Come le ali di una farfalla

By kimadder

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Emma Cooper Γ¨ un'adorabile sconclusionata di ventun anni. Affronta la vita vestita di colori pastello e armat... More

Emma e Ollie
Cara G.
1. Il permesso
2. L'incontro
3. Il pugno
4. L'ospedale
5. L'ultima sigaretta
6. La dichiarazione
7. I buoni propositi
8. La panchina
9. Il numero
10. Lo stratagemma
11. La festa
12. Il regalo
13. La rissa
14. Il campo da football
15 - Il sogno
16 - Gli occhiali
17. La farfalla e il pipistrello
18. La fuga
19. L'ospite
20. La pulizia
21. La ricercata
22. La visita
23. L'approccio
24. La lista
25. La torta di mele
26. La scommessa
27. I pesci
28. I biglietti
29. La (non) sorpresa
30. La proposta
31. Lo scontro
32. La maglietta
33. Il concerto
34. La cena
35. Il film
36. L'onda perfetta
37. Il bacio
38. Il colibrì
39. La clinica
40. L'ostaggio
41. L'avvertimento
42. Il tatuaggio
43. Il regolamento di conti
44. Il consiglio
45. Frammenti di una sera
46. La prima volta
47. Il 𝐺𝑖𝑛 π‘Žπ‘›π‘‘ π»π‘œπ‘
48. La buonanotte
49. Il Principe delle Tenebre
50. Il materasso
52. La gelosia
53. La dedica
54. π˜“'π˜ͺ𝘯π˜ͺ𝘻π˜ͺ𝘰
55. π˜₯𝘦𝘭𝘭𝘒 𝘧π˜ͺ𝘯𝘦
56. La rottura
57. Marzo
58. Aprile
59. π™ΌπšŠπšπšπš’πš˜
60. π™΅πšŠπšπšπš’
61. π™²πš˜πš›πšŠπšπšπš’πš˜
62. Giugno
63. Il matrimonio (1)
64. Il matrimonio (2)
65. La promessa
66. La festa
𝕀𝕝 π•π•šπ•–π•₯𝕠
π•—π•šπ•Ÿπ•–
Come vi ringrazioπŸ©·πŸ¦‹

51. Le tenebre

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By kimadder

I met you in the dark, you lit me up.
You made me feel as though I was enough.

James Arthur, Say you won't let go 🎶

Emma

Le notizie brutte arrivano subito.

Così ripeteva sempre mia nonna a mia madre per rassicurarla e tranquillizzarla le poche volte che avevo il permesso di uscire e, si sa, le nonne hanno sempre ragione.

Infatti, quella sera, la notizia arrivò subito trascinando tutti in un vortice disordinato di attimi che sarebbe stato poi difficile ricomporre.

Era tutto iniziato da una chiamata, a cui ne erano seguite tante altre.

Poi eravamo saliti in macchina, tutti estremamente agitati, e senza rendermene conto mi ero ritrovata nuovamente in ospedale.

Questa volta, però, ero finita con il sedere ben piantato in una delle sedie della sala d'attesa, perché non ero io la paziente, bensì Fiona Raynolds che aveva provato a tagliarsi le vene... di nuovo.

Eravamo rimasti tutta la notte in quella sala d'attesa, seduti in silenzio, ad aspettare che qualcuno vestito del colore che tanto avevo odiato da piccola ci dicesse qualcosa.

Avevano permesso a Penelope di vedere la sua mamma solo dopo ore e ore di agognante attesa, quando l'emergenza era rientrata.

A turno, avevamo provato a chiamare Ollie ininterrottamente ma ogni chiamata che avessimo fatto era stata destinata a diventare senza risposta.

Non aveva risposto a Penelope, a Noah, a Ben, a David. Non aveva risposto a me.

Non ci aveva raggiunto all'ospedale e, quando eravamo tornati a casa alle prime luce dell'alba, non era in casa.

Di Ollie sembrava essersi persa qualsiasi traccia.

Nessuno di noi sapeva dove si trovasse. Nessuno di noi sapeva dove fosse andato dopo che era stato avvisato che sua madre aveva provato di nuovo a raggiungere le tenebre che le facevano la corte da tutta una vita. E mentre io, Penelope e Chase eravamo rimasti a casa ad aspettarlo, Noah e Ben erano andati a cercarlo.

