Come le ali di una farfalla

By kimadder

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Emma Cooper Γ¨ un'adorabile sconclusionata di ventun anni. Affronta la vita vestita di colori pastello e armat... More

Emma e Ollie
Cara G.
1. Il permesso
2. L'incontro
3. Il pugno
4. L'ospedale
5. L'ultima sigaretta
6. La dichiarazione
7. I buoni propositi
8. La panchina
9. Il numero
10. Lo stratagemma
11. La festa
12. Il regalo
13. La rissa
14. Il campo da football
15 - Il sogno
16 - Gli occhiali
17. La farfalla e il pipistrello
18. La fuga
19. L'ospite
20. La pulizia
21. La ricercata
22. La visita
23. L'approccio
24. La lista
25. La torta di mele
26. La scommessa
27. I pesci
28. I biglietti
29. La (non) sorpresa
30. La proposta
31. Lo scontro
32. La maglietta
33. Il concerto
34. La cena
35. Il film
36. L'onda perfetta
37. Il bacio
38. Il colibrì
39. La clinica
40. L'ostaggio
41. L'avvertimento
42. Il tatuaggio
43. Il regolamento di conti
44. Il consiglio
45. Frammenti di una sera
46. La prima volta
47. Il 𝐺𝑖𝑛 π‘Žπ‘›π‘‘ π»π‘œπ‘
48. La buonanotte
49. Il Principe delle Tenebre
50. Il materasso
51. Le tenebre
52. La gelosia
53. La dedica
55. π˜₯𝘦𝘭𝘭𝘒 𝘧π˜ͺ𝘯𝘦
56. La rottura
57. Marzo
58. Aprile
59. π™ΌπšŠπšπšπš’πš˜
60. π™΅πšŠπšπšπš’
61. π™²πš˜πš›πšŠπšπšπš’πš˜
62. Giugno
63. Il matrimonio (1)
64. Il matrimonio (2)
65. La promessa
66. La festa
𝕀𝕝 π•π•šπ•–π•₯𝕠
π•—π•šπ•Ÿπ•–
Come vi ringrazioπŸ©·πŸ¦‹

54. π˜“'π˜ͺ𝘯π˜ͺ𝘻π˜ͺ𝘰

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By kimadder

I've got a hundred million reasons to walk awayBut baby, I just need one good one to stay

Million reasons, Lady Gaga

Emma

Tra tutte le festività, Halloween era la mia preferita.

Amavo intagliare le zucche, fare indigestione di dolciumi, addobbare la casa a festa e soprattutto travestirmi.

All'età di dieci anni, durante una festa in maschera organizzata dalla madre di Davis, ero riuscita a vincere il premio come miglior costume originale.

Mi ero travestita dal mostro di Frankenstein, senza sforzarmi troppo di calarmi nelle vibes del costume, anche perché avevo dovuto truccare solamente le cicatrici del viso, visto che quelle nelle altre parti del corpo erano già presenti.

Non scoprii mai se avessi ricevuto quel premio per pietà o per il mio senso dell'umorismo. Fatto sta che non dimenticai mai l'emozione di riceverlo davanti a tutti senza vergognarmi del mio aspetto.

La notte di Halloween puoi essere chiunque tu voglia e quella notte io sarei stata una sexy infermiera assassina pronta ad accogliere i bambini di tutto il vicinato - figlia cleptomane della vicina compresa - prima di rinchiudermi in stanza con Ollie per il resto della notte.

Perché la parte sexy del costume l'avrebbe vista solo lui, ovviamente...

Ollie non aveva fatto storie alla pretesa mia e di Penelope di addobbare la casa come fosse quella stregata e, quando si svegliò sommerso di finte ragnatele, ci lanciò giusto due occhiatacce, una a testa, prima di andare a lavoro. Solo che la mia fu accompagnata da uno di quei baci che ti fanno tremare le gambe e schizzare il cuore fuori dal petto. Cose che, ogni volta che mi era vicino, continuavano ancora ad accadere come fossero irripetibili prime volte.

