Come le ali di una farfalla

By kimadder

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Emma Cooper è un'adorabile sconclusionata di ventun anni. Affronta la vita vestita di colori pastello e armat... More

Emma e Ollie
Cara G.
1. Il permesso
2. L'incontro
3. Il pugno
4. L'ospedale
5. L'ultima sigaretta
6. La dichiarazione
7. I buoni propositi
8. La panchina
9. Il numero
10. Lo stratagemma
11. La festa
12. Il regalo
13. La rissa
14. Il campo da football
15 - Il sogno
16 - Gli occhiali
17. La farfalla e il pipistrello
18. La fuga
19. L'ospite
20. La pulizia
21. La ricercata
22. La visita
23. L'approccio
24. La lista
25. La torta di mele
26. La scommessa
27. I pesci
28. I biglietti
29. La (non) sorpresa
30. La proposta
31. Lo scontro
32. La maglietta
33. Il concerto
34. La cena
35. Il film
36. L'onda perfetta
37. Il bacio
38. Il colibrì
39. La clinica
40. L'ostaggio
41. L'avvertimento
42. Il tatuaggio
43. Il regolamento di conti
44. Il consiglio
45. Frammenti di una sera
46. La prima volta
47. Il 𝐺𝑖𝑛 𝑎𝑛𝑑 𝐻𝑜𝑝
48. La buonanotte
49. Il Principe delle Tenebre
50. Il materasso
51. Le tenebre
52. La gelosia
53. La dedica
54. 𝘓'𝘪𝘯𝘪𝘻𝘪𝘰
55. 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘧𝘪𝘯𝘦
56. La rottura
57. Marzo
58. Aprile
59. 𝙼𝚊𝚐𝚐𝚒𝚘
60. 𝙵𝚊𝚝𝚝𝚒
61. 𝙲𝚘𝚛𝚊𝚐𝚐𝚒𝚘
63. Il matrimonio (1)
64. Il matrimonio (2)
65. La promessa
66. La festa
𝕀𝕝 𝕝𝕚𝕖𝕥𝕠
𝕗𝕚𝕟𝕖
Come vi ringrazio🩷🦋

62. Giugno

948 88 21
By kimadder

Emma

Presi l'ultima maglietta e la piegai destinandola alla sorte delle sue consorelle: la ficcai nell'ultima valigia ancora aperta.

Avevo preparato una valigia per le gonne, una per magliette, canottiere e indumenti più pesanti e una per scarpe e medicine.

Nel trolley piccolo da imbarcare a bordo avevo messo tutti gli oggetti che non potevo non portare con me, compresi i disegni di Ollie e la sua felpa, anche se nonna l'aveva lavata a mia insaputa e non profumava più di lui.

Ero pronta a sorvolare l'Oceano Atlantico. Almeno così sembrava dalle condizioni della mia camera. Le condizioni della mia anima avrebbero detto esattamente il contrario.

Avevo passato l'ultimo mese a cercare di dimenticare le ultime parole che mi aveva rivolto Ollie e a tenermi a galla con il ricordo di tutte le altre che avevano fatto da sfondo sonoro ai momenti più felici della mia vita.

Alla fine, mi ero convinta che meritavo tutto quello che stavo provando perché io l'avevo voluto, e quella piccola considerazione mi dava la forza necessaria ad andare avanti.

Mia nonna diceva sempre "chi è causa del suo mal pianga se stesso". Io era stata la causa del mio male e non mancavo mai di piangere me stessa: ero a posto!

Inginocchiata a terra intenta a fissare l'unica valigia ancora aperta, ero così tanto soprappensiero che la voce di mia madre che sbucò all'improvviso mi fece sobbalzare.

«Ti ho spaventato?».

Feci cenno di no con la testa e chiusi anche l'ultima valigia.

«Allora? Tutto pronto?».

Lanciai un'ultima occhiata alla cabina armadio aperta e svaligiata. «Sì. Penso di aver preso tutto e, se ho dimenticato qualcosa, lo comprerò. Gli spagnoli sono così colorati. Troverò sicuramente dei bellissimi vestiti».

Chissà se in qualche negozio, oltre a vestiti colorati, avrei trovato anche un allevia-sofferenze spray, perché di creme ne mettevo fin troppe.

«Hai salutato tutti?».

«Shinhai verrà all'aeroporto con me domani, e Davis è in Thailandia. Sono a posto». Constatai amareggiata.

«E Ollie?». La naturalezza con cui pronunciò quel nome mi fece domandare se stessi veramente parlando con mia madre e non con un cyborg inviato da una popolazione aliena.