Avevamo atteso invano, sedute sul divano neanche fosse la panchina della fermata di un autobus la cui linea è stata cancellata da tempo.

La preoccupazione mi stava togliendo il respiro e il sonno, visto che si erano fatte le dieci di mattina e non chiudevo occhio da più di ventiquattro ore.

Ancora seduta sul divano, guardai il telefono per l'ennesima volta: c'erano più di trenta chiamate in uscita che riportavano il suo nome e che non avevano ricevuto risposta.

«Stai tranquilla, Emma. Starà bene. Gli devi lasciare il suo spazio». Mi rassicurò Chase prima di alzarsi e portare nella sua stanza Penelope, che finalmente si era addormentata sul divano.

La frustrazione di essere totalmente inutile andava ad aggravare lo stato di ansia e angoscia in cui ero sprofondata.

Mi sarebbe bastato sapere che stesse bene. O forse no...

Girovagai per la casa senza sapere bene cosa fare. Ero stata tantissime volte da sola, immersa in quel silenzio assordante anche se decisamente più colorato. Eppure, quel giorno, non riuscivo a sopportarlo.

Sobbalzai quando il mio telefono squillò e, quando lessi il messaggio, il mio cuore si alleggerì di almeno un grammo.

Noah: Sta bene. Non preoccuparti.

Iniziai a torturami la pellicina del pollice con l'unghia dell'indice. Non avevo alcun diritto di entrare con la mia solita invadenza in questioni familiari così private, ma avevo bisogno di accertarmi con i miei occhi che stesse veramente bene.

Così, senza pensarci troppo, digitai velocemente la risposta.

Emma: dov'è?

Noah: Se te lo dico, cosa farai?

Emma: dimmelo e lo vedrai

Noah: Il mio consiglio? Lascialo stare...

Quella risposta aggravò di brutto quello stato di ansia, angoscia e frustrazione che mi stava trascinando sempre più giù. Forse Noah aveva ragione, eppure, quando mi inviò la posizione di un posto non troppo lontano da casa dove però non ero mai stata, non persi neanche tempo a uscire.

Arrivata davanti la porta di entrata, non ci misi molto a capire che quello fosse esattamente il tipo di locale in cui nessuna ragazza dovrebbe mai capitare. E, quando entrai, ne ebbi la conferma: facce brutte, indispettite, alterate dall'alcool già alle undici di mattina riempivano quasi tutte le sedie a disposizione dei pochi tavoli.

Se mia madre mi avesse visto camminare là dentro, probabilmente mi avrebbe tolto dal mondo proprio come mi ci aveva messo - almeno così mi diceva sempre da bambina. Ma Ollie era lì dentro e io non lo avrei lasciato perdere come mi aveva suggerito Noah.

Feci un bel respiro senza cercare di badare troppo all'odore pungente e nauseabondo che emanava quel posto e iniziai a cercarlo.

Stonavo come una farfalla intrappolata in un barattolo di scarafaggi e, infatti, cominciai ad attirare gli sguardi indiscreti di quasi tutti i presenti.

Ma non mi importava: dovevo trovarlo.

Ero tentata di rischiare la vita e avvicinarmi a qualcuno per chiedere informazioni, quando i miei occhi si posarono su di lui.

Era seduto al bancone con alcuni bicchieri vuoti posizionati davanti le sue braccia incrociate e poggiate sulla superficie di legno.

Affrettai il passo per annullare la distanza tra di noi e, come mi succedeva sempre perché era una risposta fisiologica involontaria e inevitabile, sorrisi quando lo raggiunsi.

«Ollie». Lo chiamai e mi sentii subito meglio.

Il mio richiamo lo fece voltare e, quando iniziò a squadrarmi da capo a piedi, iniziai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava, perché i suoi occhi erano sempre scuri ma quasi assenti.

Ollie si concesse del tempo per scrutarmi, indecifrabile. Poi si alzò e, senza darmi modo di reagire, mi attirò a sé per baciarmi.

La sua lingua premeva violenta contro la mia bocca e la puzza di alcool che emanava il suo alito e perfino il suo respiro era tremendamente fastidiosa.