Ormai era passato un mese da quando mi aveva dedicato quella canzone...

Ovviamente, Ollie si era rifiutato categoricamente di indossare qualsiasi costume gli avessimo proposto. Al contrario di Chase, che si era immedesimato nel suo costume meglio di un attore nella sua parte. Lui e Penelope si sarebbero mascherati dalle versioni horror di Homer e Marge Simpson.

Stavamo giusto finendo di intagliare l'ultima zucca affinché raggiungesse le altre già disposte in veranda, quando Ollie entrò in casa e ci raggiunse in cucina.

«Ollie». Lo salutai sorpresa di vederlo a casa prima del previsto.

«Andiamo». Mi rispose lui con tono severo.

«Dove?». Gli chiesi sinceramente stupita.

Sentii gli occhi di Penelope balzare da me a Ollie nel tentavo di capire perché lui fossi così irritato.

Anche io facevo faticare a capire. Non ci vedevamo dalla mattina e non ci sentivamo dall'ora di pranzo, quando ancora il suo tono di voce era quello di sempre, e io ero stata tutto il giorno a casa a intagliare zucche e appendere addobbi. Quindi, di guai non ne avevo potuto combinare, in teoria...

«Dobbiamo parlare». Fu l'unica spiegazione che mi fornì prima di afferrarmi delicatamente per il braccio per condurmi su per le scale.

Arrivati in camera, non fece in tempo a chiudersi la porta alle spalle che si rivolse a me con tono ancora più irritato di quello di prima.

«Che cazzo hai fatto?».

«Niente».

«Non mi prendere per il culo, Emma». Mi ringhiò contro.

Cominciai a stuzzicarmi la pellicina del pollice con l'unghia dell'indice, abbassando gli occhi il tempo necessario a elaborare una risposta.

«Non so di cosa stai parlando».

O forse lo sapevo? Perché, quando si viene accusati di qualcosa, si pensa sempre alla cosa più grave commessa in segreto e io ne avevo una bella grande rinchiusa nel cassetto dei Top Secret.

Ollie si passò una mano tra i capelli ed espirò rabbia. Era furioso, molto, e con me.

«Hai dato tu i fottuti soldi a Max?».

Anche questa volta abbassai lo sguardo, mortificata, ma non ebbi il coraggio di rialzarlo mentre gli rispondevo.

«Chi te lo ha detto?».

«Non ci posso credere, cazzo». Sussurrò come se si stesse rivolgendo più a se stesso che a me. «Non dovevi permetterti!».

Invece, questo era rivolto decisamente a me.

«Io... mi dispiace, ma...».

«Io non ti ho chiesto nulla».

Il coraggio tornò dalla mia parte proprio come i miei occhi tornarono su di lui. «Lo so, però...».

Tanto era arrabbiato, non mi faceva terminare mai le scuse ridicole che stavo cercando di accampare.

«Avevi promesso che non avresti più avuto niente a che fare con lui».

«Lo so, e infatti...».

«Allora come gliel'hai dati i soldi? Con un bonifico?». Sbottò colpendomi con un sarcasmo sprezzante che faceva anche più male della sua espressione furiosa.

«Ovviamente no...».

«Che cazzo, Emma!».

«Scusami. Veramente...».

Provai ad avvicinarmi ma lui indietreggiò.

«Ti ho ospitato dentro questa casa lasciandoti fare qualsiasi cosa ti venisse in mente. Ma tu sei riuscita a fare la sola cosa che non avresti dovuto assolutamente fare. Non mi servono i tuoi soldi. Hai capito? E non mi serve neanche che risolva i miei problemi, ma forse questo non ti è ancora chiaro visto che non riesci mai a farti gli affari tuoi. Ma adesso basta».

Il sangue reagì a quelle ultime tre parole ghiacciandosi all'istante.