Dopo quella famosa sera al Country Club, mia madre aveva deposto bandiera bianca, smettendo finalmente di comportarsi come Lorelai Gilmore. Aveva dichiarato il fallimento della missione perché io e lei non saremmo mai potute essere quel tipo di mamma e figlia che passano la serata sedute sul divano a confidarsi segreti bevendo cioccolata calda.

«Non penso abbia voglia di salutarmi». Ammisi incespicando in quella dolorosa verità.

«Devi imparare a essere più egoistica, Emma». Mi suggerì sedendosi sul bordo del letto.

«Cosa vuoi dire?».

«Tu pensi che lui non abbia voglia di salutarti. Ma tu? Vuoi salutarlo?».

«Sì, certo...». Salutarlo e non solo...

«E allora va' a salutarlo».

Okay. Avevo appena avuto la conferma di avere seduto sul mio letto un cyborg in circuiti e ossa. Lorelai Gilmore in confronto era l'ultimo dei miei problemi.

Probabilmente mia madre notò la mia pausa da sbigottimento in corso e pensò bene di riempirla con una perla di saggezza che avrei potuto postare su threads. «Non c'è cosa peggiore che portarsi dietro i rimorsi. Pesano più dei vestiti e non possono nemmeno essere imbarcati in stiva».

Sospirai e lei mi invitò a sedermi accanto. Stemmo per un po' in silenzio finché non riprese a parlare rischiando di lasciarmi veramente senza parole.

«Emma, sei ancora in tempo a ripensarci. So che sono stata io a proporti questo viaggio e so anche che è tutta una vita che ti ripeto di stare attenta alle conseguenze delle tue azioni, ma forse non ho mai messo in chiaro che dipende dalle azioni. Ci sono azioni per cui pensare alle conseguenze è fondamentale e azioni, invece, per cui è fondamentale non pensarci. La tua partenza è una di queste. Io e tuo padre non ci arrabbieremo se tu ci ripensassi. Sistemeremo tutto, scusandoci in primis con la Professoressa Velasquez e poi con l'affittuario della casa».

La guardai più accigliata che mai, battendo le palpebre un paio di volte. Era stata lei a propormi di andare un anno in Spagna e, dopo quella terribile ultima conversazione con Ollie, avevo accettato la sua offerta perché mi sembrava la migliore opzione che avessi a disposizione, nonché l'unica, per iniziare con la fase tre del piano.

«Sei proprio sicura di voler partire?». Mi domandò alla fine e forse, per la prima volta, su quel ghiaccio artico che patinava il grigio dei suoi occhi si formò una piccola e impercettibile crepa.

«Cosa dovrei rimanere a fare qua?».

«A vivere la tua vita».

«Sì, davvero una bella vita». Commenti ironica. «Al momento è più allettante passare le giornate con la Professoressa Velasquez a tradurre noiosi mattoni che passare il tempo qua a...».

Pensare a lui...

Mia madre non sembrò soddisfatta della risposta ma, quando entrò mio padre, non proseguì con quel discorso che mai avrei pensato intavolasse.

La mia fuga non aveva cambiato solo me, allora...

«Eccovi qua». Papà rimase in piedi poggiato allo stipite della porta, regalandoci uno di quei sorrisi che mi faceva sempre sentire al sicuro. «Tutto al suo posto, ranocchia?».

No, niente era al suo posto. Forse solo il magone che ormai albergava nella mia gola e viveva di vita proprio, risucchiando la mia proprio come un parassita. Era il mio nuovo migliore amico, visto che l'ovaio policistico era morto e sepolto da mesi, e mi avrebbe tenuto compagnia per molto altro tempo ancora, sempre pronto a ricordarmi che io ero la causa del mio male interiore. Almeno, non mi sarei imbarcata da sola.

Scattai in piedi, investita dall'ultimo strascico di audacia rimasto. «Quasi tutto. Devo fare un'ultima cosa. Torno per cena».

Sorrisi ai miei e uscii alla svelta dalla mia camera.

Per tutto il tragitto in macchina verso sud, che fino a solo pochi mesi prima era il tragitto che mi riportava a casa, il cuore aveva ripreso a battere alla stessa velocità di quello di un colibrì ma, quando mi ritrovai davanti alla porta di ingresso dello studio di Ollie, sembrò capire che quello di cui avessi bisogno era che si comportasse bene.

Incamerai un'ultima boccata profonda di ossigeno e poi entrai.

«Sto chiudendo e non c'è un posto fino a ottobre». Esclamò poco gentilmente Ollie che era voltato di spalle.

Constai all'istante che la sua voce era ancora l'unica nota che avrei suonato per il resto della mia vita, l'unica frequenza che avrei voluto ascoltare all'infinito.