Riuscii a scansarlo, premendo le mani sul suo petto per allontanarlo.

«Quanto hai bevuto?». Gli chiesi leggermente infastidita.

Ollie tornò seduto prima di sbuffare la risposta. «Tanto». Poi, prese un bicchiere ancora pieno e ne bevve il contenuto tutto d'un sorso.

«Perché sei qua?». Gli domandai mentre lo osservavo chiederne un altro.

«Dove dovrei essere?».

«Ti stiamo cercando tutti».

«Ho preso un giorno di ferie e lo passo come voglio».

«Sono le undici di mattina». Gli feci notare mentre afferrava il bicchiere che gli stava consegnando il barista per scolarsi anche quello.

«Questa è la bettola di merda dove veniva sempre a ubriacarsi il grande Vasyl Macsim. Gli sto rendendo onore». Continuò a parlare senza guardarmi in faccia.

Stavo per pregarlo di andare via e tornare a casa con me, ma quella voce mi bloccò facendo accapponare la mia pelle malridotta.

«Guarda chi si rivede!».

Max prese posto accanto a Ollie, con il suo solito ghigno perverso stampato in faccia.

Lui era veramente l'ultima persona che mi sarei aspettata di trovare là con Ollie, sebbene quel posto sembrasse essere proprio il suo habitat naturale.

L'ultima volta che gli avevo rivolto la parola, gli stavo consegnando ottomila dollari in un borsone rosa - l'unico che avessi a disposizione - ripromettendo a me stessa che né io né Ollie dovessimo avere più a che fare con lui.

E ora eccolo là, seduto con Ollie come un amico di vecchio data. E se di vecchia data lo fosse veramente, amico non lo sarebbe stato mai più.

«Che ci fai qui con lui?». La mia domanda rivolta a Ollie uscì come un rimprovero e mi fece somigliare terribilmente a mia madre.

«È un amico e gli amici bevono insieme». Mi rispose alzando il bicchiere e aspettando che Max facesse altrettanto.

Dopo che i bicchieri tintinnarono al contatto, entrambi buttarono giù tutto d'un fiato.

«Come stai, farfallina?». Mi domandò Max dopo aver poggiato con un tonfo fastidioso il bicchiere vuoto sul tavolo.

Gli risposi continuando a guardare fissa davanti a me. «Parlami un'altra volta e giuro che chiamo la polizia per denunciare che mi hai molestato nel bagno. A chi crederebbero, secondo te? Inoltre». Questa volta mi voltai verso di lui per guardarlo negli occhi. «Devi lasciarlo perdere». Lo avvertii severa.

Facevo fatica a riconoscermi. La voce uscì ricolma d'odio, un sentimento che non condividevo affatto ma che Max si meritava tutto.

«Oh, ma che dolce, Ollie! La tua farfalla è preoccupata per te. Non hai neanche più le palle di difenderti da solo».

Ollie rise, prima di scolarsi un altro bicchiere comparso come per magia sul bancone. Poi, dopo averlo disposto accanto agli altri posizionati come un plotone di bravi soldatini pronti ad andare in battaglia, si alzò per attirarmi nuovamente a sé e cingermi la vita con le braccia.

Questa volta, nonostante cercassi di allontanarlo, la sua lingua riuscì a infrangere la barriera e cominciò a baciarmi in modo irruente.

«Ollie». Sibilai supplicante tra le sue labbra, ma lui non mi prestò attenzione.

Continuava a tenermi stretta, così stretta da non riuscire neanche a respirare.

«Mi stai facendo male». Riuscii a dire, alla fine.

Quelle parole riuscirono a farlo smettere. Ritrasse subito le braccia, prendendo nuovamente posto.

«Sei una cazzo di piattola, Emma. Inutile anche a scopare».

Al suono di quella affermazione, Max scoppiò a ridere ma la sua risata sguaiata, accompagnata da quella di Ollie, arrivò alle mie orecchie come un'eco lontana.

Quelle parole mi avevano colpito come un proiettile in pieno petto.

Arretrai di qualche passo, visibilmente turbata, prima di voltarmi e camminare a passo svelto verso l'uscita.

