La Nuova Generazione // I più...

By Philo_Sophia08

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Crossover Percy Jackson/ La Ragazza Drago/ Il Mondo Emerso ATTENZIONE: CI SARANNO SPOILER SU TUTTE E TRE LE S... More

La Nuova Generazione: Descrizione
Parte 1. Lo Scorso Portale
Strani Istinti Di Battaglia ~ Percy
Una Nuova Spada ~ Sofia
Se Scappare Non Serve ~ Asley
NON È UN CAPITOLO
Occhi Verdi, Capelli Rossi ~ Fabio
Fulmini A Ciel Sereno ~ Annabeth
Il Vecchio Del Monte ~ Gym
Chi Qui Si È Allenato ~ Percy
Parte 2. La Nuova Notte
Guidare ~ prof Schlafen
Tsunami ~ Piper
Tempo Di Luce ~ Nico
Lo Scambio Di Anime ~ Leo
L'Erede ~ Fabio
L'Erede, Parte 2 ~ Fabio
A Un Passo Dalla Fine ~ Frazel
Corpo Di Bronzo, Mente Di Vetro ~ Percy
Marea Nera ~ Will

La Figlia Di Atena ~ Karl

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By Philo_Sophia08

- Percy! Percy! Non osare attaccare senza dirmi… -

E Percy attaccò.

Attesi di sentire la sfuriata, che però non arrivò. Annabeth si limitò ad appoggiarsi al tavolo e sospirare, il telefono così stretto tra le dita che pensai le sarebbe esploso in mano.

Meglio quello che noi, pensai. Tanto lo sapevo che mi sarebbe saltata al collo entro qualche secondo. Giusto il tempo per metabolizzare e mettere in archivio la chiamata, e per ricordare il discorso precedente.

Jason, dietro di me, dovette pensarla allo stesso modo. Fece qualche passo indietro, in allerta.
- Tranquillo – tentò di rassicurarlo la figlia di Ewan… o Tristan, o come lo si volesse chiamare. – Le hai appena salvato la vita, dubito che vorrà strangolare te. Non ora, almeno. –

Vidi Annabeth stringere i denti, gli occhi chiusi. Quando si voltò a guardarmi, desiderai che un Thuban di passaggio mi seppellisse sottoterra per qualche migliaio di anni.

- Già, Jason, tranquillo. Al momento, non sei tu quello che sta rischiando un arto. – la sua voce era più gelida del ghiaccio che domavo da ragazzo. Molto più gelida. Eppure, i suoi occhi bruciavano come il sole.

Deglutii, e così fece Ewan, accanto a me. Eravamo seduti sul divano al centro della stanza, mentre i ragazzi erano appoggiati ai mobili intorno. L’impressione era quella di essere sotto interrogatorio, mancava solo la luce puntata in faccia, e magari una pistola. E il solo pensiero che Annabeth potesse essere in possesso di una pistola in un momento come quello mi fece gelare il sangue.

Poi la guardai di nuovo, e mi resi conto che forse non ne aveva davvero bisogno.

Non mi era capitato spesso di vedere mia figlia infuriata. C’era poco da fare, non potevo non ammettere che in realtà la conoscevo poco, davvero poco. Certo, negli ultimi anni era stata con noi, ma tra la scuola e le occhiatacce della matrigna, non è che l’avessi vista molto. Convivevamo, ma per quanto il nostro rapporto fosse migliorato negli ultimi anni, non si poteva certo parlare di noi come di una famiglia.

Ero ben cosciente del fatto che fosse tutta colpa mia. Sono un padre schifoso. E lo sapevo, l’ho sempre saputo nel corso di tutti quegli anni. E non ho fatto nulla. Perché? Facile rispondere. Fin troppo facile. Orribile, ma facile.

E con quella la storia del ritorno dei Draconiani, il ricordo non faceva che ripresentarmisi alla mente, come un fantasma impossibile da frenare.

La mia aveva fatto una brusca virata proprio mentre tentavo di non esplodere.

- Ancora nulla? – le chiesi.
- Ancora nulla – rispose.

Mise giù il telefono e mi guardò. Non sopportavo di vederla così sconsolata, ma cosa potevo farci? Erano mesi che cercavamo, senza successo. E quello era stato l’ennesimo buco nell’acqua.

Eravamo venuti in America per questo, ma ogni tanto mi chiedevo se non fosse stata una stupidaggine. Le probabilità di rintracciare quell’uomo erano pari a zero.

