OPERAZIONE Y

By DarkRafflesia

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Dave Morrison, Capitano del Navy SEAL, è un uomo determinato, autorevole, ma sconsiderato e fiscale. Noah Fin... More

⭐RICONOSCIMENTI
Presentazione
Cast
Dedica
Prologo
PARTE PRIMA
Capitolo 1: Bravo (Parte 1)
Capitolo 1: Bravo (Parte 2)
Capitolo 2: Coinquilini
Capitolo 3: Demoni del passato
Capitolo 4: Una semplice giornata di lavoro
Capitolo 5: Insieme
Capitolo 6: Prima Tappa
Capitolo 7: Presenza
Capitolo 8: Sconosciuto
Capitolo 9: Ricordi bruciati
Capitolo 10: Il prossimo
Capitolo 11: Vacanza (Parte 1)
Capitolo 11: Vacanza (Parte 2)
Capitolo 12: Dolore lontano
Capitolo 13: Turbolenze
Capitolo 14: Scontro
Capitolo 15: Notizia
Capitolo 16: Lettere reali
Capitolo 17: Firmato...
Capitolo 18: Sui tetti
Capitolo 19: In mezzo alla folla...
Capitolo 20: Rientro
PARTE SECONDA
Capitolo 21: Adunata
Capitolo 22: Sorpresa?
Capitolo 23: Toc-Toc
Capitolo 24: Legami scomodi
Capitolo 25: Nuovi ospiti
Capitolo 26: La spia
Capitolo 27: Tocca a me
Capitolo 28: Il mondo continua a girare
Capitolo 29: Prurito ed ematomi
Capitolo 30: Fede
Capitolo 31: Rimorsi
Capitolo 32: Torna a letto
Capitolo 33: Fiamme
Capitolo 34: Scuse e incertezze
Capitolo 35: Analista per caso
Capitolo 36: Non puoi dimenticare
Capitolo 37: Bersagli
Capitolo 38: Ostacoli
Capitolo 39: Ho trovato Jake e...
Capitolo 40: La bomba
Capitolo 41: Shakalaka
PARTE TERZA
Capitolo 42: Scampagnata
Capitolo 43: Pausa?
Capitolo 44: Nuove conoscenze
Capitolo 45: Mercato finanziario
Capitolo 46: Linea
Capitolo 47: Safe International Hawk
Capitolo 48: Fregati
Capitolo 49: In trappola
Capitolo 50: Dimitri Malokov
Capitolo 51: Rancore
Capitolo 52: Portare via tutto
Capitolo 53: Insofferenza
Capitolo 54: Colpe
Capitolo 55: Operazione Y
Capitolo 56: Amicizia
Capitolo 57: Risposta inaspettata
Capitolo 58: Rivelazione
Capitolo 59: Con onore
Capitolo 60: Rottura
Capitolo 61: Solitudine
PARTE QUARTA
Dimitri Malokov & Iari Staniv
Capitolo 62: Egoismo
Capitolo 63: Apnea
Capitolo 64: Il prezzo da pagare
Capitolo 65: Anonimato
Capitolo 66: Saluto
Capitolo 67: Benvenuto nella squadra
Capitolo 68: Giuramento
Capitolo 69: Decisione
Capitolo 70: L'impegno che non serve
Capitolo 71: Lontanamente vicini
Capitolo 72: Vecchie amicizie
Capitolo 73: Vigilia
Capitolo 75: Le squadre
Capitolo 76: Patente?
Capitolo 77: La tana del lupo
Capitolo 78: Boom...
Capitolo 79: Maledetta emotività
Capitolo 80: Svantaggio?
Capitolo 81: Iari Staniv
Capitolo 82: Luccichio
Capitolo 83: La pace
Capitolo 84: Caduti
Capitolo 85: Respirare

Capitolo 74: L'inizio

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By DarkRafflesia


Dea-Ho Kang tremava.
Tremava di paura.
Non aveva idea di come fosse finito in quella situazione, ma la sua vita era ormai segnata da una fine che sarebbe stata imminente o prossima. Nei suoi trent'anni era sempre stato convinto che avrebbe compiuto grandi cose per la Corea del Nord, che il suo Dio e unico Sovrano sarebbe stato fiero del contributo che avrebbe donato alla sua patria. Aveva studiato duramente per arrivare fin lì, adocchiando qualunque risorsa estera che avesse potuto aumentare la supremazia dei socialisti in giro per il mondo, spie occidentali che non avrebbero dato nell'occhio come avrebbero potuto farlo loro con i tratti orientali che purtroppo li rendeva facilmente sul filo del rasoio e dubitabili. Eppure era caduto in una trappola così ingegnosa e priva di uscite che, in quei giorni di prigionia in una stanza asettica ad una sola uscita – dove aveva ricevuto cibo e nient'altro – aveva pensato davvero di farla finita; i suoi rapitori, però, non erano stupidi. Tutto ciò che gli era stato consegnato da mangiare lo aveva consumato con le mani; niente posate, niente vestiti, niente lacci, nessun oggetto che avesse potuto fargli compiere un gesto codardo quanto utile per la sua terra. In ogni caso, per la Corea del Nord era sparito, giusto? Oramai era stato dichiarato come bersaglio eliminabile per evitare che informazioni preziose arrivassero nelle mani sudice e corrotte degli avversari. 

Avrebbe voluto facilitare l'operato dei suoi coetanei, eppure non ne ebbe le forze. Per quanto avesse avuto l'opportunità di soffocarsi con il cibo o di fare la fame e la sete fino a morire disidratato, il suo corpo si era rifiutato di cooperare e si era ritrovato ad assecondare i due rapitori, mangiando, bevendo, dormendo, piangendo ogni notte per gli stupidi errori che gli avevano fatto patire un'umiliazione tale da essere deriso addirittura dal nemico, da quelle persone che non erano americane e devote al loro Presidente, bensì mercenari; era stato catturato da un branco di uomini diversi fra di loro che operavano per dei russi, i quali volevano usarlo come esca per entrare da qualche parte. Chi diamine erano, non ne aveva la più pallida idea. Non conosceva il mondo esterno alla Corea del Nord, non aveva mai varcato il confine sino a quel giorno in cui aveva stipulato l'incontro a Nizza, dopo che i piani alti gli aveva concesso l'espatrio per completare la sua missione. 

Si era accertato che quell'Albert Blake fosse affidabile, invece era stato preso in giro, abbindolato da parole fanatiche che l'avevano condotto sino alla tana del lupo. Da predatore, si era trasformato in una povera pecorella smarrita che stava lavorando per qualcuno di cui non conosceva nemmeno il nome. Ogni notte aveva pregato che qualcuno lo uccidesse nel sonno, privato da qualunque sofferenza. Era solo una vittima inutile che aveva fallito il suo scopo e che non aveva più motivo di rimanere in vita; eppure non era in grado di accettare quel destino.
Era troppo presto per morire. Troppo presto per andare via.

Tuttavia una notte aveva raggiunto l'apice della pazzia.