Una volta fuori, ancora sentivo il suono della risata di Ollie continuare a colpirmi e ingrandire ancora di più lo squarcio che avevo nel petto.

Se avete capito qualcosa di me, saprete che non mi sarei arresa facilmente. Per quanto avessi potuto inciampare, cadere e sbucciarmi, io avrei trovato sempre un valido motivo per rialzarmi.

Ollie era il mio valido motivo, e l'unico per cui rientrai in quel posto.

Si era fatto pomeriggio e il locale si era svuotato.

Il mio sguardo si posò subito nel punto dove, poche ora prima, ero stata colpita in pieno petto. Per fortuna che le ferite della mia anima guarivano più in fretta di quelle del mio corpo. Evidentemente, lei non aveva l'epidermolisi bollosa...

Ollie era ancora là, seduto al bancone con la testa poggiata tra le braccia incrociate. Max, invece, non c'era più.

Lo raggiunsi e non persi neanche tempo a contare tutti i bicchieri vuoti che aveva collezionato: erano troppi.

«Ollie?». Lo chiamai con la voce che tradiva l'agitazione che si stava impossessando di me.

Lo strattonai per il braccio ma non si mosse e, quando emise come unica risposta un mugolio sommesso, il mio cuore riprese a funzionare.

«Quanto cazzo ha bevuto?». Ringhiai al barista che si stava godendo la scena con espressione divertita, meravigliandomi della facilità con cui pronunciai quella parolaccia. Io non le dicevo mai.

«Quanto cazzo ha voluto».

Sbuffai irritata e ripresi a ignorarlo tornando concentrata su Ollie. Gli toccai la faccia scostandogli i capelli dal viso. Era zuppo di sudore e i capelli erano bagnati.

«Okay». Ripetei forse più a me stessa. «Ascoltami bene: dobbiamo andare».

Cercai di tirargli su la testa per liberare il suo braccio così da posizionarlo attorno al mio collo ma anche solo quella parte del corpo pesava tremendamente. Mi domandai come avrei fatto con il resto.

Ma non era quello il momento di iniziare a farmi domande. Dovevo portarlo via da lì.

Riuscii nell'impresa e mi preparai alla fase due: cingerli la vita con il braccio per farlo alzare in piedi.

«Non ce la farai mai, ragazzina». Commentò il barista mentre asciugava con un panno bianco i bicchieri pronti a essere utilizzati per trascinare nel fondo qualcun altro.

«Sta' zitto e dimmi dov'è il bagno».

Il barista incassò il mio tono scontroso e mi indicò con un cenno del viso la porta in fondo al corridoio.

Feci un altro respiro profondo, ricaricandomi della forza necessaria a fare l'ultima manovra.

Non so come, riuscii a far alzare in piedi Ollie che sembrava completamente incosciente.

«Dobbiamo arrivare al bagno, okay? Ma devi sforzati un pochino perché non ce la faccio da sola».

I piedi di Ollie sembrarono ascoltare la mia supplica più di quanto stessero facendo le sue orecchie.

Riuscimmo ad arrivare al bagno ma, una volta dentro, non ebbi più la forza di sorreggerlo.

Così, cademmo entrambi in prossimità del water.

Mi rialzai e, con tutta la forza che avevo in corpo, lo sistemai in modo tale che stesse in ginocchio do fronte alla tazza. Poi, mi posizionai dietro di lui e gli sollevai la testa.

«Ollie, devi vomitare». Lo avvisai ma lui non rispose.

Aveva gli occhi chiusi e a me stava prendendo il panico. Così, feci quello che avevo visto fare una miriade di volte nei film e nelle serie tv. Gli aprii la bocca e gli infilai due dita in gola, mentre con l'altra mano gli sorreggevo la fronte.

Non seppi fino a che punto spingere finché un conato di vomito mi avvertì che stava per rimettere e, quando lo fece, la puzza di vomito si andò a confondere con la puzza di pipì di quel posto.

Quando fece per ritirarsi, lo costrinsi a continuare. «Ollie, ascoltami, devi continuare». Gli sussurrai all'orecchio tenendogli la ben testa ferma.

Ignorai il suo lamento e gli infilai nuovamente due dita in gola.

