziò a passare le dita tra l'erba e respirò a fondo.
Aveva bisogno di un momento di calma prima di decidere cosa fare.
Sarebbe andata alla fermata degli autobus?
Avrebbe fatto ciò che sua madre le aveva detto di fare?
Quali altre scelte aveva?
Prima di rialzarsi si convinse esattamente di due cose:
1. era stata catapultata nel 1995
2. aveva la possibilità di salvare la vita ai suoi amici.
Ma sapeva che aveva bisogno d'aiuto.
Mise da parte tutte le domande che si stavano accavallando nella sua testa e saltò in piedi.
Inspirò ed espirò a pieni polmoni, doveva tranquillizzarsi e vedere dove l'avrebbe condotta questa bizzarra avventura.
E mentre prese a camminare verso la fermata degli autobus, fece una veloce ricapitolazione di quello che era appena successo: per un suo desiderio era finita nel 1995, aveva appena rivisto sua madre e qualcuno la stava aspettando.
Julie oscillava tra lo stare per avere una crisi isterica e l'emozione di poter vedere i ragazzi da vivi.
La ragazza camminò per un bel po' , sotto il sole cocente di Los Angeles, arrivando alla fermata stanca, sudaticcia e assetata.
Appoggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e prima che potesse alzare lo sguardo, qualcuno le fece ombra.
«Tu devi essere Julie Molina, la ragazza dello scambio! Certo che voi Portoricani viaggiate leggeri!»
Una ragazza dai capelli più rossi del fuoco, la stava osservando sorridente.
Aveva indosso i vestiti di una hippie degli anni 70 e una marea di lentiggini sulle guance.
Julie si ricompose, ma doveva aver assunto una strana espressione perché poi l'altra aggiunse:
«Oh! Forse non capisci? I-O S-O-N-O T-O-N-Y»
Scandendo le parole come se Julie fosse sorda; la ragazza trovò Tony molto buffa e le scappò una risatina un po' nervosa, per l'assurdità di quello che accadendo.
Julie pensò che se davvero dio esistesse, aveva davvero un gran bel senso dell'umorismo.
«Scusami. Sì parlo la tua lingua e per le valigie... me le hanno smarrite. All'aeroporto. Già. Un vero peccato. Nessuna speranza di recuperarle.»
Inventò.
Tony sembrò crederle e le regalò un sorriso smagliante.
«Beh allora baby, benvenuta a nella città degli angeli!»
Julie la ringraziò e insieme si avviarono verso casa di Tony che a detta della rossa era poco distante da lì e potevano anche approfittarne per far vedere il quartiere alla "nuova arrivata".
E la mora imprecò mentalmente per dover camminare ancora.
Non c'era molto da dire, quello che Julie vedeva era completamente diverso dalla Los Angeles che ricordava.
Era tutto così camicie di flanella, skate, negozi per affittare dvd, converse consumate e occhiali dalla forma improponibile.
Le sembrava di essere in uno di quei film che lei e Flynn guardavano durante uno dei loro pigiama party.
Quando arrivarono di fronte casa di Tony – che era una semplice, ma carina villetta in legno di quartiere – la rossa le chiese:
«Sai cos'è strano? Che ti abbiano fatto fare uno scambio quando il semestre è praticamente finito. Non è un po' assurdo?»
Julie sapeva che non era una domanda diretta, ma più una constatazione.
Comunque rispose:
«Un vero e proprio mistero per me.»
Ed entrambe entrarono in casa.
.

**ANGOLO ME***

Heylà. Spero tanto che questo capitolo vi sia piaciuto. Come avete potuto notare il nome della madre di Julie è diverso da quello della serie proprio perché ho una teoria che ho intenzione di sviluppare.
Per il resto cercherò di aggiornare il prima possibile.
Alla prossima

Perdigiorno.

𝐁𝐚𝐜𝐤 𝐭𝐨 𝟏𝟗𝟗𝟓 || 𝐉𝐀𝐓𝐏' 𝐟𝐟Where stories live. Discover now