Lei si sedette sul divano, le mani sulle ginocchia, pensierosa. Ma non c’era molto da pensare, avevamo finito la lista di nomi possibili: quel poco che le era stato detto di suo padre non ci era servito a nulla. E di certo non potevamo contattare ogni uomo di mezza età degli Stati Uniti per chiedergli se, nella vita, gli fosse per caso mai capitato di abbandonare dei figli.

- Non è possibile, però! – scoppiò alla fine. – Sappiamo il nome, sappiamo che vive negli USA, sappiamo dell’officina del padre. Sappiamo come è fatto, cosa gli piace. Eppure pare essersi volatilizzato nel nulla! –

Strinse i pugni sulle ginocchia, e la frustrazione aleggiava attorno alla sua figura, più densa dell’afa di quella notte estiva. Mi sarei quasi aspettato di vederle comparire una piccola nuvola scura in testa.

Eppure, lo sapevamo. Sapevamo che sarebbe stato difficile. Sapevamo…

- Sapevamo che avrebbe fatto di tutto per non farsi trovare – tentai. – Per quanto ne sappiamo, potrebbe aver cambiato tutto di se, dal nome all’aspetto: sono passati più di vent’anni da quando tua madre l’ha visto l’ultima volta, Dio solo sa cosa può essere successo in tutto questo tempo. Ma questo non significa che ci arrenderemo. Non l’abbiamo mai fatto, o sbaglio? –

Mi guardò, e io le presi una mano. Rimanemmo per qualche istante così, ad osservarci, a parlarci con lo sguardo, senza dire nulla. Non serviva.

Alla fine, lei sorrise. – Grazie, Karl. Mi… mi dispiace per tutto quello che ti sto facendo passare. – Il suo sorriso divenne triste, amaro. – Avvolte, mi chiedo se non sia solo uno stupido desiderio infantile. –

- La voglia di conoscere il proprio padre? Tanto stupida non mi sembra, come cosa. E poi, sei la persona migliore che esista su questa terra. Se tuo padre ha almeno in una piccola parte i tuoi stessi geni, vale la pena conoscerlo. –
- Non ci sai proprio fare con le cose sdolcinate, eh? – scossa la testa, il bel sorriso sempre stampato sul volto. – Ti amo, Karl. -

E poi mi baciò, non dandomi il tempo di rispondere. Ma, in effetti, non era necessario. Con quel bacio ci stavamo già dicendo tutto, tutto il possibile. Stavo con lei da tanto, ormai, eppure, un semplice bacio riusciva ancora a farmi volare, quasi sorprendendomi ogni volta.

Senza allontanare troppo il volto dal suo, presi a sussurrare piano. – Amore, che ne dici se per stasera abbandoniamo le ricerche, e passiamo il tempo in modo un po’ più divertente…? –

Lei mi guardò, malevola. – Oh, ci sto! –

Ci fu un ultimo bacio, e poi ci avviammo verso la nostra stanza. Era un po’ che non succedeva, e mi mancavano quei momenti con la mia ragazza come nient’altro. I momenti in cui essere noi stessi, i momenti in cui stringere il nostro legame, ogni volta un po’ di più.
E finalmente, dopo tanto tempo, ci sedemmo alla scrivania e cominciammo a lavorare su quel nuovo tostapane a idrogeno.

Sì, d’accordo. Forse l’avevo un po’ contagiata con questa storia delle invenzioni assurde. Ma solo un po’. Poi si era autoalimentata da sola.

Chi l’avrebbe mai detto che la mia dolce, simpatica, gentile, timida metà avrebbe potuto sviluppare un attaccamento così forte per la costruzione di macchine sempre più bizzarre. Eppure, ormai quasi mi batteva. Quasi. E quando glielo ricordavo, spesso finivamo a scherzare e giocare con davanti cavi elettrici e vari componenti elettronici potenzialmente esplosivi. Il che, in effetti, avrebbe potuto proprio non essere la più brillante delle idee…

Quella sera eravamo alla terza esplosione evitata per un soffio, quando suonarono il campanello.

Ci guardammo. Lei alzò un sopracciglio. Chi mai poteva essere, all’una di notte?

Mi pulii un po’ di grasso dalla manica e mi avviai verso il salotto.

Mi fermai davanti alla porta. Non si sentiva nulla, non un rumore, non un segno d’impazienza. Guardai dallo spioncino: nessuno.