Non seppi quantificare il tempo passato là dentro ma la puzza di vomito stava facendo venire la nausea anche a me.

Ollie era sporco, puzzava di alcool e vomito e aveva l'aspetto di un avanzo di galera, proprio come si era sempre definito. Eppure, non riuscivo a pensarmi in un altro posto che non fosse accanto a lui.

Quando le sue palpebre finalmente si aprirono e i suoi occhi mi guardarono, capii che stesse un po' meglio.

Mi inginocchiai vicino a lui, tra lo schifo di quel posto, e gli presi il viso tra le mani.

Lui mi guardò assente, ma non era lo sguardo di prima. Era il mio Ollie, anche se stava affogando in un mare di pensieri sbagliati.

«Dobbiamo andare a casa e devi aiutarmi perché da sola non riesco».

«Lasciami qua». Sussurrò con voce roca.

«Io non ti lascio». Dichiarai estremamente convinta di quella verità indiscussa.

Anzi, mi tirai su e lo aiutai ad alzarsi.

Uscimmo da quel locale con gli occhi di tutti puntati addosso e portai a casa Ollie sorreggendolo. Entrambi eravamo sporchi di vomito, pipì e chissà quale altra schifezza.

Fu veramente la passerella del disagio percorrere la strada di ritorno. Specialmente del disagio che provai io a sentire il bisogno di disintegrare chiunque ci avesse guardato con quello sguardo compassionevole quanto soddisfatto di avere la conferma che Ollie Macsim fosse esattamente come il padre: un ubriacone.

Mi venne voglia di insultarli, dir loro brutte cose perché nessuno può accaparrarsi il diritto di giudicare qualcuno senza conoscerlo veramente, e io conoscevo Ollie.

Lui era tutto fuorché quello che stava mostrando in quel momento: un bellissimo ragazzo ridotto in uno stato pietoso.

Quando finalmente entrammo a casa, gioii solo per pochi istanti, perché a separarci dal bagno erano rimaste ancora le scale.

In prossimità del primo scalino, Ollie sembrava essere molto più lucido. Posò una mano sul corrimano e cercò di salire senza pesarmi troppo.

Appena entrati nel bagno, mi liberò completamente dal suo peso poggiandosi al bordo del lavandino.

«Devi farti una doccia». Lo avvisai prima di voltarmi verso la porta.

«Non andartene». Esclamò con voce fioca.

Mi voltai di nuovo verso di lui.

Ollie mi stava fissando con espressione tesa e occhi lucidi. Aveva pronunciato quelle due parole con il tono tipico di una supplica e a me sembrò tremendamente assurdo. Mi stava supplicando di rimanere, come se ne avesse bisogno, come se io potessi veramente lasciarlo là da solo.

«Sto andando a prendere l'asciugamano». L'avvisai abbozzando un sorriso. Ero pur sempre arrabbiata con lui.

Quando feci ritorno, Ollie non si era mosso.

«Devi farti la doccia». Gli ripetei dopo aver sistemato l'asciugamano sul gancio accanto al box doccia e essermi avvicinata a lui.

Feci fatica a sostenere il suo sguardo, soprattutto quando una lacrima iniziò a ballare agli angoli esterni dei suoi occhi.

«Ollie». Lo chiamai mentre avvolgevo una mano intorno al suo polso.

Lui chiuse gli occhi appena terminai di pronunciare il suo nome, vietando a quelle lacrime ogni chance di liberarsi. Non glielo avrebbe mai permesso.

«Ti aiuto io». Proposi cercando di sfoderare un tono che potesse alleggerire il peso di quella proposta.

Ollie rimase immobile, con gli occhi chiusi e le mani ben salde al bordo del lavandino, per tutto il tempo che mi servì a spogliarlo.

Iniziai sfilandogli la maglietta. Gli slacciai la cintura, facendolo sussultare quando le mie dita sfiorarono accidentalmente la pelle del ventre. Poi passai al bottone, tirai giù la zip e abbassai i jeans.