La sua famiglia stava bene? Sua moglie e sua figlia se la sarebbero cavata senza di lui? Domande che non erano più uscite dalla sua testa e lo avevano indotto a girare in tondo per la stanza, pervaso dall'ansia e dalle paranoie. Non potevano essere uccise se lui... No. Essendo sparito dai radar nordcoreani, era diventato ufficiosamente un traditore che doveva essere spazzato via, e con egli anche la sua famiglia, diventata all'unanimità complice del suo operato; quando si era unito al Governo aveva firmato un contratto che aveva segnato non solo la sua, ma anche le vite delle donne più importanti della sua intera esistenza. Allora, se erano già passate due settimane, significava che loro erano morte, giustiziate per i suoi, di peccati. E con quei pensieri quella notte aveva urlato; aveva urlato così forte che un uomo di quel russo dal volto bruciato era entrato irritato nella stanza e lo aveva sedato. Dea-Ho aveva creduto che finalmente sarebbe morto, indolore. Ma il mattino seguente la luce l'aveva accolto nuovamente in quella stanza.
Si era sentito impazzire, finché non si era arreso e aveva preso la scelta di sottomettersi a quei due, volendo fare qualunque cosa gli avessero riservato, il motivo per il quale era stato scelto. Gli avevano detto di pazientare, che un giorno sarebbe uscito da quella stanza.

Quel giorno era arrivato.
Un giovedì.

L'altro russo, quello con i baffetti e i capelli più lunghi, gli aveva portato un abito grigio, giacca e cravatta con camicia bianca e scarpe nere. Gli avevano permesso di farsi una doccia, poi lo avevano pettinato di tutto punto, trasformandolo nell'ingegnere che nel suo immaginario avrebbe dovuto compiere grandi cose nella vita. Gli avevano consegnato una valigetta e un portafoglio nuovo. Dentro di esso vi era la sua nuova identità; da nordcoreano era diventato cinese, americano da parte di mamma, dipendente della NASA. Aveva chiesto il perché fosse affiliato all'agenzia aerospaziale americana e loro gli avevano detto di stare zitto. Una volta pronto, era stato circondato da persone armate e poi trasportato in quell'auto di lusso su cui stava viaggiando in quel momento. Sebbene fosse palesemente una BMW, il logo era stato cambiato con quello di una Chevrolet, utilizzando un modello che potesse essere facilmente camuffabile da tradire anche i più grandi intenditori che, in una metropoli affollata, non si sarebbero posti minimamente il problema. I suoi polsi erano ammanettati. Una scelta che non era stata prevista.

Non poté farci nulla.

Se stava tremando di paura era perché, una volta salito a bordo, gli era stato dato un auricolare, cosicché avesse potuto parlare con i due russi che gli avrebbero dato tutte le indicazioni per agire; gli era stato spiegato il suo ruolo in quella faccenda, passo dopo passo. Un attimo di lucidità gli aveva detto di combattere e ribellarsi, ma una volta ammanettato si era spento di nuovo.

La vettura, accompagnata da altri furgoni dalle targhe e dalle marche cambiate, si stavano muovendo per i due ponti che collegavano Washington alla nuova struttura della NASA. Lui non avrebbe dovuto fare nulla di troppo complesso, poiché sarebbe stato seguito dagli uomini che gli stavano accanto, lui seduto al centro dei sedili posteriori. Tutto sarebbe filato liscio se non avesse opposto resistenza; cosa che non aveva intenzione di fare. La vettura si fermò davanti ai cancelli della struttura. Poco prima, i suoi polsi erano stati liberati; prese il badge da dentro la giacca e lo mostrò quando dovette abbassare il finestrino per farsi identificare dalla guardia che supervisionava l'entrata. Sudò freddo nell'attimo di eterno eppure lesto controllo. Stupito, questa si allontanò annuendo e ordinò l'apertura dei cancelli per permettergli di entrare.

Avevano abboccato. Era dentro.

L'auto contraffatta si fermò al parcheggio. I due uomini che gli stavano ai lati scesero e gli fecero cenno di muovere il culo. Dea-Ho obbedì, uscendo con il decoro e lo stoicismo che gli era stato insegnato quando era ancora un cittadino devoto al suo Governatore. Si aggiustò la cravatta, tenendo la valigetta con la mano sinistra, dopodiché gli uomini che avevano sostituito le due scorte che lo avevano accompagnato a Nizza si posero ai suoi lati per invitarlo ad entrare nell'agenzia e compiere i suoi doveri. Lui annuì, deglutendo per prendere un respiro profondo a pieni polmoni per la vampata di caldo che aveva attraversato il suo corpo. Quella giornata autunnale era piuttosto soleggiata; non vedeva l'esterno da molto tempo, perciò quella brezza fresca che gli aveva accarezzato il viso era stato un ottimo toccasana per fargli percepire quanto flebile e falsa potesse essere la liberà. 

Camminò, oltrepassando le porte automatiche che lo accolsero alla hall dell'edificio. Un'enorme piazza si stagliò davanti ai suoi occhi a mandorla; una scultura in bronzo del logo della NASA, un mappamondo contornato dalle iniziali dell'agenzia che decretavano il loro controllo su tutto il globo; c'era uno spazio dedicato ad un gruppo di turisti guidati da un esperto che stava esponendo loro la storia di come tutto era nato, dal primo abbordaggio sulla Luna ad oggi. Poi vi erano tecnici che si stavano occupando di alcune altre migliorie da apportare alla recente e nuova struttura. In fondo vi era la reception che Dea-Ho attraversò con serenità. Dopotutto era un dipendente di cui nessuno avrebbe potuto dubitare. Il suo ruolo di ingegnere lo rendeva allo stesso livello di quelle persone che, notando il badge al collo, lo salutavano come se fosse parte della loro cerchia patriottica. Il nordcoreano proseguì per inerzia, dettato solo dalla sua arresa subordinazione ai due russi. La voce dentro l'auricolare gli diceva dove andare grazie alla piccola videocamera che fuoriusciva dal taschino esterno della giacca, nascosta tra il fazzoletto che lo rendeva un figurino tirato a lucido. 

Il suo ruolo alla NASA era di tecnico della sicurezza, un biglietto da visita all'interno della sala di videosorveglianza dal posto. In quel modo aveva il perfetto controllo delle videocamere e delle entrate dell'agenzia. Senza indugiare, svoltò l'angolo per recarsi al luogo segnato dalla cartina che aveva davanti agli occhi chi lo stava guidando. Tuttavia, una volta arrivato a destinazione, si palesò un nuovo problema.

L'accesso necessitava di una tessera.

