Come le ali di una farfalla

By kimadder

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Emma Cooper รจ un'adorabile sconclusionata di ventun anni. Affronta la vita vestita di colori pastello e armat... More

Emma e Ollie
Cara G.
1. Il permesso
2. L'incontro
3. Il pugno
4. L'ospedale
5. L'ultima sigaretta
6. La dichiarazione
7. I buoni propositi
8. La panchina
9. Il numero
10. Lo stratagemma
11. La festa
12. Il regalo
13. La rissa
14. Il campo da football
15 - Il sogno
16 - Gli occhiali
17. La farfalla e il pipistrello
18. La fuga
19. L'ospite
20. La pulizia
21. La ricercata
22. La visita
23. L'approccio
24. La lista
25. La torta di mele
26. La scommessa
27. I pesci
28. I biglietti
29. La (non) sorpresa
30. La proposta
31. Lo scontro
32. La maglietta
33. Il concerto
34. La cena
35. Il film
36. L'onda perfetta
37. Il bacio
38. Il colibrรฌ
39. La clinica
40. L'ostaggio
41. L'avvertimento
42. Il tatuaggio
43. Il regolamento di conti
44. Il consiglio
45. Frammenti di una sera
46. La prima volta
47. Il ๐บ๐‘–๐‘› ๐‘Ž๐‘›๐‘‘ ๐ป๐‘œ๐‘
48. La buonanotte
49. Il Principe delle Tenebre
50. Il materasso
51. Le tenebre
52. La gelosia
53. La dedica
54. ๐˜“'๐˜ช๐˜ฏ๐˜ช๐˜ป๐˜ช๐˜ฐ
55. ๐˜ฅ๐˜ฆ๐˜ญ๐˜ญ๐˜ข ๐˜ง๐˜ช๐˜ฏ๐˜ฆ
56. La rottura
57. Marzo
58. Aprile
60. ๐™ต๐šŠ๐š๐š๐š’
61. ๐™ฒ๐š˜๐š›๐šŠ๐š๐š๐š’๐š˜
62. Giugno
63. Il matrimonio (1)
64. Il matrimonio (2)
65. La promessa
66. La festa
๐•€๐• ๐•๐•š๐•–๐•ฅ๐• 
๐•—๐•š๐•Ÿ๐•–
Come vi ringrazio๐Ÿฉท๐Ÿฆ‹

59. ๐™ผ๐šŠ๐š๐š๐š’๐š˜

845 71 13
By kimadder

Ollie

Presi aria per incamerare ossigeno ed espirare pazienza.

Quella mattina nello studio, non bastava Nate che aveva deciso di ripassare i testi di tutte le canzoni di Tom Odell così da non fare brutta figura al concerto a cui sarebbe andato con la figlia per dimostrarle di essere un padre presente e disposto a tutto.

No... Ci si dovevano mettere anche i clienti esasperanti.

Le note di Another love risuonarono per la quarta volta consecutiva e io, per la quarta volta consecutiva, chiarii il concetto alla ragazza che, seduta di fronte a me, non smetteva di mostrarmi l'avambraccio su cui era tatuato quello che avrebbe dovuto essere un albero della vita con la chioma a forma di cuore.

«Sono un tatuatore, non Harry Potter. Posso modificarlo, ma albero è e albero rimarrà».

«Ma io voglio...».

«Non si può fare. Verrebbe una macchia nera».

«Neanche un...».

«No».

«E se...».

«No».

La ragazza ancora non si arrendeva continuando a mostrarmi quell'oscenità disegnata sul suo avambraccio. Così, senza mancare di sbuffare, presi il pennarello per tracciare sulla sua pelle i contorni di un fusto e abbozzare una chioma.

«Più di questo non si può fare. È il solo modo in cui si può coprire».

La ragazza non sembrava molto convinta ma io avevo perso definitivamente la pazienza.

«Senti, pensaci su, richiedi altre consulenze...».

«Ma tu sei il migliore».

«... e quando ti decidi, fammelo sapere». Chiusi la questione in modo brusco per evitare che tornasse all'attacco e ringraziai mentalmente Nate quando sbucò fuori.

«Ollie, c'è un ragazzino che chiede di te».