- Chi è? – ero così teso che, quando lei mi arrivò alle spalle, feci un balzo e lanciai un gridolino ben poco virile. Qualunque cosa ci fosse fuori, non reagì.

Misi una mano sul pomello della porta, sudando freddo. Ormai tanto sapevano che eravamo in casa. Se erano ladri… be’, non sapevano con chi avevano a che fare. Avevo combattuto contro mostri disumani fino a poco tempo prima. Cos’erano sette anni di inattività, dopotutto?
Ah, ma chi volevo prendere in giro! Non avrei saputo nemmeno tirare un pugno a un cuscino senza rompermi la mano!

Lì affianco, però, c’era lei. In un momento di ridicolo eroismo, pensai che avrei dovuto proteggerla, che avrei dovuto proteggere noi. Non sapevo che, di lì a breve, non sarebbe stato più necessario. Non avrei più potuto fare quei pensieri.

L’oscurità entrò in casa come un cattivo presagio. La notte incombeva, uno strappo a forma di luna si faceva largo tra la foschia senza stelle. Dall’altra parte della strada vuota, gli alberi cantavano piano, assieme allo sciabordio del fiume. Dopo il ponte, era visibile il Monte Tamalpais, con quella strana tempesta perenne che sembrava voler collassare sulla terra.

Di persone, nessuna traccia.

- Chi c’è? – chiesi con un tono carico di angoscia che fingeva sicurezza. Ovviamente, nessuna risposta, se non per una civetta che gracchiava in lontananza.

- Chi ha suonato? – ripetei, e feci un passo avanti. Ma il mio piede incontrò un ostacolo. Un piccolo, minuscolo ostacolo.

Quando abbassai la testa, fui sicuro di sentire il cuore schizzare in gola dalla sorpresa.

Lì, già immersa nella luce di casa mia che si stava perdendo nella notte, c’era una bambina.

Non so come, ma capii subito che era una femmina. Nonostante non fosse più grande di qualche giorno, due grandi occhi grigi stampati sul visino altrimenti dolce guizzavano sul mio volto con fare indagatorio. Sembrava già pronta a prendermi a sberle, se fosse stato necessario.

Eppure, c’era qualcosa di magnetico in quegli occhi. Qualcosa di speciale.

La osservai un altro istante: appariva perfettamente in salute. Nonostante il caldo, le avevano avvolto una copertina attorno al corpicino paffuto. Una bella bambina, già sveglia, così dolce. E abbandonata davanti alla porta di casa nostra come un cane randagio.

Prima che potessi fare qualcosa, qualsiasi cosa, una figura si precipitò al mio fianco e allungò le mani verso la piccola.

- Mostri! – mormorò la mia compagna con voce strozzata, per poi rientrare difilato in casa.
Ancora sotto shock, la seguii e mi chiusi la porta alle spalle.

- Ma chi può mai fare una cosa del genere?! Chi?! – continuava a mormorare lei, il volto tra il compassionevole e la furia totale. Teneva la bimba in braccio come se fosse sua… non avrei saputo spiegarmi il perché, ma una fitta di gelosia mi fece stringere le labbra. Mentre lei cullava la piccola, il mio cervello cominciò a collegare.

E poi lo vidi. Arrotolato nella copertina, un piccolo pezzetto di carta. Una lettera.

Una lettera da nessuno, mi venne istintivo pensare, ricordando la scena iniziale dei film di Harry Potter. Pregai che non si trattasse davvero di ciò che pensavo, perché altrimenti le cose sarebbero state davvero troppo simili alla storia del maghetto… compreso il fatto che non avevo nessuna voglia di rimanere impelagato di nuovo con la magia, e che volevo una vita il più possibile normale.

E invece.

“Egregio Frederick,
o Karl, come mi hai detto che spesso ti chiamano i tuoi amici. Il pomeriggio passato con te è stato intrigante, uno dei più affascinanti della mia vita. Ammiro davvero la tua passione per le arti utili. Ed è così di mio gradimento anche la tua propensione per la storia, una disciplina apprezzabile solo da chi non ha paura di imparare dai propri errori.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa dal tempo che abbiamo trascorso insieme, io abbassandomi addirittura a fare l’alunna per comprendere di che pasta tu fossi fatto. E sei, in effetti, un bravo insegnante, e un uomo saggio. Sono certa che saprai prenderti egregiamente cura della nostra bambina, una sorpresa non da poco degli ultimi giorni e di cui io, per motivi di cui ti ho già parlato, non posso occuparmi. Ho impegni di primaria importanza, e di certo non posso accudire una neonata. Perciò fa’ del tuo meglio.