Sarei rimasta ad ammirare ancora un po' quella schiena scolpita ma sfortunatamente coperta da una maglietta nera, ma poi mi sarei persa lo spettacolo che offriva il suo viso.

«Ciao, Ollie». Esclamai, meravigliandomi di come riuscissi a mantenere la respirazione e la sudorazione stabili.

Ollie si voltò di scatto che neanche avevo finito di pronunciare il suo nome.

Ve lo devo dire quanto ero bello?

Troppo.

«Emma».

Il mio nome pronunciato dalla sua voce mi faceva sempre un certo effetto, tipo quello di una scossa di terremoto magnitudo non classificabile che fa tremare persino il mantello sopra cui galleggia la crosta terrestre. Era d'accordo anche il magone, che infatti manifestò la sua partecipazione alla mia ultima impresa strattonandomi una corda vocale.

«Come stai?». Gli chiesi banalmente.

«Sto. Tu?».

Male...

Tralasciai la risposta a quella domanda. «Sono venuta a salutarti. Domani parto per la Spagna. Starò via un anno e non ce la facevo a partire senza averti salutato e ringraziato».

«Per cosa?».

«Mi sono laureata. Alla fine, ci sono riuscita».

«Lo so».

Quel "lo so" mi fece balenare per un attimo nella mente l'idea che, quel giorno, fosse venuto a mia insaputa nascondendosi dietro qualche colonna solo per guardarmi stringermi quel maledetto pezzo di carta e spostare la cordicella del tocco, ma poi fui travolta dalla realtà dei fatti.

«Sì, giusto, Penelope...». Ammisi delusa.

Si era laureata pochi giorni prima di me e io avevo passato le successive ventiquattro ore a vedere e rivedere le storie di Ben, bloccando con il pollice i frame in cui compariva Ollie.

Avrei dato qualsiasi cosa per essere là con loro. Come avrei dato qualsiasi cosa per avere Ollie tra le persone che erano venute alla mia.  Scacciai dalla mente la malinconia di quella mancanza.

«Volevo dirti grazie perché senza di te probabilmente avrei mollato. Invece, sono felice di aver concluso e portato a termine l'impegno».

Ollie continuò a scrutarmi indecifrabile, finché i suoi occhi si spostarono solo per un momento dal mio viso.

«Ti sei tagliata i capelli».

«Sì». Afferrai una ciocca di quei capelli che ormai arrivavano alle spalle. Poi la lasciai e feci vagare i miei occhi in giro per lo studio. «Qua dentro non è cambiato niente».

«Io direi più o meno tutto». Affermò incrociando le braccia e solo in quel momento mi accorsi delle linee nere che fuoriuscivano dalla manica della maglietta.

Sentii una scintilla luccicare nell'occhio e un sorriso potente piegare le mie labbra. «Hai un nuovo tatuaggio?! Posso vederlo?».

Le mie gambe furono più veloci del mio pensiero. Appena gli fui di fronte, lui ritrasse il braccio.

«Cosa ti ho sempre detto sui tatuaggi?».

«Che non si chiede mai il significato. Ma io non te lo sto chiedendo». Mi lagnai rendendo omaggio alle me dodicenne.

«Non si chiede neanche il permesso di vederli se sono nascosti. Inoltre non è finito, mancano ancora delle sfumature».

«Ma non è nascosto. Esce proprio dalla tua manica!». Mi lamentai mentre strizzavo gli occhi per cercare di capire cosa fosse.

«Emma...».

«Sì, okay. Scusa».

Mi morsi il labbro inferiore: avrei voluto dirgli tante di quelle cose che alla fine non riuscii a dirgliene neanche una.

Per fortuna, ci pensò lui a interrompere il silenzio che pesava più delle parole che ci eravamo sputati addosso l'ultima volta.

«Domani Beatrice e David si sposano».

«Sì, lo so. Ho già predisposto tutto: il mio regalo arriverà in perfetto orario. Spero proprio che sarà di loro gradimento. È una cosa che ho restaurato per loro personalmente perché so che si sono trasferiti a casa nuova. È stato l'ultimo lavoro prima che il negozio di Divine chiudesse. Loro si sposeranno proprio nel momento in cui avrò iniziato a sorvolare l'Oceano Atlantico». Feci una pausa in cui mi ricaricai del coraggio necessario a fare quell'ultimo gesto folle. «Ollie, so che la nostra ultima conversazione è stata orrenda. Ancora risuona nella mia testa e mi ricorda quanto sia stata superficiale ma posso chiederti un'ultima cosa? Vedila come l'ottavo desiderio mai scritto sulla mia lista».

Gli occhi di Ollie mi scrutarono per qualche secondo. Percepivo una sorta di calore misto a formicolio nel punto preciso del viso in cui si posavano.