Inevitabilmente, sentii le mie sopracciglia inarcarsi. Poi, dopo aver avvertito la ragazza - che ancora guardava con espressione sconsolata il suo albero della delusione - che sarei tornato subito, andai nella piccola sala d'attesa per capire di quale ragazzino stesse parlando Nate.

Lo riconobbi subito.

Era proprio Alex Cooper il ragazzino che non si stava facendo gli affari propri e giocherellava con il pennino che la sorella mi aveva regalato ormai troppi mesi prima.

Non si era accorto della mia presenza, così, quando gli rivolsi la parola, lo feci sobbalzare.

«Che ci fai qui?».

Alex Cooper si girò alla svelta ritirando le mani come se fosse stato colto in flagrante.

«Non dovresti stare a scuola?».

«Non ci sono andato».

Incrociai le braccia al petto e mi poggiai con la spalla allo stipite. «Come sei arrivato qua?».

«Autobus. Tre per la precisione».

«Chiama subito qualcuno e vieni a farti prendere».

«Non ho il telefono. Altrimenti con la geolocalizzazione che devo sempre tenere attiva mi avrebbero subito scoperto e, se sanno che ho marinato la scuola, finirei in punizione per secoli e secoli. Così, dopo aver avvisato mamma che sarei stato impegnato con il progetto di scienze per tutto il giorno, ho lasciato il telefono nell'armadietto. Poi, senza farmi vedere e con la scaltrezza di una volpe, ho messo in atto il mio piano di evasione. Mi sono nascosto nel bagno e quando è suonata la campanella sono strisciato fuori, più silenzioso di una tigre del Bengala».

Soprassedei sullo sproloquio che confermava il legame di sangue che intercorreva tra lui e la sorella e tagliai corto. «Allora ti do il mio».

Lo estrassi dalla tasca posteriore dei jeans e glielo passai.

Alex Cooper fece un passo indietro, neanche gli stessi passando un bicchiere d'acqua avvelenata col cianuro. «Ti prego, no. Non voglio tornare in quel posto infernale che chiamano scuola».

«Non puoi stare qua».

«Perché? Non è accessibile a tutti il negozio?».

«Chiama tua sorella e fatti venire a prendere».

«Lo farò, giuro. Ma non subito, ti prego».

«Io devo lavorare e non posso farlo con un ragazzino tra i piedi».

«Non ti darò fastidio, prometto». Si affrettò a mettere in chiaro con la voce che tradiva l'urgenza di convincermene. «Mi metterò qua seduto e starò in assoluto silenzio. Non ti accorgerei neanche di me».

L'ultima volta che un membro della famiglia Cooper mi aveva detto così, era finita nel peggiore dei modi.

Sospirai ancora più rumorosamente di prima, ritrovandomi a cedere alla sua richiesta.

Ovviamente, non fece quanto promesso.

Me lo ritrovai letteralmente tra i piedi per tutta la mattina. Mi tartassò di domande, chiedendomi cose che neanche in un manuale per tatuaggi troverebbero risposta.

Ebbe persino il coraggio di chiedermi di provare a tatuare ma, quando gli scoccai una delle mie occhiatacce, rimase pietrificato giusto il tempo di ricaricarsi e partire con un altro interrogatorio.

«Quindi». Esordì non smettendo far girare la sedia con le rotelle su cui l'avevo posizionato per evitare che toccasse e chiedesse di ogni cosa presente nella stanza. Avrei voluto legarcelo ma qualcosa mi suggeriva che non si possono più legare i bambini alle sedie. «Potresti definire la tua arts tatuandi realismo in bianco e nero?».

«Definiscila come ti pare». Risposi sbrigativo mentre rimettevo a posto l'attrezzatura.

«Sei davvero bravo, sai. Posso farmi un tatuaggio? Ho i soldi».

«Hai dodici anni».

«Quasi tredici».

«Adesso chiama qualcuno e sparisci da qua».

Alex abbassò gli occhi sul suo orologio da polso analogico. Mi aveva spiegato che non aveva indossato l'applewatch sempre per il problema della geolocalizzazione.

«Non ancora. Oggi avrei dovuto fare la lunga a scuola. Non posso chiamare nessuno fino alle tre».