Dea-Ho si guardò intorno, ansioso. Era in anticipo? Perché non sta arrivando chi gli aveva dato appuntamento per quell'orario? Come se le sue preghiere fossero state ascoltate, arrivò un addetto alle pulizie che stava trascinando un carrello di scope, mocio e prodotti per la pulizia. Il berretto nascondeva bene il volto, ma quello sguardo impassibile e torvo di chi aveva delle armi nascoste sotto la tuta era palpabile anche solo dall'aura che emanava. Questi stava passeggiando tranquillo, senza curarsi della sua presenza, tuttavia l'orientale fece finta di frugare impacciatamente dentro le sue tasche per lasciare uno spiraglio all'altro che, con un movimento felino, gli inserì dentro la tasca la tessera d'accesso che aveva rubato all'addetto che aveva steso qualche minuto prima durante la pausa. Un approccio che avevano preso da chi aveva fatto lo stesso con loro, alla SIH; prendere spunto non faceva mai male. 

Dea-Ho tirò fuori la tessera, fingendo frustrazione per averla trovata dopo vari tentativi, dopodiché la fece scivolare nel dispositivo d'accesso, il quale fece scattare la serratura per dargli il permesso di entrare; chiusosi là dentro, posò la valigetta e abbassò le spalle con un sospiro vibrato e teso. Non fece passare neanche un secondo; si sedette davanti alla postazione e bypassò l'accesso con le doti informatiche che, durante i suoi studi, gli erano stati insegnati per essere sempre pronto a qualunque evenienza gli sarebbe stata posta davanti. Ottenne senza problemi il controllo elettronico della struttura; con pochi comandi sbloccò tutte le porte da accessi remoti, tessere e schede elettroniche. Infine aprì i cancelli principali. Per mezzo delle telecamere esterne, osservò le due guardie nelle portinerie uscire dalle loro postazioni con fare confuso e scettico; non c'era nessuno davanti a loro, e di certo non avevano dato l'ordine di aprire le porte per entrare qualcuno.
Dea-Ho deglutì, schiudendo le labbra per aiutarsi a respirare meglio.

«Che Dio mi perdoni. – mormorò con occhi spalancati e l'orrore intriso nei tratti del viso. Le dita tremanti dallo shock si avvicinarono nei pressi dell'auricolare all'orecchio e pressarono il pulsante per avviare le comunicazioni. – Via libera.»

Non ottenne una risposta.
Ci pensò lo schermo a dimostrargli il peccato commesso.

Un furgone, che uscì da poco dal ponte, partì a tutta velocità dopo aver svoltato verso la strada che conduceva all'entrata della NASA. Le due guardie si erano accorte di quel particolare, quel paraurti che si avvicinava sempre di più ad una rapidità stratosferica, tuttavia rimasero al centro, tra i due cancelli, tendendo le mani per invitare chi stava guidando a fermarsi immediatamente. Ovviamente non vennero ascoltati e non fecero in tempo a scostarsi che vennero presi in pieno dal furgone. I loro corpi vennero spazzati via in un'istante, rotolando sopra il tettuccio della vettura – il primo – e spalmandosi a terra subito dopo in una posizione surreale; schiantandosi contro la portineria, rompendo il vetro che si conficcò in varie parti del viso e della divisa – il secondo. Successivamente il furgone oltrepassò le porte in vetro della NASA, spaccandole del tutto sino ad autoinvitarsi dentro la hall. 

Inutile dire che i civili e i dipendenti si allontanarono dallo shock, urlando e strepitando in preda al panico quando i cocci di vetro si dispersero per il pavimento ed altre due vite vennero stroncate all'impatto. La sicurezza si prontò a farsi avanti, uscendo le pistole e camminando cautamente verso il furgone adesso immobile, dal motore spento. Urlarono con autorità a chi vi fosse all'interno di scendere, ma non poterono mai prevedere che in mezzo ai turisti terrorizzati e ai tecnici che si stavano occupando di correggere qualche imprecisione, potessero sbucare fuori uomini di Dimitri e Iari che, armati, spararono a quelle povere guardie, uccidendole con una raffica di colpi per mezzo delle mitragliette Uzi che avevano nascosto dentro i giubbotti; la fortuna di girare armati negli Stati Uniti per mezzo del porto d'armi poteva essere un vantaggio non di poco conto, specialmente quando nel team si aveva la persona adatta a falsificare qualunque cosa avesse sottomano. 

Uomini in divisa, altri in abiti civili, si spogliarono per mostrare i giubbotti antiproiettile e le divise nere che in verità portavano addosso. Questi gridarono alle persone di uscire e di non provare a chiamare i soccorsi, altrimenti avrebbero fatto la stessa fine di chi era ormai a terra, morto e stecchito. Per enfatizzare la minaccia, spararono sul soffitto, ribadendo l'ordine che i dipendenti e i turisti presero alla lettera.

Nel frattempo le porte del furgone si aprirono.

Dal conducente scese Iari Staniv, con tanto di tattico, pantaloni cargo neri e anfibi addosso, una divisa che non aveva mai dimenticato di indossare. Dal lato del passeggero, invece, scese Dimitri Malokov; al contrario dei suoi uomini, indossava una camicia bianca arrotolata sino ai gomiti ed un gilet marrone; senza cravatta e con un pantalone del medesimo colore del gilet, allargò le labbra in un sorriso isterico, le braccia aperte per le persone che, riconoscendo i volti dei due ricercati, impallidirono dalla paura da rimanere annichiliti sul posto. Uno spettacolo per gli occhi del russo, un'opera d'arte vedere quanto solo la sua presenza mettesse in soggezione chiunque incrociasse il suo sguardo psicopatico.

«Grazie infinite per avermi accolto qui. Le signore e i signori possono abbandonare l'edificio. Al resto ci pensiamo noi.» annunciò con nonchalance. Si avvicinò ad una donna che era rimasta pietrificata dietro il bancone, attonita e con le lacrime agli occhi. Dimitri le porse la mano, socchiudendo le palpebre in attesa che questa ricambiasse. Era come se il suo sguardo fosse stato una calamita per la povera dipendente, perché, come se guidata da qualcosa, posò la mano sul palmo rovinato del russo che le permise di farla uscire da dietro il bancone per camminare tranquillamente verso ciò che rimaneva delle porte distrutte. Una scena che fece rabbrividire chi stava tentando di scappare accertandosi che, una volta date le spalle al nemico, questi non li avesse uccisi a sangue freddo. Tempo al tempo. Le intenzioni di Dimitri e Iari erano più spettacolari. «Liberate tutti i piani. Voglio che l'edificio sia vuoto. Ma prendete in ostaggio almeno una ventina di persone, il primo che oppone resistenza, fatelo fuori. – si rabbuiò in seguito, mettendo le mani dentro le tasche dei pantaloni e proseguendo verso l'ascensore. Iari lo seguì a ruota libera, un AK-47 davanti al petto legato con una cinghia sul tattico, mentre in mano teneva una valigia lunga e larga di colore grigio, perfetta per proteggere un'arma. I suoi uomini annuirono, mentre altri furgoni parcheggiavano nei pressi del piazzale della NASA per accogliere altri alleati che potessero mandare avanti il piano da loro ideato. Quando le porte dell'ascensore si chiusero e questi prese a salire verso l'ultimo piano, Dimitri pressò il dito sull'auricolare. – Andate a prendere quel fallito di un nordcoreano e portatelo alla sala comandi. Adesso.»