«Cosa mi stai dicendo?». Sussurrai a corto di voce. Il respiro accelerò vertiginosamente mentre i polmoni facevano fatica a stargli dietro.

Ollie non rispose, continuò a guardarmi serio, indecifrabile, come se avesse rimesso quella maschera che ero riuscita così faticosamente a fargli almeno abbassare, come se io fossi una persona qualunque incontrata per caso lungo il suo cammino.

«Ollie...». Feci un altro passo avanti e lui un altro indietro. «Possiamo parlarne?». Lo supplicai.

«Ah, adesso vuoi parlare! Il problema è che io non ne ho voglia».

Si voltò, senza darmi modo di spiegare o provare almeno ad aggiustare quel grossissimo malinteso, e uscì dalla camera sbattendo la porta.

Lo seguii in corridoio e, mentre lo guardavo scendere le scale, le mie dita si strinsero così tanto al legno del corrimano da sentire i tendini del braccio rischiare di strapparsi per la tensione.

«Dove stai andando?». Gli domandai con la voce comandata dall'urgenza di sapere se la paura che percepivo immobilizzarmi fosse destinata a cristallizzarsi o svanire.

Ollie si fermò, voltandosi quel tanto che bastava a guardarmi come se io non ne valessi più la pena.

«Lontano da te. E almeno questa cazzo di volta fatti i cazzi tuoi, Emma, e non venire a cercarmi».

Poi, riprese a scendere le scale.

Rimasi immobile in cima alle scale finché non sentii la porta di ingresso aprirsi e chiudersi anche più violentemente di prima.

L'eco del tonfo che fece fu il segnale per le mie gambe, che furono le prime a cedere.

Mi ritrovai inginocchiata a terra, con il cuore impazzito anche più del sangue che vorticava caotico nelle orecchie.

Quando Penelope mi raggiunse in cima alle scale inginocchiandosi di fronte a me, io stavo piangendo.

Per davvero, questa volta.

Non era sangue quello che sgorgava dai miei occhi e di questo potevo esserne certa visto che le mie labbra furono presto bagnate da uno sostanza liquida e salata.

Non riuscivo a smettere di domandarmi se Ollie mi avesse lasciato e, quando ripensavo al modo in cui mi aveva guardato, la risposta era sempre affermativa.

Ollie

Avevo esagerato, ne ero consapevole, e mi ero pentito ancora prima di mettere piede fuori di casa. Ma avevo provato un mix letale di emozioni che mi aveva fatto uscire completamente fuori di testa.

Quando le reprimi per così tanto tempo, vietando loro ogni chance di liberarsi, diventi totalmente inabile a gestirle.

Provavo rabbia al pensiero di Max che si fosse visto con Emma per prendere quei maledetti soldi. Frustrazione per non essere stato capace di darglieli io. Vergogna e debolezza per aver ricevuto quell'aiuto, anche se non richiesto. E, infine, mi facevo schifo per come l'avevo trattata.

Emma non se lo meritava, proprio come Fiona Raynolds non si era mai meritata tutti gli insulti ricevuti da Vasyl Macsim e, anche se di fatto non l'avessi insultata, l'avevo guardata nello stesso modo in cui mio padre aveva sempre guardato mia madre: il disprezzo negli occhi e lo schifo nella bocca pronto a essere liberato.

Ero tornato a casa appena il mio cuore aveva smesso di vergognarsi e la mia testa si era convinta di meritare il perdono di Emma ma, oltre a due zucche martoriate abbandonate sul tavolo della cucina, non avevo trovato nessuno.

Non avevo perso tempo a chiamarla, ma ogni tentativo si era dimostrato inutile. Emma non rispondeva mai, proprio come anche mia sorella. Così, ero uscito a cercarla ed erano ormai due ore che vagavo come un disperato.

Entrai al Dylan & Dog per la seconda volta ma, proprio come la prima, di Emma non c'era traccia.