Neanche più perdevo tempo a sbuffare. Semplicemente mi arrendevo al mio destino. «Facciamo così: adesso andiamo a mangiare qualcosa e poi ti riporto io a scuola anche se non sono le tre. Okay?».

Alex alzò gli occhi al cielo per riflettere sulla mia proposta. «Va bene. Affare fatto. Possiamo andare al McDonald's? Mia madre è vegana e io non ce la faccio più a mangiare setain e hummus di ceci».

«Andiamo dove ti pare basta che ti zittisci per cinque minuti». Risposi sfinito.

La sua bocca si piegò verso l'alto e per un momento mi ricordò il sorriso di Emma.

«Sei simpatico, sai! Non capisco perché mia sorella non abbia mai fatto le presentazioni ufficiali. Saremmo andati d'accordo. Alle cene di famiglia ci saremmo divertiti un sacco. Di solito, invento sempre qualche stratagemma per far prendere a tutti un colpo con i miei colpi di scena geniali. Una volta, durante il solito pranzo domenicale, ho fatto in modo che l'acqua si colorasse all'improvviso di rosso e nonna ha cominciato a urlare che l'Apocalisse era iniziata. È stata una domenica memorabile quella».

Non risposi, costringendolo a seguirmi e salire sul pick up.

Non capii di aver toccato il fondo fin quando non presi posto a un tavolo del McDonald's con lui.

«Perché non vuoi stare a scuola?». Gli domandai mentre lo osservavo abbuffarsi di uno spropositato numero di Chicken McNuggets

«Vengo bullizzato». Mi rispose con estrema naturalezza mentre annegava un nugget nella maionese.

«Da chi?».

«Neanche voglio pronunciare il suo nome».

«È così terribile?».

«È diabolica».

Rimasi sorpreso. «È una ragazza?».

Alex fece cenno di sì con la testa e, dopo dopo aver mandato giù il boccone, riprese a parlare. «Victoria Von Hausen: l'incubo di tutta la scuola. Lei e i suoi amici si credono invincibili solo perché ricchi e belli».

«Beh, tu sei ricco e intelligente. Hai decisamente vinto tu».

Alex si bloccò con il nugget pronto a essere annegato nella maionese a mezz'aria. «Non avevo mai visto la questione sotto questo punto di vista». Commentò prima di procedere con la sua manovra. Era la quarta confezione di maionese che si faceva fuori.

Avevo passato tutta la vita a rifiutare anche il solo pericolo che mi venisse offerto un altro punto di vista e ora ne avevo appena fornito uno a un ragazzino di dodici anni...

Prima di passare al panino, Alex si bloccò e iniziò a fissarmi con sguardo serio. «Perché hai lasciato mia sorella?».

«È stata lei a lasciare me».

La sua espressione mutò repentinamente. Le sopracciglia castane quasi si congiunsero per lo stupore e la fronte si corrugò oltremisura.

«Lei ha lasciato te?». Domandò sbalordito e io confermai con un risicato cenno del capo.

«Impossibile». Esclamò risoluto.

«Te lo assicuro».

«E allora perché è sempre così... triste?».

Quella domanda fece smuovere qualcosa nelle parti del petto e dello stomaco. Ma ignorai la sensazione. Non avrei fatto più il grande errore di lasciare uscire qualche emozione.

«Non lo so. Chiedilo a lei».

«È sempre chiusa in camera a studiare. Esce solo per andare all'università e qualche volta quando Shinhai riesce a convincerla. Perfino la sua mamma è preoccupata. L'altra volta le ho sentito dire che vorrebbe mandarla dalla psicologa, ma papà l'ha rassicurata dicendole che è semplicemente una pena d'amore e non un problema psicologico. È così brutto?».

«Cosa?».

«Amare qualcuno? Sembra così doloroso».

«Non sono la persona giusta a cui chiederlo».

«Perché no? Non ami mia sorella?».

«Non stiamo più insieme da mesi, ormai».

«Ma questo non vuol dire che tu non possa amarla, giusto? Si può amare qualcuno anche se quella persona è lontana o non ricambia?».

«Penso di sì». Affermai laconico.