Mi spiace, ma non ritengo opportuna un nostro ulteriore incontro. Cordiali saluti.”

Finii di leggere la lettera, la voce che si era alzata di qualche tono per lo sconcerto. Poi guardai lei, più confuso che mai.

E lo schiaffo arrivò, atteso.

Barcollai all’indietro reggendomi la guancia con una mano. Non avevo il coraggio di alzare lo sguardo, anche se non capivo perché. Dopotutto, non avevo un vero motivo per cui sentirmi in colpa.

- Cara i… io… - cercai di guardala in volto per comunicarle la mia confusione, ma mi trovai davanti solo una maschera di rabbia distruttiva che mi fece venire i brividi da capo a piedi.

- Non. Chiamarmi. Cara - ingiunse lei. – Piuttosto, sono curiosa di sentire le tue scuse. -

- Ma quali… io non… - boccheggiai. Intanto, cominciavo a ricollegare.

Qualche mese prima, una strana studentessa era venuta a chiedermi ripetizioni. Era curiosa e aperta, e nonostante fossi un professore di storia alle prime armi sembrava essere molto interessata a ciò che le spiegavo. Avevamo avuto un dibattito su alcune questioni, ci eravamo scambiati opinioni; non mi era sembrato che quella ragazza avesse problemi con la memoria, anzi, pareva saperne quasi più di me. Ad un certo punto, si era messa a parlare della guerra del Peloponneso come se lei fosse stata lì, ad osservare gli ateniesi rinchiusi tra le mura della loro stessa città, con la peste che li decimava più di ogni battaglia.

Era stato davvero interessante discutere con lei. Un paio d’ore dopo, la stavo accompagnando alla porta, quando si era voltata verso di me. Mi aveva piantato addosso i suoi occhi, di un grigio tanto profondo da essere inquietante, seria come sempre.

“Temo di doverle rivelare la verità, professore. Io non sono una semplice alunna, ma un’entità molto diversa da qualsiasi essere umano.” Aveva fatto una pausa ad effetto, come per lasciare che quell’informazione acquistasse un minimo di senso nel mio cervello. Fu inutile. “La verità è che io sono una dea, la dea greca Atena. Vivo da più di tremila anni, e so riconoscere una mente brillante quando la vedo. Penso che il frutto dei nostri ragionamenti potrebbe essere l’eroe di cui ho bisogno per sanare la disputa e riparare l’antico torto.”

Non aveva aggiunto altro. Mi aveva fissato ancora, poi aveva preso la porta e se n’era andata senza una parola.
Io ero rimasto un attimo pietrificato, battendo gli occhi per capire se si trattasse di un sogno. “Questa è tutta scema”, mi ero detto infine. Mi ero voltato e non ci avevo più ripensato.

E ora, avevo davanti una bambina. Sua, non c‘erano dubbi: uguali gli occhi, uguale l’espressione nel volto, uguale l’inquietudine che mi trasmetteva.

Ma c’era anche altro. C’erano le fattezze del viso. C’erano i capelli biondi. C’era quel biglietto. E c’era il mio istinto, un istinto che pensavo non avrei provato ancora per molto tempo.

Tutti quei dettagli mi urlavano che quella doveva essere mia figlia.

Ma, cavoli. Ero... vergine.

La mia compagna non mi diede il tempo di provare a riflettere. Il mio cervello era ancora in tilt quando posò la bambina sul divano e mi trascinò fuori dal salotto. Non ricordo nemmeno se mi portò in cucina, o in qualche altra stanza.

Ricordo solo che, dopo forse nemmeno dieci minuti, lei era davanti alla porta d’ingresso, un piccolo zaino in spalla con un po’ di soldi e poche altre cose. Non sarebbe più tornata a riprendersi il resto.

L’uscio era già aperto, e il buio entrava come una condanna. Ero sicuro di poter vedere le grida di lei che ancora rimbalzavano fra le cime degli alberi, rispedendo nell’abisso le poche stelle che erano riuscite a emergere dal buio.

Avrei voluto parlare, dire qualsiasi cosa. La verità, quella sì, sarebbe stata perfetta. Incredibile, ma almeno _reale_. Lei avrebbe capito che non mentivo. E avremmo cercato una soluzione, insieme, come avevamo sempre fatto fino a quel momento.