«Cosa?».

«Posso abbracciarti un'ultima volta? Un abbraccio di addio, l'ultimo, il definitivo».

Ollie non rispose, ma lo fecero i suoi occhi per lui. Anche se erano mesi che non stavamo insieme, ancora riuscivo ad andare oltre quello scuro solo all'apparenza indecifrabile.

Così, non persi tempo. Le mia braccia si sollevarono fino chiudersi intorno al suo collo. Mi alzai un punta di piedi e posai il mento sulla spalla. Poi, inclinai leggermente la testa per respirare con il naso il suo profumo un'ultima volta.

Sapeva di casa. Possibile?

Mi era mancato così tanto e avrebbe continuato a mancarmi per l'eternità.

Il rimpianto di quanto avevo fatto mi avrebbe accompagnato nella tomba. Ne ero certa. In confronto, i rimorsi che avrei avuto se non fossi andata a salutarlo erano una seduta gratis dallo psicoterapeuta.

Dopo un mese di agonia, finalmente lo stavo riabbracciando.

Sebbene la mia mente fosse consapevole che prima o poi mi sarei dovuta staccare, il mio corpo non ne voleva sapere.

Non riuscivo a separarmi da lui. Le mie braccia non volevano muoversi e, nonostante Ollie non stesse ricambiando l'abbraccio, mi lasciò fare per un po'.

«Emma». Pronunciò il mio nome e io ebbi la sensazione di percepire il suo respiro fra i miei capelli.

«Sì?». Mi allontanai di poco, ma le mie mani rimasero ben intrecciate al suo collo.

Alzai lo sguardo e, dopo essermi soffermata un po' troppo su quella bocca che avrei baciato fino a sentirmi nuovamente viva, mi scontrai con i suoi occhi.

Poi, una mano si liberò e cominciò a scendere lungo la sua spalla mentre l'altra finì a stritolare il colletto della sua maglietta.

Con le dita sfiorai quelle linee nere impresse nel braccio. Ero estraneamente curiosa ma non quanto emozionata di toccarlo nuovamente.

«Emma». Ripetè il mio nome e a me vibrarono le pareti della stomaco. «Devi allontanarti».

Trasalii a quell'avvertimento e mi spostai neanche avessi preso la scossa. Il mio cuore protestò quando persi il contatto con il suo corpo.

«Scusami. Sono sempre troppo invadente. Devo andare, comunque. Ho l'ultima cena di famiglia e spero che non sia l'ultima proprio come è stata per Gesù altrimenti in Spagna neanche ci arrivo».

Mi lasciai sfuggire una risata nervosa quanto imbarazzata e poi distolsi lo sguardo, perché se avessi incontrato ancora i suoi occhi avrei pianto. Ormai i mie dotti lacrimali erano sturati e sempre pronti all'uso.

«Addio, Ollie». Esclamai con un solo colpo di fiato e poi, senza aspettare una risposta che forse non sarebbe mai arrivata, mi voltai e uscii.

Nel breve tragitto percorso a passo sostenuto per raggiungere la mia macchina, sperai con tutta me stessa di sentir urlare il mio nome dalla sua voce. Così, come in ogni film d'amore che si rispetti, io mi sarei girata e gli sarei corsa incontro, saltandogli in braccio e abbandonandomi a un lento e profondo bacio. Poi, tra un bacio e l'altro, lui mi avrebbe detto che mi amava e tutto si sarebbe sistemato. Sarei tornata a respirare.

Ma, quando salii in macchina, nessuno aveva gridato il mio nome tantomeno dichiarato amore nei miei confronti.

Così, misi in moto e partii.

Forse non era tutto al suo posto, come mi aveva domandato mio padre, ma io ero pronta a partire.

Vero?

Ollie

L'ultima seduta per il tatuaggio era stata tre giorni prima e, quella sera, mi venne il dubbio che Nate avesse cambiato marca di inchiostro, perché non era possibile che sentissi una sensazione di bruciore nel punto in cui le dita di Emma, quello stesso pomeriggio, avevano sfiorato la mia pelle marchiata dalla sua luce.

Forse, stavo avendo qualche reazione allergica e un po' ci speravo. Almeno avrei avuto l'opportunità di finire steso su un letto d'ospedale e risvegliarmi solo quando Emma sarebbe stata lontana novemila miglia da me.

Così, tutto sarebbe veramente finito e io avrei potuto riniziare a vivere. Me ne stavo convincendo veramente, come se la vita di prima valesse qualcosa in confronto al piccolo assaggio di quella che avevo avuto con lei.

Repressi quei pensieri affogandoli in un generoso sorso di birra.