Alex scosse il capo un paio di volte prima di sospirare. «Sembra una questione davvero complicata. Io ho una mente scientifica e razionale ma l'amore sembra tutto fuorché razionale. Sembra non seguire regole, rispettare teoremi, avere assiomi. Sembra un grande caos».

«Non esiste una teoria del caos?».

«Sì, esiste e studia i sistemi caotici, come quello in cui viviamo. Riconduce tutto a un sistema iniziale ma, variando anche solo una minima condizione del sistema iniziale, cambia anche tutto il resto. Un grande caos, per l'appunto. Quindi?».

«Cosa?».

«Si può amare qualcuno che è lontano da te? E non intendo solo lontananza fisica».

Alex mi guardava con gli occhi colorati di marrone speranza e io risposi con le uniche prole che mi vennero in mente e che ancora risuonavano recitate dalla sua voce.

«Amore non è amore se muta quando scopre un mutamento, o tende a svanire quando l'altro si allontana. La conosci questa teoria?».

A Alex si illuminarono gli occhi. «No. Di quale matematico è?».

«Shakespeare».

Appena finii di pronunciare quel nome, scoppiò a ridere. Una risata vera, una risata sincera che solo un dodicenne ha il potere di evocare e io non riuscii a bloccare il sorriso che dopo mesi curvava miracolosamente gli angoli della mia bocca.

«Se mi stai facendo tutte queste domande, mi viene da pensare che ti piaccia qualcuno».

Due rossi familiari colorarono le sue guance. «Forse, non lo so. Ma non posso dirti il nome perché la conosci. Solo che lei pensa che non mi stia molto simpatica perché è più intelligente di me e prende sempre di più ai compiti in classe. Mi batte in continuazione e, quando succede, io mi arrabbio tantissimo. Con me stesso ovviamente, e anche un po' con lei. Ma quando mi è vicino il mio cuore sembra perdere il controllo e l'applewatch segna che sto correndo troppo. Secondo te vuol dire che mi piace?».

«Probabile».

«Ieri, Victoria Von Hausen e il suo gruppo mi stavano tormentando e lei ha preso le mie difese. Mi sono vergognato così tanto di essere stato difeso da una ragazza... Proprio lei poi, capisci? Quindi, oggi non ce l'ho fatta a restare a scuola e l'unico posto che mi è venuto in mente per rifugiarmi è stato il tuo studio».

«Perché ti sei vergognato?».

«Perché mi piace». Confessò abbassando lo sguardo sul panino ancora intatto.

«Sai le volte che tua sorella si è messa in mezzo per difendermi?».

Se le avessi contate, sarebbero state troppe.

Alex alzò nuovamente lo sguardo. «E tu ti sei mai vergognato?».

«Qualche volta sì. Ma poi l'ho accettato, perché ho capito che quando vuoi bene a una persona ti viene naturale difenderla, perché non vorresti mai vederla soffrire».

Alex annuì con aria assente. Forse la sua mente da matematico stava elaborando qualche teorema per spiegare il caos dell'amore o forse, semplicemente, stava pensando a Fiamma Fisher.

«E adesso finisci quel panino che ti riporto a scuola».

Alex sbuffò. «Sicuro che non posso rimanere con te fino a domani?».

«Più che sicuro».

«È che stasera sia io che Emma siamo costretti ad andare a una serata di beneficenza al Country Club».

«Divora quel panino come hai fatto con i nuggets e sali in macchina, ragazzino».

Anche se controvoglia, Alex eseguì il mio ordine e, quando parcheggia davanti scuola, fece un ultimo profondo respiro per poi voltarsi verso di me.

«È stato un piacere conoscerti, Ollie. Inizierò a seguirti su Instagram e ti consiglierò come miglior tatuatore della California a tutti i miei followers. Poi, quando avrò compiuto sedici anni, verrò a farmi un tatuaggio da te».

«Solo se avrai ideato un modello matematico che spieghi l'amore».

«Non mi serve idearlo, l'ho già trovato». Affermò soddisfatto.

«Allora, ci vediamo tra tre anni».

«Io spero anche prima». Puntualizzò con un sorriso stampato in faccia e il pugno sollevato in attesa di essere ricambiato.

Scossi la testa. «Sparisci».

Dopo un ultimo potente sorriso, Alex scese dalla macchina.