Trovai Ben questa volta, mascherato da Hannibal Lecter, che mi scoccò un'occhiata truce quando si accorse di me.

«Che vuoi?». Gli chiesi abbastanza infastidito, anche se estremamente consapevole di meritarmela tutta.

«Niente». Mi rispose stizzito.

«Sai dov'è Emma?».

«Dove dovrebbe stare. Lontano da te, giusto?».

«E tu cosa ne sai?».

«Ero passato a portare delle decorazioni e ho trovato Emma in un mare di lacrime seduta sul divano con Penelope che cercava di consolarla, ma era inconsolabile. Sei un pezzo di merda, Ollie». Mi dedicò quelle parole con tutto il disprezzo di cui era capace e poi si alzò.

Aveva ragione, lo ero, ma non me ne fregava niente. Dovevo trovarla. Così, lo bloccai prima che potesse allontanarsi.

«Sai dov'è?».

«Non sono più affari tuoi!».

Ignorai la fitta e l'urgenza di reprimerla.

«Dimmelo».

Ben mi ignorò e mi oltrepassò, lasciandomi da solo come il coglione che ero.

Non mi rimaneva altro che un ultimo e disperato tentativo, che attuai appena uscito dal Dylan & Dog: chiamare la sua amica che mi odiava anche più di sua madre.

Dopo una serie interminabile di squilli, finalmente mi rispose.

«Sì?».

Mi presi qualche secondo per decidere se attaccare o toccare il fondo.

Optai per il fondo.

«Sono Ollie».

«Ah...».

«Emma è con te?».

«No...».

«L'hai sentita?».

«Che le hai fatto?».

Visto che già lo aveva toccato il fondo, neanche persi tempo a domandarmi se essere sincero o inventare una qualunque cavolata che mi avrebbe fatto guadagnare una striminzita opportunità.

«L'ho trattata di merda e l'ho fatta piangere. Così, ora lei sta con mia sorella e nessuna delle due mi risponde. L'ho cercata per tutta la città ma riesco a trovarla. Quindi, puoi insultarmi quanto e come vuoi, basta che poi mi suggerisci qualche posto in cui andare».

Shinhai fece una pausa e poi attaccò il telefono.

Avevo perso definitivamente ogni speranza di instaurare un rapporto ai limiti della decenza con la migliore amica di Emma.

Ma dovetti ricredermi quando mi arrivò un messaggio.

Lo aprii e i miei occhi si spostarono subito dall'indirizzo che mi era stato inviato al numero che me l'aveva inviato: era di Shinhai.

Non persi tempo a salire in macchina.

Quando entrai nel locale, capii il motivo per cui non fossi riuscito a trovare Emma. Mia sorella l'aveva portata in un posto che non mi sarebbe mai venuto in mente, neanche in una vita parallela: un cazzo di locale di salsa e bachata.

Avrei potuto vomitare all'istante.

Mi fece largo tra la folla di quei corpi ammassati che si muovevano a ritmo di balli latino americani e il mio sguardo si sentì attratto ancor prima che i miei occhi si posassero su di lei.

Era seduta a un tavolo con Penelope, con davanti un bicchiere ancora pieno. Probabilmente, mia sorella voleva farla ubriacare.

Furono gli occhi di Penelope i primi a posarsi su di me.

«Vattene o ti giuro che ti buco le ruote del pick up». Mi minacciò ma la ignorai.

Continuai a guardare Emma che però teneva gli occhi fissi sul bicchiere.

«Penelope, perché non vai a cercare qualcuno con cui ballare a ritmo di queste canzoni di merda?».

«Forse, potrei prenderti a calci in culo a ritmo di queste canzoni di merda!».

Serrai la mascella scoccandole un'occhiata. «Per favore».

Penelope mi fece la grazia di accontentarmi alzandosi controvoglia, ma non prima di aver guardato Emma come per dirle "basta anche solo uno sguardo e torno qua per prenderlo a calci in culo".

Bene, anche mia sorella era contro di me. Faceva bene.