Eravamo tutti e quattro al Dylan & Dog per festeggiare l'ultima sera da uomo libero dai vincoli matrimoniale di David. Ma, visto che anche Beatrice aveva avuto la stessa idea, alla fine ci eravamo ritrovati tutti lì a passare una serata come tutte le altre.

«Tutto bene?». Mi chiese Noah che era seduto accanto a me.

Mi stava studiando con sguardo inquisitore che forse tolleravo anche meno del bruciore sul mio braccio.

«Sì». Tentai di tagliare corto.

«Non mi sembra».

«Sto bene, Noah. Perché invece non vai a chiederlo a Ben?». Gli domandai indispettito.

Noah mi scoccò un'occhiata sinceramente perplessa. «Perché?».

«Ha la faccia da "sto per fare una Bennata"». Gli spiegai dopo aver bevuto un altro sorso di birra.

«E tu hai la faccia da "sono più tormentando del solito ma mi concentro a non darlo a vedere". Ti conosco troppo bene. C'entra il fatto che Emma parte domani?».

Questa volta, mi voltai per guardarlo in faccia per bene. «Tu cosa ne sai?».

Noah si strinse nella spalle, come se fosse una questione di poco conto. «Me lo ha detto il fratello. Non mi guardare così, giochiamo insieme online. Siamo nella stessa squadra».

«Non commento neanche». Bofonchiai tornando a guardare dritto avanti a me.

«È venuta a salutarti?».

«Sì». Risposi e quel monosillabo coincise con un sospiro sostenuto.

«E?».

«Mi ha detto addio».

«E tu?».

«Io gliel'ho detto già da tempo».

«Sì, certo!». Puntualizzò ironico e io mi urtai ancora di più.

«Vaffanculo, Noah». Affermai con tutta la calma del mondo.

Noah parve ignorare che fossi sulla buona strada per perdere la calma e proseguì scegliendo il rischio di constatare se quella sera fosse quella giusta.

«Sai, sono sempre stato d'accordo con David: ti ho sempre ritenuto il più saggio del gruppo. Se dovessi chiedere un consiglio per cui ne valesse della mia vita, lo chiederei a te. Ma ultimamente sembri tutto tranne che saggio».

«Allora, smetti di venire a chiedermi consigli».

«Sei ancora innamorato di lei».

«No». Negai con tono risoluto.

«Non è una domanda». Mise in chiaro. «Lo pensiamo tutti. Lo vediamo tutti».

«Non avete niente di meglio da fare nella vostra vita del cazzo che pensare alla mia?».

Ancora una volta, Noah ignorò volutamente il mio tono scontroso.«Ovvio che no: siamo i tuoi migliori amici».

«Sbaglio o sei stato proprio tu a dire che Emma è una stronza proprio come tutti gli altri stronzi ricchi della parte nord?».

«Sì, proprio io. Ero arrabbiato con lei perché ti ha fatto soffrire ma poi è tornata da te, ti ha detto il vero motivo per cui ha fatto quella cazzata e chiesto il tuo perdono. Perché non puoi semplicemente perdonarla?».

«Cosa ne sai di quello che mi ha detto?».

«Probabilmente non te ne sei accorto ma Penelope era a casa quel giorno. Ha sentito tutto».

Scrollai la testa mentre percepivo un ghigno bagnato d'astio - chissà se per me o per gli altri - curvare le mie labbra. «E ovviamente è corsa a dirvelo».

Ora sì che ero arrabbiato. Percepivo la bile iniziare a sfondare gli argini del suo normale corso per invadere ogni vena portasse dritta al cuore.

«Ollie, qua ti vogliamo tutti bene. Vogliamo solo che tu sia felice».

«E allora lasciatemi in pace».

«Sei ancora in tempo. Lo sai, vero?».

«Lasciami stare, Noah. Altrimenti questa sera finiamo a litigare».

«Non abbiamo mai litigato in tutti questi anni». Osservò lui calmo.

«E allora vedi di non trovare un pretesto per farlo».

«Tu, però, puoi trovarne sempre uno per non essere felice. Ti piace così tanto soffrire? Non lo hai fatto abbastanza? Non ne hai abbastanza?».

«Basta, Noah!». Sussurrai a denti stretti.

Avevo la mascella così contratta che sentivo l'effetto della pressione dei denti sulle gengive. Ma Noah ancora una volta non volle darmi ascolto.

«C'ero io quando trovavamo tua madre stesa sul pavimento e la rimettevamo in piedi. C'ero io quando tuo padre era così ubriaco da alzare le mani senza neanche avere un motivo valido».

«Basta». Ringhiai a denti stretti.

«C'ero io quando ti svegliavi nel cuore della notte. Ho sempre saputo che lo facevi non perché dovevi bere ma perché avevi gli incubi».