Quando l'ascensore arrivò all'ultimo piano, Dimitri prese la valigia, affinché Iari avesse le mani libere. Quest'ultimo uscì per primo, mira già pronta e dito sul grilletto; sparò fulmineo alle guardie, l'arma priva di silenziatore per terrorizzare la segretaria che si nascose sotto la scrivania. Gridò a quei pochi civili di andare via, mentre Dimitri camminava beato e immune lungo il corridoio, non sussultando al fracasso degli spari; arrivò alla porta che lo separava dall'ufficio del CEO, colui che aveva tutto il controllo dell'azienda e una visuale perfetta sulla sala comandi all'interno dell'edificio stesso. Non appena aprì la porta, il CEO si mise in piedi, le mani sollevate ai lati della testa. Si allontanò da solo dalla scrivania, non volendo fare casini e proteggendo la propria vita con tutto ciò che aveva a disposizione.

«Ti prego...»

Non finì la frase. Dimitri ghermì la pistola dentro il gilet; un proiettile dritto in fronte e il CEO della NASA cadde a terra, morto. Posò la valigia sopra un tavolo. L'ufficio era bello largo e spazioso, mobili che potevano servire come coperture o basi d'appoggio, peggio della sala ovale della Casa Bianca, solo più moderna e dalle grandi vetrate. Adagiò la pistola sulla scrivania principale, dove vi era stato seduto il cadavere che stava già macchiando il pavimento con una pozza di sangue per il cranio aperto, e si sedette spaparanzato sulla sedia in vera pelle, sollevando le gambe per distenderle sulla superficie. Davanti allo schermo del computer aveva una grandiosa scarrellata di inquadrature, tutte quelle delle videocamere sparse per l'edificio e i dintorni; in questo modo aveva occhi ovunque lui volesse, e avrebbe atteso i suoi ospiti con trepidazione. Sorrise, sollevando la testa per osservare il soffitto moderno, costellato da faretti dalle lampadine fredde. 

Non importava se erano stati scoperti; non importava se la SIH aveva chiuso. In dieci anni avevano organizzato così meticolosamente quel piano che nessuno lo avrebbe smorzato in partenza. La distruzione, il panico, le grida di disperazione, le suppliche; non avrebbe mai immaginato che quello scenario, lo stesso scenario che lui, da uomo dedito alla Russia, avrebbe dovuto estinguere, sarebbe diventato una poesia di cui non poteva più farne a meno, l'elisir che alimentava la sua mente malata e tormentata. 

La NASA era sotto il loro controllo, i suoi uomini stavano svuotando l'intera struttura per avere ogni zona a loro disposizione. Non avrebbe tollerato nient'altro da adesso in poi; si era trattenuto, si era costruito l'identità del benevolo ed elegante uomo d'affari che, tutto sommato, non era stata affatto male come aveva pensato – forse suo padre lo aveva influenzato molto sulla strada dell'imprenditoria.

Il grande giorno era arrivato.

Dave e Noah, quei due bastardi del cazzo, avevano solo ritardato l'impresa; quando aveva un obbiettivo da raggiungere, Dimitri lo avrebbe rispettato e acquisito con tutte le fibre del suo corpo. Scoccò un'occhiata a Iari, il quale aveva aperto la valigia e stava iniziando a ricostruire l'arma che vi era al suo interno; stoico e impassibile, non aveva battuto ciglio, non aveva sorriso, non aveva mostrato nulla della sua spavalderia. Era entrato nella figura del soldato, nell'uomo freddo e imperturbabile che aveva caratterizzato il suo ruolo da secondo in comando nei Del'fin; era incredibile, secondo Dimitri, quanto il suo amico riuscisse a scindere perfettamente la parte dell'uomo d'affari con quella del soldato. Dentro di sé avrebbe adempiuto al ruolo che lui gli aveva affidato sin da quando avevano deciso di percorrere quella via verso l'inferno insieme, e non si sarebbe tirato indietro.

L'unica cosa che avrebbe potuto fermarli, quel giorno, sarebbe stata solo ed esclusivamente...
Il sol pensiero gli aveva fatto battere il cuore con un tepore che gli era stato negato da quando l'Operazione Y gli aveva portato via tutto. Si toccò il petto, dondolandosi sulla sedia, cullato dalle urla esterne, dal disordine delle sirene che stavano circondando la zona. Con tutti gli uomini che aveva a disposizione, gli ostaggi in suo possesso e le vite che aveva già smorzato, nessuno si sarebbe avvicinato alla NASA. Solo una persona avrebbe potuto raggiungerlo. Solo una persona avrebbe trovato il modo di arrivare in quell'ufficio per fronteggiarlo. Si sedette più comodo, accavallando le gambe, mentre Iari, avendo finito di montare l'arma che adesso giaceva immacolata sul tavolo, si posizionò in piedi accanto a lui, da bravo soldato. Dimitri giunse le mani, intrecciando le dita sopra la scrivania, e chiuse gli occhi, rallentando il battito cardiaco e godendosi quell'attimo di pace e serenità.

«Ti sto aspettando, Morrison.» pronunciò. «Poniamo fine all'Operazione Y.»

**

Gli occhi di Dave erano chiusi.
Alle sue orecchie giungeva solo il rumore delle ruote che percorrevano l'asfalto sotto ai suoi piedi. Assimilava le buche, i dossi, le curve, i suoni delle sirene e il parlottio confuso della gente all'esterno che osservava i notiziari dagli schermi dei grattacieli in diretta locale. Il peso del fucile che portava davanti al petto era un dolce fastidio a cui non poteva più fare a meno. Le dita guantate erano intrecciate, immobili, come il resto del suo corpo che, da quando si era puntellato lì, non si era mosso più. Era solo il furgone ad obbligare le sue spalle ad ondeggiare di tanto in tanto per la fretta con la quale si stava muovendo, altrimenti sarebbe rimasto una statua imperturbabile in meditazione.

Non appena era scattato l'allarme a Washington e la SWAT si era mobilitata per recarsi alla NASA, luogo in cui numerose chiamate da parte di civili che avevano scampato il pericolo si erano ammassate nelle linee telefoniche della polizia, dell'ambulanza e dell'FBI, il Team Bravo si era già riunito alla base del Navy SEAL per rifornirsi e cambiarsi. Lui e i suoi uomini erano seduti sul retro del furgone; sul lato destro vi erano Gregory, Sully e Kyle; sul sinistro vi erano Liam, Jake e Gavin. Lui se ne stava al centro, a capotavola in quella scrivania invisibile, con la schiena contro la parete che lo separava dall'autista che stava guidando per le strade di Washington. Non erano propriamente in mimetica, ma stavano indossando pantaloni cargo color verde militare, scurissimi, e delle t-shirt nere coperte dai tattici e dalle piastre antiproiettile; armati, stavano fissando un punto nel vuoto per prepararsi psicologicamente a quello cui sarebbero andati incontro. Non avevano proferito verbo quando si erano messi in ghingheri per andare in azione; in silenzio si erano vestiti, avevano preparato le armi che il messaggio di quella notte aveva loro precisato, ed erano saliti a bordo, in attesa che il loro superiore aprisse la bocca.
Non tardò ad arrivare. Dave riaprì gli occhi e sollevò la testa, richiamando l'attenzione dei presenti.