Mi accorsi che i suoi occhi erano di nuovo aperti quando percepii il suo sguardo addosso mentre gli toglievo le scarpe e i calzini. Ma non lo ricambiai, sebbene avessi voluto, perché non sarei riuscita a sopportare neanche la possibilità di vederlo piangere, non mentre lo spogliavo come un bambino piccolo, non mentre lo mettevo ancora più a nudo di quanto già fosse.

Non oppose alcuna resistenza neanche quando gli tolsi i boxer, facendolo rimanere definitivamente nudo di fronte a me e rendendomi conto che la nudità che avevo di fronte non fosse solamente fisica.

Ollie sembrava così fragile in quel momento. Eppure, ero io quella fragile come le ali di una farfalla.

«È arrivato il momento della doccia». Gli comunicai tornando a guardarlo negli occhi.

Ollie annuì, lasciandosi aiutare a raggiungerla.

Dopo aver aperto l'acqua, mi scostai per lasciarlo passare ma lui mi bloccò afferrandomi la mano.

«Vieni anche tu. Per favore».

Mi stava supplicando. Ancora.

Acconsentii alla sua richiesta e mi sfilai il vestito lasciandolo cadere ai miei piedi.

Ollie non smise di guardarmi finché, tolti anche gli slip, entrai nella doccia insieme a lui.

Ci ritrovammo così entrambi in piedi sotto il getto d'acqua tiepida - visto che io troppo calda non potevo farla - che sembrava riuscire a lavare via anche la vergogna di quanto appena accaduto.

Ollie era fermo, immobile, con l'acqua che scorreva lungo tutto il suo corpo. Sembrava non ricordasse cosa dovesse fare, o non ne avesse la forza. Così, feci io per lui: presi il sapone e iniziai a insaponarlo, e lui mi lasciò fare.

Le mia mani lo lavarono ovunque mentre lui neanche per una volta sostenne il mio sguardo.

Stavo imparando a conoscere il suo corpo, ma quel giorno mi sembrò diverso. Crepato, come gli oggetti che quotidianamente arrivavano al negozio e di cui la gente voleva sbarazzarsi.

Più volte ebbi la sensazione di star a fare qualcosa di sbagliato perché Ollie si stava vergognando e io non avevo nessun diritto di farlo sentire così.

Non riuscii più a sostenere tutto quello quando, insaponandogli la coscia tatuata, lo feci sussultare.

Così mi tirai su e gli presi la mano costringendolo a guardarmi. «Ollie, guardami».

E lui lo fece. Aprì gli occhi permettendo finalmente a quelle lacrime tenute troppo tempo in ostaggio di uscire.

Ollie stava piangendo, ma io non glielo avrei mai ricordato. Gli avrei sempre risposto, se mai me lo avesse chiesto, che quelle lacrime non erano le sue, bensì quelle del getto d'acqua della doccia sotto cui aveva deciso di torturarsi.

«Ollie, va tutto bene. Non esiste niente che non possa essere lavato via». Gli dissi con tutta la convinzione di cui ero capace e che sentivo.

Il sorriso che percepii curvare le mie labbra fu presto racchiuso dalle sue mani che, liberatesi dalle mie, si erano sollevate per posizionarsi sulle mie guance.

«Dovresti andare via da me». Affermò serio mentre avvicinava il suo viso al mio. «Non ti merito, Emma. E non capisco come tu faccia a stare ancora qua dopo tutto quello che hai visto oggi».

Decisi di rispondergli nel solo modo di cui disponevo: con un bacio.

Mi alzai in punta di piedi alla ricerca delle sue labbra, cercando di convogliare in quel gesto tutto l'amore che sentivo quando gli ero vicino.

«Dovresti andare via da me». Ripetè con le labbra schiuse sulle mie. «Ma sinceramente spero che non lo farai mai». Affermò prima di abbracciarmi e baciarmi in modo più deciso.

Era tornato l'Ollie di sempre, il mio Ollie. Quello che mi baciava in modo estremamente dolce eppure in grado di farmi divampare un incendio in mezzo alle gambe e al centro del petto anche sotto un getto d'acqua.

Mi spinse delicatamente verso il muro e poi mi fece voltare. Sentii la fastidiosa sensazione della superficie fredda delle piastrelle a contatto con il seno e la pancia fino a che la mano di Ollie che stava risalendo lunga mia coscia, unita al suo respiro nel mio orecchio, ottenne il monopolio delle sensazioni da cui venni travolta.