Saturo di tutte quelle provocazioni, mi alzai di scatto dalle sedia e Noah fece altrettanto. Gli sgabelli di entrambi rischiarono di cadere per la foga del gesto.

«E c'ero anche quando hai incontrato Emma».

Con il piede scansai ancora di più lo sgabello e mi avvicinai a lui. In un attimo, i nostri nasi si stavano sfiorando. Anche la sua mascella era contratta quanto la mia.

«Smettila. Hai capito?».

«Cosa c'è? Ti dà fastidio che io ti dica la verità?».

Sentivo il suo respiro addosso e questo mi faceva incazzare ancora di più.

«Sentiamo. Quale sarebbe la verità?».

«La verità è che probabilmente non ne hai ancora abbastanza altrimenti non staresti qua. Staresti salendo su quella cazzo di rampicante per riprendertela e vivere felice per il resto dei fottuti giorni di questa vita di merda».

«Mi hai rotto il cazzo, Noah. Trovati qualcuno, così potrai fare la morale a te stesso quando scapperai come hai fatto per tutti questi anni. Oppure sei ancora troppo legato al ricordo del tuo amore perduto? Ti senti ancora in colpa, eh».

Sapevo che quello era un colpo basso, ma dovevo proteggermi in qualche modo.

Il marrone degli occhi di Noah scintillò di quella rabbia che stava facendo provare a me e io mi sentii soddisfatto.

«Non devi neanche alludere a lui». Mi minacciò con voce permeata di rabbia e rancore.

Se fossi stato uno qualunque, mi sarei ritrovato nel retro di un'ambulanza da un pezzo.

«E allora tu smettila di sentenziare su questioni che non ti riguardano».

La voce di David interruppe quel duello all'ultima recriminazione. «Ehi, voi due!». Si mise in mezzo e ci divise. «Che sta succedendo?».

«Niente». Rispondemmo in coro ancora abbastanza infastiditi.

David ci scrutò poco convinto per una manciata di secondi. «Sentite, vedete di smetterla. Domani mi sposo e Ben sta salendo su un tavolo».

Senza perder altro tempo, ci voltammo tutti e due verso il tavolo indicato da David. Ben era salito per davvero, attirando su di sé l'attenzione di tutto il locale. Riusciva a stare in piedi perfettamente in equilibrio, quindi non poteva essere ubriaco.

Non ebbi il tempo neanche di ipotizzare un solo motivo per cui le sue scarpe fossero incollate alla superficie del tavolo e non a quella de pavimento perché Ben non si fece attendere e, una volta che il suo sguardo fosse rivolto alla destinataria di quel gesto, iniziò a parlare.

«Vanesia, amore mio, non doveva andare così. Doveva esserci la musica - avrei fatto suonare per te A thousand years di Christina Perri - e noi avremmo ballato al chiaro di luna, ma dovrai accontentarti di questo». Allargò la braccia per indicare lo spazio circostante. «Il posto in cui ci siamo conosciuti grazie a te. Sei tu la donna con cui voglio costruire una famiglia, la donna che voglio avere al mio fianco, con cui svegliarmi la mattina e portare i bambini a scuola. La donna con cui voglio continuare a fare sesso selvaggio al sapore di rossetto rosso ma farlo essendo vincolati anche istituzionalmente. So che non sono il massimo a cui le donne potrebbero aspirare ma tu sei andata oltre a questo». Indicò con gli indici di entrambi le mani la camicia tempestata di koala che stava indossando. «E mi hai visto e amato per quello che sono veramente. Ti farò incazzare? Sì. Litigheremo? Sempre. Ma poi faremo la pace sempre e solo da sdraiati».

Porse la sua mano a Vanesia che non se lo fece ripetere due volte e lo raggiunse sopra al tavolo.

Una volta che erano l'uno di fronte all'altra, Ben si preparò all'atto finale. «Ho visto i miei amici amare, soffrire, perdere l'amore e andare dall'altro capo del mondo a riprenderselo. Io non voglio perderti e voglio essere legato a te in ogni modo possibile. Vuoi sposarmi?».

Dopo aver estratto dalla tasca dei jeans una scatolina blu, si inginocchiò e, quando l'aprì per mostrarne il contenuto a Vanesia, nel locale scoppiò un boato di urla di incitamento misto ad applausi scoordinati.

Nessuno, quindi, riuscì ad ascoltare la risposta, ma dal modo in cui Ben si alzò per abbracciare Vanesia e sollevarla da terra, capimmo tutti che sì, Vanesia aveva intenzione di legarsi a quel matto di Ben anche istituzionalmente.