«La zona è divisa da due ponti. Non sono gli unici che conducono alla NASA, ma Malokov e Staniv hanno chiuso la strada, impedendo alla SWAT di avanzare e ai civili di scappare. – la teste dei suoi uomini si rivolsero a lui, le quali iridi si posavano di volta in volta su ognuno di loro. Il tono era calmo, basso, autoritario come il leader che avevano sempre conosciuto. Curvò la schiena, poggiando il gomito sul ginocchio con fare riflessivo. – Stella e il team di supporto hanno già una visuale della zona: non è messa bene.» Stella era stata avvisata con tutto il resto del team di supporto; si erano preparati nei pressi dei due ponti, qualche isolato più distante, per non essere cacciati via dall'FBI se li avessero visti. Ma il loro drone stava già sorvolando sulla zona, scambiato per qualche giornalista ficcanaso. «Secondo i dati, l'accampamento del Capitano Beryl si trova sul retro dell'edificio, al lato opposto dei due ponti.»

«Ostaggi?» domandò Gavin.

«Le fonti dicono che almeno una ventina di dipendenti è rimasta alla NASA, mentre tutti gli altri sono fuggiti con lo stesso consenso di Malokov. Pare che vogliano continuare a giocare.»

«Vittime?» passò con la domanda più aspra Sully, la crocchia perfettamente legata in cima alla nuca per impedire che qualche altro movimento troppo avventato gliela sciogliesse. Era l'unico con il fucile di precisione coricato tra le ginocchia, affinché la canna si appoggiasse sulla sua spalla.

Dave si strinse nelle spalle, digrignando i denti dalla rabbia. «Una quindicina.»

«Cazzo...» sibilò Jake, mordendosi il guanto dal nervosismo.

«La SWAT non sta facendo nulla? – cambiò discorso Gregory, mettendo da parte l'amarezza di quelle povere persone che erano state uccise per una vendetta futile. – Perché non stanno intervenendo per guadagnare un minimo di terreno?»

«Ho riflettuto bene di ciò, per questo stiamo agendo senza il consenso dei piani alti.» Dave si massaggiò la mascella lievemente pungente; si era dimenticato di fare la barba quella mattina. «Evidentemente non sono l'unico a far morire chi mi sta intorno.»

Un'affermazione che aveva indotto il Team Bravo ad assottigliare gli occhi dal turbamento, inibiti dal tono che il loro superiore aveva emesso, tanto che si smossero sul posto dal nervosismo e dal disagio, lampante nelle occhiate che si erano scambiati tra di loro.

«Perché hanno preso di mira la NASA? Volevano fare gli astronauti o portano rancore per non essere stati i primi a portare l'uomo sulla Luna?» ironizzò Kyle, seppur non stesse sorridendo e non fosse pervaso dal solito ghigno scanzonato che lo caratterizzava.

«Non penso che abbiano preso di mira il primo edificio grosso, sorteggiando in una sfera il malcapitato di turno. Avevano tante scelte a disposizione: la Casa Bianca, la CIA, l'FBI stessa. Ma hanno scelto la NASA: hanno architettato qualcosa che va al di là di tutto quello che abbiamo affrontato.» spiegò torvo Dave. Dopodiché pressò il dito sulla radio sul tattico e avviò le comunicazioni. «Bravo Uno a Comando, cosa vedi?»

Stella Luison stava girovagando per i furgoni con una certa ansia; i tre mezzi erano stati trasformati in zone tattiche di ricognizione. Un team si occupava delle comunicazioni che giungevano dal Team Bravo; un altro delle inquadrature dall'alto della città; e l'ultimo delle intercettazioni dell'FBI, se avessero ottenuto qualche informazioni in più sulle mosse dei due russi che si erano chiusi alla NASA e non si erano mossi più. Nemmeno gli elicotteri potevano fare qualcosa, poiché il minimo suono di un rotore avrebbe portato i civili in ostaggio alla morte. Stavano aspettando che qualcuno – chissà quale qualcuno – andasse da loro dalla porta principale. Il problema, tuttavia, era arrivarci, visto che i suoi occhi scuri rimbalzavano in ogni schermo e notavano solamente un intoppo dopo l'altro. In divisa e con i capelli raccolti, prese la trasmittente e la portò vicino alle labbra con tensione.

«Qui Comando. Ti ricevo forte e chiaro. – la sua voce risuonò per le orecchie di tutti, nervosa. – I due ponti sono stati circondati da furgoni non identificati. Le targhe sono quelle falsificate che ci avevi già anticipato. Molti civili sono rimasti intrappolati nelle auto, impossibilitati a scendere per scappare o fare dietrofront per allontanarsi dai ponti. La SWAT sta provando ad avvicinarsi, ma non sanno da dove cominciare: sono in evidente difficoltà.»

Dave sospirò dall'altro lato della linea. «Il Capitano Beryl cosa sta combinando?»

Stella mosse le iridi sul display del drone, invitando con un cenno della mano il suo addetto a zoomare. «Al momento sta parlando con i suoi uomini, ma si stanno dedicando principalmente ad isolare la zona.»

«Non stanno facendo un cazzo, in parole povere.»

«L'hai detto tu. Non io.» passeggiò fuori dal furgone per camminare sulla strada chiusa.

Si erano posizionati in una zona scarna di grattacieli. In questo modo aveva una perfetta visuale del fumo che fuoriusciva dall'edificio della NASA e del caos di mezzi che avevano ingarbugliato la zona, più le sirene delle vetture della polizia, le ambulanze e quant'altro. Strinse le labbra in una linea sottile, turbata. Quando Dave le aveva detto che quel giorno avrebbe dovuto fare uno strappo alla regola per lui, non chiedendoglielo, ma ordinandoglielo come suo Generale, aveva già compreso che sarebbe stato qualcosa che le avrebbe mozzato il fiato; ma quella visuale era peggio di quel che si era aspettata, e la scossa che percepì lungo la sua schiena era sinonimo di guai, grossi guai che avrebbero dovuto risolvere solo sette fottuti uomini che conoscevano il nemico come le loro tasche. Sentire Dave parlarle al telefono con un tono autoritario, grave, lontano dalla scanzonatezza con la quale era solito rivolgersi a lei, era stato l'unico motivo per il quale aveva accettato di disobbedire ai piani alti e di mobilitare il suo team. Il suo superiore non le avrebbe mai mandato un falso allarme. Mai. Ma dentro di lei, dentro il suo cuore scalpitante e lontano dalla calma che caratterizzava il suo ruolo da Sottotenente, percepiva che quello davanti ai suoi occhi era un attacco terroristico di proporzioni enormi.
A comunicazioni chiuse, Dave ritornò sui suoi uomini.