Una volta soli, mi sedetti vicino a Emma che ancora mi stava ignorando. «Possiamo parlare?».

«Non mi va».

Oltre agli occhi gonfi, anche la sua voce era rovinata dal pianto.

«Emma, per favore».

«Non voglio parlarti».

Quelle parole sì che facevano male. Mi parlava da quando aveva deciso di entrare a far parte della mia vita e, ora che non riuscivo più a fare a meno della sua voce, lei non voleva parlarmi.

«Emma, dai». Provai a prenderle la mano ma la ritrasse. Poi, incrociò le braccia.

Quella posizione non le si addiceva per niente e io detestavo vederla così. Emma non si arrabbiava mai. Pensava fosse una grande perdita di tempo perché era convinta che nessuno a questo mondo meritasse la rabbia altrui. Ma la verità era che il resto del mondo non meritava lei.

«Scusami. Non volevo farti piangere»

Emma non aveva nessuna intenzione di rispondermi, così iniziai a dire cose senza senso al solo scopo di farla smettere.

«Ti ho cercato ovunque e se non ti avessi trovato neanche qua sarei andata a cercarti a casa, anche se ho paura di tua madre». Il mio tentativo di farle almeno abbozzare un sorriso fallì miseramente. «Ti ho cercata persino al Gin and Hop».

«Tu e gli altri non dite sempre che quel posto è pieno di ragazzini esaltati?».

«È Noah a dirlo. Comunque, non eri neanche là».

«Mi hai detto che dovevo stare lontana da te e lo sto facendo».

«Ero arrabbiato».

«Non avevo mai pianto prima d'ora, lacrime di sangue a parte».

«Anche io non avevo mai avuto una ragazza prima d'ora».

Quella mia considerazione, le fece finalmente spostare lo sguardo dal bicchiere al mio viso.

«Ah, quindi ora stiamo insieme?».

«Lo sai che io e te stiamo insieme. Lo sai anche se non te lo ripeto in continuazione. Lo sai perché lo vedi».

«Veramente quello che ho visto oggi sembrava tutto tranne che tu avessi intenzione di continuare a stare con me».

«Nei rapporti si litiga, ma questo non vuol dire che...».

«Mi hai guardato come se non ne valessi la pena!».

Rimasi inorridito da quelle parole. «Ti rendi conto che hai dato ottomila dollari a Max senza dirmi niente?».

«I soldi sono miei e ci faccio quello che voglio».

«Non era una questione che ti riguardava».

«Vero! Visto che non stiamo insieme, non mi riguardava affatto».

Sbuffai una risatina di esasperazione. «Tu non capisci...».

«Ma certo che non capisco. Lo sai bene che non sono quella intelligente della famiglia. Sono sempre stata una frana con lo studio, ho un QI inferiore alla media e mi sono rotta di sforzarmi di capire quello che tu non lasci mai intendere».

Liberò le braccia da quella posizione e si alzò.

«Dove stai andando?». Le chiesi con l'urgenza di impedirle di allontanarsi da me.

«Lontano da te». Mi rispose mentre già aveva fatto diversi passi in avanti che di fatto la stavano allontanando da me.

Mi alzai anche io di scatto e la seguii, bloccandola nel bel mezzo della pista da ballo.

«Emma, aspetta». La supplicai prendendola per mano. «Puoi aspettare? Giuro che sarei disposto anche a ballare, basta che non te ne vai. Possiamo parlare?».

Emma fissò la mia mano intrecciata alla sua, riflettendo più a lungo di quanto avesse mai fatto. Poi, si decise a cedere offrendomi anche l'altra.

«Okay, allora balliamo». Esclamò con aria di sfida.

Non me lo feci ripetere due volte e l'attirai a me, stringendola finché il suo corpo non fosse completamente a contatto con il mio.

Eravamo gli unici in tutta la pista che non stavano andando a ritmo della canzone. Mentre tutto sfoggiavano mosse di bachata, noi stavamo ballando un lento, abbandonandoci entrambi a un dolce dondolio.