Lo guardai allontanarsi assicurandomi che entrasse per davvero a scuola e poi misi in moto, diretto al chiosco di Noah.

Poco prima mi era arrivato un messaggio di David in cui mi pregava di raggiungerli perché Ben aveva fatto un'altra delle sue cazzate e così feci.

Neanche dieci minuti dopo, avevo parcheggiato di fronte all'Oceano.

«Stai piangendo?». Domandai a Ben mentre prendevo posto al tavolo dove erano seduti.

La spiaggia era più affollata del solito. Poco distante dal chiosco, c'era una festa.

«No, ho solo gli occhi lucidi». Singhiozzò Ben tirando su con il naso neanche avesse due anni e gli avessero rubato le caramelle.

«Cosa ti è successo?». Non rispose, così mi voltai verso David e Noah. «Cosa gli è successo?».

Fu David a rispondere. «Vanesia è incazzata a morte con lui».

«Perché?». Chiesi mentre mi accendevo una sigaretta. Non avevo fumato per tutto il tempo che ero stato in compagnia di quel ragazzino logorroico.

«Mentre veniva, ha urlato il nome di un'altra». Mi spiegò Noah senza troppi giri di parole.

«Di chi?».

«Della scrittrice».

Il movimento della mia sopracciglia accompagnò il sospiro a cui mi lasciai andare prima di buttare fuori il fumo.

«Che cazzo, Ben». Mi limitai a commentare.

«Non l'ho fatto apposta. A voi non è mai capitato?». Si voltò speranzoso verso David che sbottò indignato.

«No, certo che no! Punto primo: se mai mi uscisse il nome di un'altra donna, sarebbe quello di mia nonna visto che per evitare di venire prima di Beatrice devo pensare a lei per qualche secondo e rimanere abbastanza concentrato. Punto secondo: secondo te, sarei ancora qua se avessi mai pronunciato il nome di un'altra? Vi stareste facendo una canna al capezzale della mia tomba».

Quella risposta fece cadere ancora di più nello sconforto Ben che si voltò verso Noah, che però non aveva mai avuto una relazione seria - tantomeno con una donna - e che quindi si limitò a scrollare la testa come per dire "non guardare me". Infine, si voltò verso di me.

«A te è mai capitato?».

«No».

C'era sempre stato un unico e solo nome che aveva occupato la mia testa così insistentemente che non era rimasto posto per nessun altro.

«Sono spacciato. Questa non me la perdona».

«Pensi ancora a quella?». Gli domandò indignato Noah.

«No, certo che no. Ma prima che lo facessimo stavo guardando storie random e mi è capitata la sua. È riuscita a pubblicare il suo libro, a proposito. Ma giuro che per me esiste solo Vanesia. Sono cotto di lei. È stato un refuso».

«Guarda che i rifusi sono quelli che si fanno quando si scrive alla tastiera». Puntualizzò Noah.

«E io l'ho fatto mentre il mio uccello scriveva alla tastiera del mio cervello».

«Forse volevi dire lapsus». Ipotizzò David.

«Lapsus, refuso... Cosa importa? Sono nella merda. Vanesia mi lascerà».

Mi presi del tempo per guardare attentamente i miei tre amici e mai come in quel momento mi venne voglia di staccare la spina, smettere di pensare e, perché no, magari anche divertirmi.

«Andiamo a ubriacarci da qualche parte». Proposi di punto in bianco.

In un attimo, mi ritrovai i loro occhi puntati addosso.

Ben scrollò la testa come per far chiarezza. «Puoi ripetere? Forse, il mio cervello ha sentito un altro refuso».

Spensi la sigaretta nel posacenere e mi alzai dalla sedia. «Andiamo a sballarci come ai vecchi tempi. Mi sono rotto il cazzo di pensare. Inoltre, Ben, le uniche idee geniali che ti vengono sono quelle che la tua mente contorta partorisce quando si scollega dalla realtà. Allora?».

Non ci fu bisogno di chiederlo una seconda volta.

Avevo ancora ben presente la promessa che avevo fatto a Emma e avevo tutta l'intenzione di rispettarla.

Per questo, bevvi un quantitativo di alcool che mi permise di godermi la serata e fumai quel tanto che bastò a scrollare via di dosso i pensieri negativi.