E invece, mi persi ad osservare una lacrima che le scorreva sulla guancia. L’ultima, probabilmente aveva finito le scorte. Guardai mentre quella goccia d’acqua solcava il viso del mio unico amore, il cervello ancora completamente in tilt, incapace di comandare al resto del corpo un’azione sensata in un contesto così assurdo.

Persi una frazione di secondo di troppo. In un istante, Chloe McAlister era scivolata via come una lacrima sulla superficie della notte.

Sapevo che non era giusto, dare la colpa ad Annabeth. Una bambina appena nata, di certo, non ha colpe; i suoi genitori posso averne, però.

Per un po’, avevo davvero pensato di abbandonarla. Lasciarla ad un qualche istituto, che se ne occupassero loro. Non sapevo gestire una bimba, non ero pronto, e sapevo che l’avrei ricollegata a ciò che era successo quella sera ancora per molto tempo.

Eppure, non ci riuscivo. Perché quella bambina, nonostante tutto, era mia figlia.

E così avevo cominciato a trascinarmi avanti, tra i sensi di colpa e la rabbia. La soluzione? Affogare nel lavoro, ovvio. Prima nella ricerca di Chloe, poi nelle migliaia di pagine di articoli sulla dea Atena. Chissà, magari mi avrebbe aiutato a scoprire qualcosa su quella donna che si era spacciata per lei.

Ma nessuna delle ricerche portò a nulla. E allora passai a immergermi sempre di più nella carriera, mentre Annabeth veniva affidata a qualche occasionale baby sitter. Puntualmente, però, le tate si mettevano paura per una qualche nuova ingegnosa uscita della piccola: la prima parola a tre mesi, a sette mesi sapeva fare un discorso completo. Ne aveva due e mezzo quando trovai una delle ultime baby sitter in piedi davanti alla porta, gli occhi sgranati, in mano uno scarabocchio. Me l’aveva messo sotto il naso, e solo allora avevo notato che non era affatto uno scarabocchio, ma una casa disegnata con mano incerta; solo che il disegno era in tre dimensioni, perfettamente proporzionato e realistico. Dal divano del salotto, Annabeth mi guardava incuriosita, la matita ancora in mano. La povera donna era scappata urlando “È posseduta! È posseduta!”

Poi, era arrivata lei. All’inizio, era stata solo una piccola lezione su come cambiare il pannolino ad una bambina senza sporcarsi. Poi, un mio invito a trattenersi sempre di più anche dopo il mio rientro, una volta per un caffè, una volta per la cena. Poi il racconto di una vita, un marito morto, due figli nati da poco e il lavoro di tata come unico modo per tirarli su. E infine un bacio lieve, scambiato mentre prendevo la mia bambina dalle sue braccia.

Dopo undici mesi, il matrimonio. Annabeth aveva quattro anni.

In realtà, però, l’amore non durò poi così a lungo. Lei stava con i bambini, io lavoravo tutto il giorno e tutti i giorni, e non ci vedevamo quasi mai.

Era stata lei la prima testimone delle stranezze.

Una notte, davanti alla porta dove Annabeth era stata lasciata quattro anni e mezzo prima, si era presentato un uomo. Alto, enorme, armato di mazza. Chiedeva se per caso in quell’abitazione ci fosse una piccola figlia della saggezza.

Mia figlia era corsa in camera sua, attenta a non farsi vedere. Ma gli altri bambini erano incuriositi, e uno di loro, il più piccolo, si era avvicinato all’essere. – Mamma, ma perché hai un occhio solo? – aveva domandato, innocente.

La madre aveva aggrottato le sopracciglia, poi si era girata di nuovo verso l’uomo. E l’aveva visto. Un unico, grande occhio in mezzo alla fronte. Aveva urlato, e gli aveva chiuso la porta sul naso, così forte da fargli esclamare un “Ahia!” nonostante la mole.

Dopo qualche secondo, l’essere si era stufato di aspettare che mia moglie aprisse di nuovo la porta e, miracolosamente, se n’era andato.

La sera, lei mi aveva preso da parte e raccontato tutto.
Per un attimo, non avevo detto nulla. Perché io sapevo qualcosa su Annabeth che non le avevo mai detto, perché non ne avevo avuto la conferma, o almeno non fino ad ora. Ma un ciclope si era presentato davanti alla nostra porta. Non è che ci fossero più molti dubbi.