«Non sono abituato». Confessai.

«A cosa?».

«A non sentirti, Emma. A chiamarti senza ricevere alcuna risposta, a tornare a casa e non trovarti non sapendo dove cercarti».

«Chi ti ha detto dove fossi?».

«Shinhai».

Emma annuì, studiò per una manciata di secondi la sua mano stretta nella mia per poi tornare a parlare guardandomi dritto negli occhi.

«Ho dato quei soldi a Max perché potevo farlo e perché volevo».

«Ti ridarò tutto». Mi affrettai a mettere in chiaro.

«Ma io non voglio».

«E io non voglio che tu risolva i miei casini».

«Ma due persone che stanno insieme fanno così: risolvono i propri casini a vicenda».

«Dovevi dirmelo».

«Scusami, ho sbagliato. Ma, se te lo avessi detto, non me lo avresti permesso... Inoltre, mi ospiti da mesi a casa tua senza farmi pagare niente. Sono io a essere in debito con te».

«Non è la stessa cosa...».

«Io non li rivoglio e tu devi accettarlo».

Emma parlò con tono risoluto e io ebbi la sensazione che, almeno questa volta, non sarei riuscito a dissuaderla in nessun modo.

«Dovresti avere almeno un milione di ragioni per andare via da me». Dissi sfiorando le sue labbra con le mie.

Le sue sopracciglia si inarcarono trasportate dall'espressione sbigottita che stava facendo. «Stai citando Lady Gaga, per caso?».

Sentii gli angoli della mia bocca piegarsi verso l'alto quando capii che Emma aveva riconosciuto le note di quella canzone - che sicuramente aveva nella sua playlist - anche se storpiate dal ritmo tipico della bachata.

«Beh, allora, se dobbiamo parlare per citazioni, ti dico che a volte ne basta solo una buona per restare».

«E quale sarebbe quella che ti fa restare anche dopo questa sera?».

«Sei tu, Ollie. Sei l'unica ragione per cui restare. Non mi importa del quartiere in cui abiti o dei demoni che ti porti dietro. Anche io ho i miei, solo che sono cicatrizzati e visibili. E non mi importa neanche dei motivi per cui potresti sclerare come hai fatto questa sera. Siamo esseri perfettibili e ci arrabbiamo in continuazione. L'importante è saper chiedere e accettare le scuse. Non mi importa neanche di tutte le altre ragioni che non manchi mai di ricordarmi ogni giorno per farmi andare via. Io rimango, perché sei la mia ragione buona».

«Non ti stavo guardando come se non ne valessi la pena».

«E allora come mi stavi guardando?». Mi domandò abbassando lo sguardo che, però, rialzò appena sentì la mia risposta.

«Come un fidanzato arrabbiato guarda la propria fidanzata mentre ci sta litigando».

«Hai detto che sei il mio fidanzato e io la tua? Hai appena detto che siamo fidanzati?». La sua voce vibrava di entusiasmo anche più dello scintillio che mise in risalto il grigio dei suoi occhi.

Avvicinai il mio viso al suo per baciarla.

«Come sempre ti serve una comunicazione in carta bollata? Non esiste nessun'altra per me. Hai completo accesso a ogni parte di me. Non l'hai ancora capito che sei tu a tenermi in pugno?».

Emma sorrise ma il suo sorriso sfumò quando le sue labbra risposero al mio bacio. Poi, le sue dita si intrecciarono tra i miei capelli e io la strinsi ancora più forte e a me.

«Questo mondo ti merita, Emma». Le sussurrai.

«Cosa?». Mi chiese vagamente perplessa.

«Questo mondo non ti merita».

«Potrei dire lo stesso di te».

«Io non faccio molto differenza».

«Se è per questo, neanche io».

«Fai la differenza nella mia vita. E no, non ti stavo guardando come se non ne valessi la pena, perché tu vali tutte le pene di questo mondo».