La prima grande regola da rispettare quando si fuma è quella di non farsela mai prendere male, altrimenti la mente comincia a giocare brutti scherzi e la paranoia si impossessa di te.

Io, quella sera, sebbene non avessi smesso di pensare a Emma da quando il fratello era sbucato nel mio studio, ero in presa bene. Molto bene, perché Emma, nonostante tutto il dolore che mi aveva fatto provare, era il mio ricordo felice e sempre lo sarebbe stato.

«Quanto cazzo vi voglio bene». Biascicò Ben piazzando poco delicatamente le sue braccia intorno spalle mie e di David mentre Noah era impegnato a rollare il buttaunnumeroacaso spinello.

Avevamo iniziato a bere a una festa sulla spiaggia con il sole alto nel cielo e ora che di quella palla esplosiva e ingombrante non c'era neanche più la minima traccia stavamo continuando a farlo in un locale imbarazzante, in cui eravamo capitati per caso e di cui non avrei ricordato il nome neanche a leggerlo.

Con la voce di Katy Perry nell'orecchio storpiata da quella di Ben che cantava a squarciagola Hot'n'cold, buttai giù un altro shot color rosa fluo.

«Someone call the doctor! Got a case of a love bipolar. Stuck on a roller coaster, can't get off this riiiiiiiide».

«Ben, smettila. Sei stonato». Si lamentò David mentre rideva con le lacrime agli occhi

Mi meravigliai di scoprire che anche io le avevo, ma non ricordavo il motivo per cui stavo ridendo.

«Volete sapere una cosa?». Ci chiese Ben tornando al suo posto e per poco non cadde dalla sedia. «Voglio tornare ad avere vent'anni».

«Io no». Si affrettò a precisare David chiarendo il concetto con un goffo gesto della mano su cui non esercitava più nessun controllo. «Neanche se mi pagassero. A vent'anni non conoscevo Beatrice e io non voglio vivere in un mondo dove lei non sappia della mia resistenza. Esistenza, volevo dire».

«Neanche se Jennifer Aniston ti offrisse un pompino?». Gli domandò Ben.

«Dio, no! Perché poi proprio Jennifer Aniston?».

«Perché è una milf stratosferica e io ho un debole per me milf». Ci spiegò cercando di trovare un equilibrio stabile sulla sedia.

«Tu hai un debole per qualsiasi essere vivente di sesso femminile». Puntualizzò Noah.

«Non è vero». Protestò Ben indignato. «Per me esiste solo Vanesia. A proposito: ecco il mio piano».

Prese il telefono e non riuscimmo a fermarlo dal fare quella chiamata, per cui si accertò di aver messo il vivavoce.

Quando Vanesia rispose, lui iniziò a supplicare. «Ti prego, amore mio, perdonami. Per me esisti solo tu! And love is all that I need, and I found it there in your heart. Isn't too hard to see: we're in heaven...».

Esisteva scena più triste di Ben che stonava ubriaco Bryan Adams?

Scoppiamo a ridere tutti e tre.

«Ben? Sei ubriaco?». Domandò Vanesia dall'altra parte del telefono.

«Di te, sempre e comunque. Dimmi che mi perdonerai, piccola! Ho bisogno di te perché tu sei l'unica donna che io voglia al mio fianco, l'unica con cui mettere al mondo tanti mini Ben».

«Dove sei?».

«Sono con gli amici del mio cuore».

«Dove?».

«Non ne ho idea».

«Leggi il nome del locale da qualche parte». Gli ordinò estremamente spazientita.

David prese un tovagliolo giallo fluo e glielo schiaffò in faccia.

Dopo averlo afferrato a fatica, gli occhi di Ben si strizzarono per mettere meglio a fuoco. «Non so se Gummy Bear sia il nome del locale o l'orsetto gommoso che ha fumato prima con noi».

«Rimani lì, idiota!».

Vanesia gli attaccò il telefono in faccia e noi non perdemmo tempo a scoppiare in una risata fragorosa.

«Mi sa che sono nei guai».

«Ma almeno sta venendo da te». Gli feci notare biasciando anche io quelle parole abbastanza ubriaco.