La parola “semidea” mi era uscita di bocca prima che potessi fermarla. Avevo raccontato tutto, tutto ciò che sapevo, compreso ciò che avevo letto su alcuni articoli sui miti greci, anni prima: alcuni consideravano l’ipotesi che i mostri mitologici fossero in qualche modo attratti dalla presenza dei semidei, perché erano quanto di più vicino agli Dei – esseri con una fortissima aura di potere - che si potesse uccidere, e quindi dei buoni obbiettivi per i banchetti dei demoni.

Mia moglie non ci credette. O almeno, tentò di non crederci. Ma, a quanto pareva, più Annabeth cresceva più mostri riuscivano a trovarla. E così anche la sua matrigna aveva cominciato a non darle più retta, a cercare di allontanarla dai suoi altri figli perché non rischiassero nulla. Ma io non me ne accorgevo, impantanato nello studio e nel lavoro com’ero.

Quando mi ero reso conto di cosa stesse accadendo, era già troppo tardi. Annabeth non si trovava da nessuna parte.

A sette anni, piccola e sola, perseguitata da mostri e demoni, mia figlia era scappata di casa.

L’avevo rivista qualche anno dopo, pronta per riprovarci. Di lacrime ce n’erano state, e tante, di paura e sollievo.
Ma Annabeth era cresciuta. Io non la conoscevo più, avevo perso anche quel poco che sapevo di lei prima che scappasse. Ad un’età da scuola elementare era già adulta, praticamente autonoma. Mia moglie non aveva voluto saperne niente; io, incastrato nella mia carriera come in un blocco di cemento solidificato dal dolore, non ero riuscito a capire quanto le servisse finalmente un genitore che potesse essere definito tale.

Nemmeno una settimana dopo, se n’era andata di nuovo, senza dirci nulla. Ma questa volta si era portata via una cosa.

Il mio anello. L’anello di Effie. L’ultima cosa che mi restava della mia unica, vera madre. Non c’era più.

E io sapevo di meritarmelo. Un padre che, per ben due volte, porta sua figlia a scappare, non merita nemmeno il ricordo dell’affetto di una madre come Effie.

Le lacrime erano tornate, amare. Avevo cercato di ricontattarla, di ricontattare in tutti i modi il “campo per semidei” di cui mi aveva parlato. Ma non c’era nulla da fare, non voleva parlarmi, non voleva vedermi.

Mi ero rassegnato ad aver perso per sempre mia figlia, quando anni dopo avevo risentito la sua voce alla cornetta del telefono. Ormai doveva avere quasi tredici anni, e io non c’ero stato, per niente. Niente di niente.

Mi ero ripromesso di rimediare, ma ormai non è che potessi fare più di tanto. Mi ero limitato a benedire chiunque l’avesse spinta a ricontattarmi, e a cercare di comportarmi come un padre decente, per una volta. Ma non ci ero mai riuscito, nemmeno con i figli di mia moglie, che pure mi erano estranei.

E così, eravamo arrivati a quel punto. Dopo anni in cui avevamo provato ad avvicinarci, ad instaurare un rapporto che superasse almeno l’odio, Annabeth mi guardava di nuovo come se fossi un estraneo.

- Allora? – incalzò. Posò il telefono sul tavolo e si predispose all’ascolto – o ad un’eventuale necessità di farmi a pezzi, nel caso in cui avessi esitato ancora.

E così presi a parlare. Prima che Percy chiamasse, avevo già accennato a qualcosa, e sulla mia vita prima dell’incontro con i Draconiani non era rimasto molto da dire. E questo era un problema, perché non avevo alcuna voglia di raccontare come ci eravamo conosciuti – cioè, con la mia morte. Eppure, proprio quando stavo per arrivare a quel punto, Annabeth mi bloccò.

- Questo lo sappiamo già – si limitò a commentare, fredda. – Conosciamo tutta la storia fino alla morta del prof. –
La guardai, allibito. Mi girai verso i suoi amici, che però annuirono, continuando a fissarmi. Ewan, quasi sdraiato sul divano per fingere una sicurezza che non aveva, sembrava confuso quanto me.

- Cosa…? – prima che riuscissi a formulare l’intera domanda, la figlia di Ewan decise di intervenire. – Siamo stati contattati in sogno dal prof. O meglio, dalla parte del suo spirito che vive ancora a Draconia. Ci ha raccontato tutto –

- Vo… voi… _cosa_? – mormorai.