Emma rimase sinceramente colpita dalle mie parole e si fece particolarmente seria, una serietà che conferì la giusta importanza alle parole che stava per rivolgermi.

«Ti amo, Ollie». Dichiarò, e questa volta sembrò non aspettarsi nulla in cambio se non un semplice ma potente bacio.

E io l'accontentai, cercando di racchiudere in quel bacio tutto quello che non riuscivo a dire a parole.

Emma si era presa tutte le ammaccature della mia vita e aveva dato loro una seconda vita.

Probabilmente l'amavo, e probabilmente non meritavo il suo amore. Ma avrei fatto di tutto per continuare a essere la ragione per cui farla rimanere.

E così feci.

Le dimostrai ogni giorno di essere quella buona ragione.

Anzi, tutti tutti i giorni gliene fornivo sempre un'altra valida. Non che servisse, perché Emma sembrava amarmi senza chiedere nulla in cambio.

Me lo ripeteva ogni giorno, pronunciando quelle tre parole senza aspettarsi che anche io gliele dicessi. Ma io continuavo, perché tutte le altre valide ragioni che trovavo servivano più a convincere me stesso che lei.

Per il giorno del Ringraziamento, avevamo invitato così tante persone per pranzo che dovemmo unire tre tavoli e mangiare in giardino. Per fortuna, riuscii  a dissuadere Emma dall'invitare anche Earl, il cocainomane, e la gattara pazza con la figlia cleptomane.

A Natale, feci il grande sforzo di comportarmi come se fossi posseduto dall'anima di Elf e non da quella del Grinch.

Sebbene non avessi mai decorato un albero di Natale in vita mia, quell'anno passai un intero pomeriggio a decorarlo insieme a Emma che, al contrario mio, aveva lo spirito natalizio che gli scorreva nel sangue al posto dell'emoglobina.

E, se ve lo state chiedendo, no, non indossai nessun maglione natalizio di coppia. Me l'ero cavata con una felpa rossa per la sera della Vigilia, mentre Emma, avendo preso la questione con la serietà che meritava, aveva indossato un completo da elfa abbinato a quello di Ben che poi io, una volta che tutti si erano tolti dalle palle, le avevo sfilato, con calma e pazienza, godendo di ogni sussulto e brivido che ancora le provocava il tocco delle mie mani sulla sua pelle.

Per non parlare delle reazioni del suo corpo alla mia lingua...

Per il suo compleanno, il quindici gennaio, realizzai l'ultimo desiderio che mancava sulla sua lista, e di cui lei si era ormai dimenticata.

Con l'aiuto degli altri, avevo trasformato il chiosco di Noah in un cantinas messicana e feci sballare Emma in perfetto stile californiano nel solo modo in cui avrei potuto farla sballare: riempiendola di zuccheri e cibo di vario genere, rigorosamente messicano.

Poi, mentre gli altri erano occupati a bere margarita e michelada preparati da Nola a suon di musica imbarazzate prodotta da Ben che, per l'occasione, si era vestito come un componente dei mariachi, io le avevo dato il mio regalo.

La farfalla in oro che pendeva dalla catenina che Emma non aveva smesso di rigirare tra le mani, tanto era emozionata e incredula, era della stessa forma di quella impressa sulla mia pelle.

Visto che Emma era unica nel suo genere, meritava un regalo unico nel suo genere, un pezzo unico creato appositamente per lei.

Per giorni, portò le tracce del potente sorriso che non aveva smesso di indossare da quando quella farfallina dorata le pendeva dal collo.

E poi arrivò il giorno in cui non servi più fornire altre ragioni valide per farla rimanere, perché Emma mi lasciò.

Non fui certo di avere un cuore funzionante finché una cicatrice non ci si formò sopra.

Portava il suo nome e racchiudeva tutte le sue cicatrici che per mesi avevo fatto mie.

Faceva male.

Tanto.

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