«Se non interveniamo, la SWAT è fottuta. Non sono portati per questo tipo di circostanze. – il furgone arrestò la sua corsa, l'autista che diede due colpi netti sulla parete che li separava per avvisarli. Bravo Uno, in risposta, si mise in piedi, sempre curvo per il tettuccio basso, per avanzare verso le portiere. – Chiamerebbero l'intervento militare troppo tardi, quando il numero delle vittime raddoppierà e lo stallo si farà sentire, perciò andremo adesso e ci divideremo in quattro squadre.»

«Quattro squadre?» intervenne Gregory con un brutto groppo alla gola. «Dave, siamo dispari.»

«Lo so. La zona è troppo aperta per andare in gruppi numerosi, perciò usufruiremo della presenza della SWAT per fare numero.» aprì le porte e scese dal mezzo, voltandosi per guardarli in faccia. Non avrebbero indossato i caschi, stavano partendo alla meno peggio per fare in fretta, perciò i capelli biondi di Dave brillavano alla luce del sole, il quale stava per essere oscurato dalla coltre fumo che si stagliava sempre più in alto. «Due squadre si occuperanno dei ponti. La prima sarà formata da Bravo Tre e Bravo Quattro.»

Il petto di Jake sussultò non appena sentì il suo nome in codice venir chiamato per la prima volta dopo tre anni di fermo. I suoi occhioni in palese agitazione si distolsero dal volto severo di Dave – dopo che questi lo aveva guardato con fiducia, contando sul suo ritorno con sicurezza – per abbassarsi sull'arma che stava tenendo con entrambe le mani. Deglutì, ma aveva la gola secca. Fino a qualche giorno fa si era improvvisato insegnante saggio al piccoletto di turno della squadra, quando invece si sentiva insignificante tanto quanto tutte quelle insicurezze che aveva affievolito nell'animo di Gavin. In teoria la sua paura non riguardava l'incapacità, il non essere all'altezza, bensì il timore di commettere di nuovo un errore; qualora si fosse ritrovato davanti a qualcosa di nefasto, avrebbe avuto il sangue freddo di succedere, anziché fallire? Chiuse gli occhi, un sospiro vibrato che scappò dalle sue labbra; non si accorse che era uscito più instabile di quel che si era aspettato, nonostante avesse voluto darsi una calmata, ma autoimporsi qualcosa, alle volte, dava sempre un riscontro opposto.

Poi sentì un colpetto contro il ginocchio.

Riaprì gli occhi, innalzando la nuca; il calcio del fucile di precisione di Sully era tornato alla posizione di partenza. Passò poco più in alto per annegare in un paio di occhi azzurri che brillavano splendenti nell'ombra del furgone. Sempre vivaci e furbi, le loro sfumature erano inconfondibili; non importava quanto il clima fosse lontano dallo scherzo, ma Sully aveva sempre la risposta pronta per alleggerire il suo cuore. Dalle sue labbra, infatti, sbocciò un ghigno che Jake avrebbe voluto tenersi stretto ogni giorno; le mosse in silenzio, pronunciando una frase. Non fare quella faccia. Spacca i culi.
E Jake non poté fare a meno di accennare un tenue sorriso, annuendo con più coraggio.

«La seconda squadra, invece, sarà composta da Bravo Cinque e Bravo Sei.» continuò Dave, umettandosi le labbra secche.

Kyle e Gavin trasalirono.

«The fuck?» il primo si smosse inquieto sul posto, inclinando il capo dal fastidio. «Stai forse scherzando?»

«Credi che io abbia voglia scherzare in questo momento, Quinn?» lo riprese Bravo Uno, stoico.

Kyle scrollò il capo, grugnendo sommesso. «Sai bene quello che è successo in palestra e vuoi mettermi in squadra con questo pivello qui?» indicò con il pollice Gavin, il quale si morse l'interno della guancia per nascondere l'offesa patita.

Non doveva dargliela vinta. No. Quella era una palese provocazione. Aumentò la presa sul fucile, imbiancando le nocche al di sotto dei guanti. «Gli ordini sono gli ordini, Bravo Cinque.» esordì, guadagnandosi il peso deludente delle iridi verdi, quasi trasparenti, del suo compagno di squadra. «Dovresti stare zitto.»

«Che cosa hai detto?» l'altro si animò, irritato. «Devo forse ricordarti chi è il meno esperto tra i due?»

«Purtroppo per te, non cambierà l'esito della scelta di Bravo Uno.» Gavin ribatté di rimando, atono, seppur gli occhi fossero intrisi di mestizia. «Mi spiace se la mia presenza ti mette in difficoltà, cercherò di starti lontano.»

Kyle era pronto per ricambiare la prima frase, ma all'udir della seconda esitò; la bocca rimase aperta, un suono soffocato uscì da essa, ma si estinse in un battito di ciglio. Incrociarsi con lo sguardo di Brown non era stata una scelta saggia, perché si sentì folgorato da quegli occhi spenti e al tempo stesso arresi dalla realtà dei fatti di cui si era convinto. Se la schiena si era staccata per la foga dalla parete del furgone, adesso tornò spalmata su di essa lentamente, non avendo più parole per poter replicare quella sentenza. 

Anche perché gli occhi non poterono fare a meno di cadere sulle braccia semi scoperte di Gavin, sulla maglietta attillata a maniche lunghe che il ragazzo aveva lievemente arrotolato per tenere parte degli avambracci scoperta. Anche se avesse voluto nasconderli a tutto il team, a lui non poterono sfuggire quei leggeri marchi rossi, linee appunto, che avevano intriso la pelle del braccio sinistro; forse era stato prima, o qualche istante dopo che era uscito dagli spogliatoi in divisa, ma a giudicare dal colore ancora acceso, il prurito doveva averlo colpito al momento della missione. I pensieri gli si aggrovigliavano in quel modo da patire la dermatite. 

Era palese che fosse stress e ansia; non avrebbe motivo di soffrire di quella malattia dermatologica se la sua mente fosse libera. Proprio perché era un dannato moccioso cacasotto avrebbe dovuto girare i tacchi e ritirarsi. Quel mondo non era adatto a delle persone sensibili del suo calibro, altrimenti si sarebbe fatto ammazzare.

«Avete finito? O vi porto dallo psicologo per una seduta di coppia? – il tono di Dave era intriso di sarcasmo. – La prima cosa che forse, e dico forse, vi insegnano quando mettete piede all'accademia è mettere da parte i rapporti intrapersonali e pensare alla missione. Quindi voi due, in questo momento, siete il Soldato di Prima Classe Quinn e il Soldato di Prima Classe Brown. Avete capito bene?»

«Sissignore.» risposero all'unisono Gavin e Kyle.

«Good. L'ultima squadra è composta da Bravo Due e Bravo Sette: voi vi occuperete del fiume. Mentre la squadra A e la squadra B – si riferì al duo Jake e Sully e al già citato duo di Soldati Scelti – cercheranno di liberare i ponti e salvare i civili, voi attraverserete il fiume con le pattuglie della SWAT.»