Sebbene fossi ancora scosso dal battibecco con Noah e dall'addio di Emma, mi lasciai andare anche io a un applauso. Ero felice per Ben e lui meritava anche il mio sorriso, oltre che tutta la felicità di questo mondo.

Solo che quel giorno la Vita mi aveva preso di mira. Non mi concesse di godermi neanche quell'attimo di effimero sollievo perché il mio nome pronunciato da una voce femminile mi fece voltare di scatto, proprio come accadde solo poche ore prima.

«Ollie».

Solo che a pronunciarlo non fu Emma ma un altro membro della famiglia Cooper.

Sara Conti Cooper era in piedi a pochi passi da me, con indosso un tailleur elegante e raffinato come la sua vita, che stonava con tutto il resto.

Le mie mani si bloccarono e il sorriso che stavo facendo si interruppe bruscamente.

Forse, seppe interpretare la reazione del mio corpo alla sua presenza, perché per un attimo in faccia le si lesse l'espressione tipica di chi è ancora indeciso se catalogare la decisione presa con l'etichetta "grande cazzata" o "genialiata del secolo".

«Mi dispiace disturbarti in questo momento di festa, ma dovrei parlare con te. Possiamo?». Con un cenno di capo, indicò la porta di uscita.

Sotto lo sguardo indagatore di Noah, acconsentii a quella richiesta e mi diressi fuori il locale con la madre di Emma al seguito.

Una volta fuori, non perse tempo e iniziò a parlarmi guardandomi dritta negli occhi. Erano dello stesso colore di quelle di Emma, proprio come i capelli.

Emma mi aveva sempre detto di somigliare al padre, ma solo in quel momento capii che intendeva caratterialmente, perché fisicamente era in tutto e per tutto la madre.

«Ti devo delle scuse, Ollie, e spero proprio che tu possa accettarle. Ti chiedo scusa prima di tutto per aver pensato male di te. Non sei il ragazzo che credevo e, se Emma è riuscita a finire l'università, è anche merito tuo».

«Non ho fatto niente. È lei che ha studiato».

«Sì, ma se non ci fosse stata quella scommessa...».

La guardai sorpreso e la Signora Conti non tardò a fornirmi la spiegazione a quella mia domanda non pronunciata.

«Shinhai mi ha raccontato tutto. Lo ha fatto perché è molto preoccupata per Emma. Voleva venire lei a parlarti ma ho pensato che dovessi sentirle da me queste parole».

Ogni parola che usciva dalla sua bocca mi confondeva. Non riuscivo a capire né il motivo per cui aveva guidato fino qua né perché fosse di fronte a me a scusarsi e a dirmi cose che probabilmente non ero disposto ad ascoltare.

O forse non volevo capirlo.

«Vedi, Emma si è fortemente convinta di essere un peso e penso di aver radicato in lei la convinzione che sia effettivamente così quando le ho detto che la vita delle persone che le sono intorno è una vita di sacrifici, economici e non, e che avrebbe dovuto pensarci due volte prima di costringere te a farne. Non nego che io e suo padre non ne abbiamo fatti e ne facciamo tutt'ora, ma ho sbagliato».

«Emma non è stata costretta da nessuno a lasciarmi. È stata una sua decisione».

«Sì, certo. Ma ci tenevo che sapessi che dietro quella decisione c'è anche questa motivazione. Sai, ho sempre invidiato mia figlia. Per quanto la vita le voltasse le spalle, lei continuava a sorridere. Per molti anni non l'ho sopportato e questo ha inciso molto sul nostro rapporto. Io mi sentivo così in colpa per averla messa al mondo in quelle condizioni e lei continuava a sorridere. Avrei preferito il suo odio, ci avrei convissuto meglio. Così, mi misi in testa che avrei dovuto proteggerla a tutti i costi, visto che non ero stata in grado di donarle una vita normale. Ma penso di aver esagerato. Sappiamo entrambi come è andata a finire: è scappata e ha trovato te».

La signora Conti abbozzò un sorriso risicato prima di volgere il suo sguardo verso il pontile e riprendere a parlare.

«Da quando è tornata a casa non sorride più». Affermò soprappensiero, come se lo stesse confidando all'Oceano. Poi, i suoi occhi tornarono a guardarmi e io, anche se non avrei voluto, mi costrinsi a sostenere il suo sguardo.

«Mia figlia è profondamente innamorata di te, Ollie. Ha sbagliato a prendere la decisione di far finire la vostra relazione, ne è estremamente consapevole. Ma chi non sbaglia a questo mondo?». La domanda le uscì strozzata, quasi cercasse di sforzarsi di non cedere alle lacrime. «È cresciuta con il mantra che le ripete sempre il padre. Un mantra che odio perché lui vede sempre il bello delle persone, come Emma, mentre io cerco sempre di scovare il marcio. Le ripete sempre che siamo esseri perfettibili e che è nella nostra natura sbagliare perché è il solo modo di cui disponiamo per migliorare. Ma a cosa serve farlo se poi non veniamo perdonati?».