Quando la sua mano fermò in mezzo alle mie gambe mentre le dita dell'altra si avvolsero attorno al mio collo smisi di sentire qualsiasi cosa non fosse lui su di me. Iniziai a boccheggiare a corto di fiato. L'eccitazione mi stava facendo impazzire, soprattutto perché il suo corpo premeva contro il mio quasi volesse annullare una distanza che non era più neanche fisica.

Girai di poco il viso di lato e subito trovai la sua bocca pronta a baciarmi.

«Non ce la faccio a resisterti, Emma, non più. Posso?». Mi domandò tra un bacio e l'altro.

Avrei voluto fargli notare quanto fosse ridicola quella domanda. Non aveva bisogno di chiedere il permesso: aveva accesso completo al mio corpo e alla mia anima. Ma non lo feci. Non a parole, almeno.

Quando capì che sì, poteva fare tutto quello che voleva con me e su di me, non perse tempo.

Totalmente assorbita dal movimento del suo bacino le cui spinte lo facevano affondare sempre più dentro di me, non riuscii a prestare attenzione alle parole che mi sussurrò all'orecchio.

Forse fu scusa o grazie, o forse entrambe. Non l'avrei mai scoperto perché i lamenti di piacere che mi stavano provocando le conseguenze del suo corpo dentro il mio riuscirono a sovrastare qualsiasi altro rumore.

Quelle di Ollie furono delle spinte lente, decise, sofferenti, quasi stanche, che però mi portarono a percepire quelle ormai familiari vibrazioni che si impossessavano del mio corpo sottraendomene ogni controllo.

Venni mentre Ollie mi teneva ancora stretta al suo corpo, senza rendermi conto che anche lui fosse venuto.

Quando il mio respiro tornò regolare, lui era già fuori.

Mi voltai poggiando questa volta la schiena al muro.

Ci guardammo mentre l'acqua continuava a scorrere. Ollie aveva un'espressione stanca, quasi non ce la facesse più a stare in piedi e sorreggere il peso del mondo che quel giorno forse gli era caduto un'altra volta addosso, o almeno ci aveva provato.

«Non devi più ridurti cosi. Men che meno con quella brutta persona di Max».

Lui annuì e io lo abbracciai, forte, permettendoli di rilassarsi.

Quella sera, Ollie si lasciò asciugare i capelli, aiutare a vestirsi e addirittura si lasciò rimboccare le coperte.

La sua testa non fece in tempo a toccare il cuscino che i suoi occhi erano già chiusi.

Lo guardai dormire per un po'. Sembrava così sereno, quasi avesse messo in stand by tutto il logoro che lo aveva portato a rinchiudersi dentro quel locale per cercare di dimenticare nel solo modo che credesse giusto.

Quando mi convinsi che fosse veramente tutto a posto, tornai in bagno.

Mi asciugai i capelli guardandomi allo specchio con sguardo vacuo.

Il mio corpo portava i segni degli sforzi che avevo fatto per permettere a Ollie di non essere lasciato a marcire come il degno figlio di Vasyl Macsim che credeva di essere, ma non m'importava.

Anche se a modo suo, il mio corpo sarebbe guarito e quei segni si sarebbero semplicemente sommati ai tanti altri che portavo e poi sarebbero rimasti lì per sempre, a ricordarmi che tutti hanno delle cicatrici, solo che non sempre visibili come le mie.

Anche Ollie le aveva. Proprio come me si era rotto, probabilmente diverse volte, fino a credere di diventare qualcuno da cui tenersi a debita distanza.

Effettivamente, mi avevano detto tutti di stare lontano da lui.

La mia famiglia.

La mia migliore amica.

I suoi amici e persino Ollie stesso.

Ma io non volevo. Perché lui non era un cattivo ragazzo e io non avevo la sindrome della crocerossina.

La grande verità è che non ci serve qualcuno per essere riparati. Al limite, ci serve qualcuno che ci mostri che ci siamo riusciti da soli anche quando pensiamo di essere ancora rotti.

E io sarei rimasta al suo fianco a mostrarglielo fin quando se ne sarebbe reso conto.

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