«Ma non abbiamo il consenso di operare.» commentò Liam.

Le mani di Dave si posarono sulle porte del furgone con l'intenzione di chiuderle. Poi ghignò, seppur la mascella fosse intirizzita dalla serietà.

«Lo avrete, fra qualche secondo.»

Gregory, il più vicino all'uscita, fece per alzarsi, contrariato. «Non puoi andare da solo, Dave. È una pazzia.»

«Interveniamo su tutti i fronti: i ponti, il fiume e il retro. Dobbiamo sgomberare la zona e lasciare Dimitri e Iari senza possibilità di fuga. È chiaro che mi stanno aspettando.»

«Una volta completati i nostri ruoli, verremo ad aiutarti.» gli assicurò l'amico.

«Pensate solo a non morire. Fino a quando io non vi chiamerò, starò bene.»

Il Team Bravo annuì. Dave ricambiò, dopodiché chiuse le porte del furgone. Diede due pugni contro il mezzo per ordinare all'autista di poter andare. Questi mise in moto e avanzò per dirigersi verso il lato frontale della zona. Morrison si era fatto accompagnare sul retro per giungere a piedi all'accampamento della SWAT e conversare civilmente con il Capitano Beryl; nel frattempo, i suoi uomini sarebbero già giunti nelle loro postazioni e avrebbero atteso il suo via. Doveva solo fare in fretta e ottenere il dannato consenso prima che fosse troppo tardi. Diede le spalle al furgone che stava allontanandosi sempre di più, camminando determinato e a testa alta in mezzo a tutte le vetture targate FBI e SWAT che avevano isolato la strada. A pochi metri più in là, si stagliavano i furgoni nemici, con i mercenari che i due russi avevano assoldato per chiuderli e impedire loro di poter avanzare. C'erano degli agenti insignificanti che stavano facendo da guardia in un perimetro di transenne, ma Dave avanzò sicuro, senza neanche degnarle di uno sguardo. Tuttavia il suo volto autoritario e i suoi occhi accesi dall'adrenalina, non passarono inosservati.

«Che sta facendo? Lei non può essere qui.» disse un ragazzo che non poteva avere neanche l'età di Noah.

Dave permise alla mano sul suo petto di bloccare la sua camminata, ma questo non estinse il fuoco che stava incominciando ad ardere dentro di lui.

«Devo discutere urgentemente con il Capitano Beryl.» fu l'unica cosa che disse.

«Lei non è autorizzato a stare qui. Sarò costretto a farla arrestare.» intervenne l'altro.

«Sono il Generale Dave Morrison, fatevi da parte.» irrigidì il tono, invogliandoli a fare un passo indietro.

I due anche se non lo diedero a vedere, tremarono dalla paura e si scostarono da soli, dando il consenso a chi gli era superiore di oltrepassare le transenne. Bastava una divisa e un grado elevato, che chi stava molto più in basso non osava ribellarsi e sottostava ai suoi ordini. Sperò solo che quei due ragazzi non venissero coinvolti in quella situazione. Tra tutti i più esperti che vi erano in giro, questi dovevano essere incaricati solo di presiedere senza intervenire. Oltrepassò furgoni adibiti a basi – non c'erano tante persone, almeno una decina in quell'accampamento; inutili per quell'enorme spazio coperto dal nemico –, per poi giungere ad una tendina aperta dal lato principale dove un uomo sulla quarantina, piegato in avanti per poggiare le mani sul tavolo, stava dannandosi davanti ad una cartina della zona. Altri due uomini lo riconobbero e gli bloccarono la via.

«Lei non può stare qui. Si può sapere chi è?» disse uno.

Ma Dave li spinse con pochissima forza e si intrufolò irrispettosamente dentro quel mini ufficio, richiamando l'attenzione del Capitano Beryl.

«E tu che fai qui?» domandò schietto quest'ultimo, sollevandosi dal tavolo, in divisa blu scuro e il tattico con la dicitura SWAT a caratteri cubitali. «Credevo che l'FBI fosse stata chiara sul tuo conto.»

«Lo è stata. – annuì Dave. – Ma quando il grado di emergenza di un pericolo sfiora l'attacco terroristico, il Navy SEAL ha il permesso di operare.»

«Opera se è il Presidente degli Stati Uniti a volerlo, passando prima per il Generale.»

«Oh, guarda che coincidenza, ormai il Generale sono io.»

Beryl si strinse nelle spalle, mordendosi il labbro inferiore. «Sei venuto qui per dirmi di sloggiare? Non porterò via i miei uomini da qui.»

«Stanno facendo qualcosa, i tuoi uomini?» lo provocò Morrison, senza battere ciglio.

Si mise di lato con il busto, affinché gli occhi scuri dell'uomo della SWAT potessero osservare quanto le truppe fossero chiuse dietro alcuni furgoni, in attesa che il nemico facesse la prima mossa.

«Vorresti dirmi che tu hai qualche idea? Ci sono troppi nemici e le mie pattuglie sono disperse in troppe zone calde: siamo in stallo.» si giustificò il Capitano, cupo.

«I membri del Team Bravo sono pronti ad intervenire.»

«Come puoi mettere a paragone due o tre persone con un gruppo intero?»

«La SWAT si occupa di incursioni balistiche in spazi chiusi; se non potete arrivare alla NASA, non servite a niente. Il Bravo Team si muove ovunque, negli spazi aperti, chiusi, via terra, via mare, passano inosservati, soprattutto se il nemico è ormai barricato a causa delle tue truppe.» spiegò Dave, chinandosi sulla mappa distesa sul tavolo. «Ho già due uomini qui, qui e qui. – indicò i punti dove avrebbero dovuto suddividersi le sue squadre. – Ho una visuale dall'alto e due fottuti russi che mi stanno aspettando. Vogliono me.» i suoi occhi torvi si posarono su quelli di Beryl. «Se lasciate avanzare il mio team, avrete poi l'occasione di chiudere la zona e presiedere il perimetro. Devo solo raggiungere la NASA.»

Nonostante le parole convincenti che indussero i due agenti presenti a deglutire dall'ansia, Beryl rimase irremovibile. Incrociò le braccia davanti al petto, sollevando il mento con arroganza.

«Chi mi dice che, non appena ti vedranno, avremo davvero la possibilità di rompere lo stallo?»

A Dave non servì aprire la bocca, anche perché un urlo li distolse da quella conversazione.
Neanche il tempo di uscire entrambi dalla tenda, che tre uomini nemici erano riusciti a scavalcare la barricata e stavano dirigendosi come dei pazzi furiosi verso la sua figura. Agenti della SWAT colti alla sprovvista non fecero in tempo a prendere le armi, poiché ancora non equipaggiati. Nemmeno il Capitano Beryl fu in grado di fare una mossa, nonostante si fosse messo davanti a Dave per essere il primo ad occuparsi del problema. Allora il Generale Morrison afferrò la spalla dell'uomo per spingerlo dietro di lui, camminando in avanti. Nel mentre, prese la pistola dalla fondina con la mano libera, la destra, e tirò il carrello. Tre colpi. Uno dietro l'altro si conficcarono sulle fronti degli avversari di volta in volta; questi caddero a terra, esanimi. Ci fu un momento di silenzio dove gli agenti non seppero cosa dire; guardarono prima i cadaveri poi Dave, il suo corpo marmoreo con la canna della pistola ancora fumante e incandescente. Beryl indietreggiò, gli occhi spalancati ed esterrefatti.