«Emma ha preso la sua decisione e io la mia». Mi limitai a rispondere dopo una pausa scandita solamente dal riverbero della confusione che proveniva da dentro il locale.

Ripeterlo era il solo modo per costringermi a convincermene veramente.

Alla Signora Conti non servirono altre parole. Scrollò la testa su e giù, come se avesse finalmente capito che non ci fosse più niente da fare, che qualsiasi altra giustificazione o scusante potesse tirar fuori, io non avrei cambiato idea.

«Sì, è quello che ha fatto». Ammise con una punta di delusione a macchiare l'inflessione della sua voce. «Ti ringrazio, Ollie, per avermi concesso un po' del tuo tempo. Ti auguro il meglio». Si affrettò a dire e, dopo un sorriso abbastanza forzato, mi sorpassò per incamminarsi verso la macchina.

La guardai salire sul Range Rover, mettere in moto, prendere velocità, rallentare, fare la curva e poi sparire.

«Tutto bene?».

La voce di David mi fece distogliere lo sguardo dalla strada ormai vuota.

«Sì».

«Cosa voleva?». Mi chiese Noah.

Probabilmente, era ancora arrabbiato per prima, come lo ero io, ma noi venivamo prima di qualsiasi lite o battibecco.

«Dirmi che si sente in colpa perché pensa che Emma mi abbia lasciato a causa sua».

Davanti le fronti corrugate dei miei amici, decisi di affrontare per l'ultima volta quel discorso.

«Pensa di aver contribuito alla sua decisione di lasciarmi per non costringermi a una vita di rinunce e sacrifici sopratutto economici a causa della sua malattia».

A Ben si illuminarono gli occhi. «Beh, ma allora cambia tutto».

«Non cambia niente, Ben».

«Sì, invece! Emma non voleva lasciarti, lei ti ama ancora e tu...».

Lo interruppi. «Emma mi ha lasciato perché voleva. Non è stata costretta da nessuno. Poteva parlarne con me, esternare tutte le sue paure e perplessità, chiedere il mio parare a riguardo e domandarmi se mi andasse ancora di fare quella maledetta Surf Road. Perché io le avrei detto che non me ne fregava più un cazzo. Invece, ha deciso di lasciarmi, ha deciso per tutti e due e ora è troppo tardi».

«È per questo che non riesco a perdonarla? Perché ha deciso per te?». Domandò Noah come se non potesse credere a quello che aveva appena ascoltato.

«No. Non è così!». Affermai risoluto.

«E allora com'è?».

«Non riesco a perdonarle il fatto che abbia fatto soffrire entrambi solo perchè la sua convinzione era tale da preferire risolvere il problema evitandolo piuttosto che continuare a stare con me e affrontarlo».

«Quindi sei disposto a perdere la donna che ami per una questione di principio?».

Non risposi. Detto ad alta voce sembrava un discorso che solo un folle masochista avrebbe potuto fare, ma dentro di me era molto di più: era il pedale del freno che non riuscivo a smettere di premere e che mi faceva rimanere fermo in sosta lungo strada che mi avrebbe riportato da Emma.

«Ollie...». David provò a prendere la parola ma io lo bloccai.

«No, ora basta. La vita è mia e decido io per me, come ognuno di voi decide per sé. Io non pretendo di farmi portavoce della vostra coscienza e non vedo perché voi dobbiate farlo con me. Non voglio più sentire parlare di questa storia. Chiaro? Dimenticatevi di Emma e, vi prego, non nominatela più in mia presenza. Lei non fa più parte della mia vita».

Chiusi quel discorso con un tono così duro e risoluto che non lasciai loro nessun'altra scelta se non quella di annuire.

«Come vuoi, Ollie». Riprese a parlare David. «Avrai sempre il nostro supporto. E adesso pensiamo a domani». Cambiò discorso anche se controvoglia. «Perché domani mi sposo, cazzo, e ho bisogno di voi».

«Sicuro di non voler scappare?». Scherzò Noah mentre estrasse dalla tasca il necessario per rollare uno spinello.

«Più che sicuro. Sono dove devo essere e con chi voglio essere».

Mi guardò e i suoi occhi blu sembrarono volermi lanciare un ultimo avvertimento, come a chiedere: e tu, Ollie? Tu sei dove devi essere e con chi vuoi essere?

Ma ormai era troppo tardi anche per chiederselo.

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