Ben mi scoccò un bacio volante per poi alzare il bicchiere e fare l'ennesimo brindisi. Che poi... cosa stavamo festeggiando?

Non era il momento di porsi quella domanda. Buttai giù e poi afferrai lo spinello che mi stava passando Noah.

Quando Beatrice fece irruzione nel locale, ero certo di aver perso il conto di quante volte avessi ripetuto quella catena di azioni.

«Siete quattro coglioni». Esordì piazzandosi minacciosa al lato del nostro tavolo.

In un attimo, i nostri occhi poco lucidi erano puntati su lei e su Vanesia.

«Ehi, amore mio... Come sei bella questa sera!». Mugugnò David rivolgendosi a Beatrice.

Fece del suo meglio per rimanere serio, ma fallì e noi scoppiamo a ridere, di nuovo...

«Sei fidanzata, per caso? Perché io sì, ma non sono un tipo geloso». David ammiccò e questo fece ancora di più irritare Beatrice che incrociò le braccia e gli scoccò un'occhiataccia.

«Con te faccio i conti dopo. Ma io dico... quanti anni pensate di avere? Adesso vi alzate e voi due». Indicò Ben e Noah. «Andate in macchina con Vanesia, mentre voi due». Indicò me e David. «In macchina con me».

Sembrava più una minaccia che una disposizione di ordine logistico. Per questo, io e David ci alzammo senza fiatare, come due bravi bambini.

«Entrate in macchina e restateci. Io vado a pagare i fiumi di alcool che avete ingurgitato. Idioti!».

Uscimmo dal locale camminando miracolosamente sulle nostre gambe e, quando i nostri sederi toccarono i sedili della macchina di Beatrice, David non perse tempo ad avvisarmi.

«Non pensare neanche di vomitare qua dentro. Tu non l'hai mai vista arrabbiata». Mi avvisò prima di voltarsi e fare capolino da dietro il sedile del passeggero.

Io ero stravaccato sui sedili posteriori, con la testa abbandonata al poggiatesta, giustamente annebbiata dall'alcool e dal fumo ma leggera al punto giusto da farmi credere che ogni idea mi venisse in mente fosse geniale e quella la serata giusta per realizzarla.

«Tutto bene?». Mi chiese dandomi un colpetto sul ginocchio.

«Voglio andare da Emma».

«Fidati, no. Adesso sembra una buona idea, ma domani te ne pentirai».

«Devo dirle una cosa».

«Cosa?».

«Una cosa».

«Prima dilla a me, così ti dico se è una cosa che puoi dirle».

«Non posso dirla a te».

«Perché no?».

«Perché con te non voglio fare sesso, mentre con lei sì».

David ci pensò su e poi fece spallucce. «Ha senso».

«Te l'ho detto».

Quando Beatrice entrò in macchina, David si sporse per baciarla ma lei gli piazzò la mano ben aperta in faccia e lo rimise a posto.

«Sono nei guai?». Le domandò con tono remissivo.

«Sono stata chiamata nel bel mezzo della cena di lavoro da Vanesia per essere informata che il mio fidanzato e i suoi tre amici idioti erano ubriachi marci in un locale di cui non conoscevano neanche il nome. Se non fossi finita seduta vicino a Faccia da Culo, sì, saresti in un mare di guai. Mi spiegate perché vi siete ridotti così?».

«Ben aveva litigato con Vanesia e Ollie ci ha proposto di andare a bere. Capisci che dovevamo cogliere l'attimo?».

Quella spiegazione fece voltare Beatrice verso di me. Era stupita almeno quanto innervosita.

«È stata una tua idea?».

Feci sì con la testa, l'espressione di Beatrice si raddolcì e io mi sentii patetico.

«Tutto bene? Vuoi dirmi cosa è successo?». Mi domandò con inflessione dolce e tipica delle maestre.

«Ho bisogno di vedere Emma. Mi porti da lei?». La supplicai come se avessi veramente sette anni e lei fosse la mia maestra. «È al Country Club».

Beatrice non sembrò prendere in considerazione seriamente la mia richiesta, perché mise in moto senza dire niente e partì.

Solo che non svoltò a sinistra per prendere la strada che ci avrebbe condotto a sud. Svoltò a destra, diretta verso la parte nord della città.

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