«Allora, possiamo intervenire o vuole aspettare ancora, Capitano?» Morrison gli scoccò un'occhiata di sbieco, in attesa di una risposta, mentre rinfoderava l'arma.

Il Capitano non proferì verbo, ma si limitò ad annuire, non in grado a contenere lo stucco.
Una risposta più che esaustiva per Dave. Le dita arrivarono alla radio, leste.

«Comando, qui Bravo Uno: eseguito Jolly. – esordì, cambiando poi canale. – A tutte le unità: abbiamo il permesso di eseguire. Ripeto: l'ingaggio è autorizzato.»

**

Noah stava tranquillamente continuando a lavorare su tutte quelle informazioni come se nulla fosse, sebbene all'esterno si fosse scatenato un putiferio. Ma, trovandosi all'interno dei bunker sotterranei della CIA, dove niente e nessuno poteva rovinare le quiete che solitamente si respirava là sotto, non avrebbe mai potuto prevedere che quel giorno i due russi fossero passati all'azione. Torvo e con un paio di occhiaie profonde che contornavano i suoi occhi grigi, protetti dagli occhiali che gli avevano permesso di vedere meglio per combattere la stanchezza e il bruciore alla superficie vitrea dell'iride, saltò dalla sedia nel momento in cui un agente della CIA irruppe all'interno del bunker, urlando come se vi fosse un'emergenza indispensabile che tutti i presenti dovevano sapere.

«Accendete la televisione!» gridò, innescando allarmismo nell'animo di tutti i presenti, perplessi quanto scioccati.

Noah mosse la nuca nella sua direzione, cappuccio ancora alzato, per fulminarlo con il solo sguardo, più che infastidito. Che cazzo ha da urlare così tanto? Pensò nervoso. Dopo aver scoperto quella dicitura cifrata del ruolo da ingegnere aerospaziale di Dea-Ho Kang, si era ritrovato un pacchetto nascosto di dati che stava tentando di scappare dai suoi occhi accorti, convinto di rimanere mimetizzato in mezzo a quella caterva di profili e ruoli di cui a lui non importava nulla. Ed essendo un altro recipiente di informazioni rilevanti, criptati con codici che Noah stava affrontando con tutta l'artiglieria pesante di violazioni cui era provvisto, essere disturbato in quel modo aveva fatto vacillare parte della calma che lo aveva tenuto ancorato alla sedia in maniera scomposta e da farsi distruggere maggiormente la postura rovinata. 

Ma uno degli agenti non poté che accontentare chi era sceso con agitazione e frenesia, accendendo la televisione appesa all'angolo in alto del bunker per qualunque tipo di emergenza che loro avrebbero dovuto tenere conto se coinvolti in qualche missione dove il loro lavoro imperscrutabile, quale l'intercettazione, le violazioni e la comunicazione, fosse servito per l'impresa. Noah era già pronto a mettere le cuffie alle orecchie per isolarsi da quella baraonda di suoni cacofonici e continuare in pace da dove aveva interrotto – c'era quasi, gli mancava pochissimo per bypassare l'ultima porta – se non fosse che due nomi familiari gli innescarono una scossa lungo la schiena.

Dimitri Malokov e Iari Staniv.

Gli auricolari rimasero a mezz'aria, mentre il capo si innalzò di poco per osservare la televisione; tutti gli agenti si erano alzati dallo shock, oscurandogli la visuale, perciò fu costretto a mettersi in piedi, poggiando le mani sulla scrivania quando le ginocchia iniziarono a molleggiare per il periodo di tempo in cui erano rimaste immobili; sgranò gli occhi, togliendosi il cappuccio.
I giornalisti stavano parlando dell'attacco alla NASA, della zona isolata e ricoperta di nemici e della SWAT in difficoltà. Tuttavia una sola frase – una sola ed unica insulsa frase – indusse Noah ad impallidire più del dovuto.
Pare che il Navy SEAL sia intervenuto per le intenzioni terroristiche dei due russi.
Il Navy SEAL.
Il Navy SEAL.
Il. Fottuto. Navy. SEAL.

«Merda...!» sussurrò, tornando seduto per muovere il culo sulla stesura del codice.

Mille domande stavano vagando per la mente in preda ai calcoli di Noah, non potendo non arrivare alla conclusione che l'unica squadra delle forze speciali americana che potesse essere scesa in azione con Dimitri e Iari come punto di riferimento fosse il Team Bravo. Dave aveva già previsto tutto? Sapeva quello che sarebbe successo? Come aveva fatto? Aveva continuato il caso per i fatti suoi per intervenire sul momento al primo segnale d'allarme? Anche lui? Come aveva fatto a sapere che quel giorno i due russi avrebbero attaccato? Era consapevole di quello che avevano mente?

Quei bastardi si erano giostrati in maniera tale da voler lasciare il segno in qualcosa di molto più grande di quel che avrebbero potuto prevedere. Una vendetta nei confronti di Dave era il punto principale della lista, ma insieme ad essa c'era il fottuto rancore che il mondo avrebbe dovuto conoscere. E l'uso di quel nordcoreano ne era la prova più lampante.
Come se comandato da una concentrazione sovraumana, scrisse alla velocità della luce le ultime linee e premette invio. La violazione andò avanti con successo, dandogli in dono una schermata che colmò tutti i suoi dubbi.
La NASA, un ingegnere aerospaziale.
La mano di Noah arrivò sulla fronte.
Adesso era tutto chiaro.

«Figli di puttana.» sospirò, andando indietro con la sedia. «Fottuti figli di...!»

Osservò nuovamente la televisione, sentendo una strana stretta nello stomaco.

«Maledizione!» gridò, spaventando gli agenti insieme a lui. 

________________________________________________________________________________

Angolo autrice:

Oggi ci immergiamo nel gran finale di Operazione Y! 
Dimitri e Iari sono passati all'azione, il luogo dell'attacco è stato finalmente rivelato e i nostri "eroi" sono scesi in campo!

I prossimi capitoli saranno strutturati ad alternanza di scene; si passerà da Jake e Sully a Gavin e Kyle, poi a Gregory e Liam e per finire dal nostro Generale Dave Morrison, che sembra aver fatto la pazzia di andare da solo verso i suoi nemici.

D'altro canto, tuttavia, abbiamo un hacker che pare abbia scoperto il motivo della presenza di Dea-Ho Kang e del piano dei russi. 

Cossa succederà adesso? 
Ci vediamo venerdì con il Capitolo 75: Le squadre.

A presto!

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