- Già, papà. Non abbiamo pace nemmeno dopo essere svenuti. Per noi questo tipo di sogni sono normali. – il tono di Annabeth era neutro, ma mi inflisse comunque una stilettata di rimorso. Se davvero mia figlia, e in generale i semidei, avevano tutti questi problemi coi sogni, lei non me ne aveva mai parlato. Avvolte si svegliava urlando, la notte; però quell’unica volta in cui avevo provato ad avvicinarmi mi aveva quasi spaccato la testa col libro di matematica. Qualche ora dopo, mentre il medico finiva di mettermi i punti, avevo giurato di non chiederle mai più dei suoi incubi. Chissà, forse se ci avessi provato in un momento più tranquillo…

- PAPÀ - sobbalzai a quell’urlo. D’accordo, messaggio ricevuto, non era il momento di distrarsi.

Annabeth sospirò. Pregai me stesso di non farle perdere la pazienza, evento apparentemente molto, molto vicino.

- Perciò, - intervenne Ewan, interrompendo le sue prossime frecciatine. – lo spirto del prof vi ha contattati? Lui… lui è… -

- Vivo, sì – confermò il ragazzo biondo, Jason. Poi sembrò pensarci su. – Be’, non proprio vivo… però ancora cosciente, quanto meno. –

Fu Jason a raccontare, anche se era stato l’ultimo a conoscere il prof. Si erano consultati con Piper mentre Annabeth cercava di contattare Percy, e il biondo riuscì più o meno a ricollegare tutti i pezzi e raccontarci la storia per intero.

Era stata tutta colpa di Ewan. A quanto sembra, aveva raccontato a Piper di Lidja… solo che poi era uscita fuori la sua parentela abbastanza stretta con Jason. E alla poveretta era preso un colpo. Non è una cosa da tutti i giorni scoprire che la madre del tuo ragazzo avrebbe potuto essere la tua matrigna. E non solo, Ewan era anche convinto che Lidja fosse stata la madre naturale di Piper, e che da lì venisse il suo potere di convincere gli altri a fare ciò che desiderava. Solo che, in effetti, a me non sembrava che i poteri di Lidja fossero così forti da fare ciò che quella ragazza aveva fatto, nemmeno se mescolati con quelli di Ewan.

Quando Piper aveva urlato, non avevamo sentito solo la sua voce. Una scarica elettrica, per fortuna leggera, si era propagata assieme alle onde sonore, viaggiando con esse attraverso i muri della stanza – cosa teoricamente impossibile, anche se ormai non mi stupivo più di nulla – e penetrandomi direttamente nelle orecchie, insieme al suono. L’unico motivo per cui non ero rimasto ucciso era stato Jason che, abbastanza rapido ad accorgersi dell’elettricità in eccesso, aveva fatto da parafulmini. Tuttavia, quel minimo di onde elettriche che mi erano entrate nella testa insieme al suono erano state sufficienti a mandarmi al tappeto.

Intanto, Piper era svenuta per lo sforzo, ed Ewan per la scossa. Jason si era ritrovato da solo, senza avere la minima idea di come comportarsi.

E la prima mossa, ovviamente, era stata quella di provare a svegliare Annabeth.

Da quanto aveva detto, le era stato attorno per un bel po’. Aveva tentato di tutto, dall’acqua fredda a un’altra piccola scossa elettrica, ma nulla.

Allora aveva provato una mossa disperata. Prendendo spunto da quando Piper l’aveva fatto “risorgere con la voce” (qualsiasi cosa volesse dire), aveva tentato di ordinare ad Annabeth di svegliarsi.

Peccato che avesse funzionato sul serio.

Aveva appena pronunciato quel paio di parole, quando si era sentito tirare verso la ragazza. Entro pochi secondi, era entrato nella sua testa.

A quanto pare, però, la cosa era durata solo un istante. Il tempo di sentire quel “Annabeth, svegliati” che rimbombava nello spazio attorno a lui, in un groviglio di pensieri, piani e sensazioni che non era riuscito a decifrare. Quando il suo sguardo aveva rimesso a fuoco la realtà, la ragazza stava aprendo gli occhi, piano.

Aveva fatto in tempo a vedere solo quello. Poi, era svenuto anche lui.

E si era ritrovato davvero a Draconia. Ci raccontò del prof, e di come lui l’avesse riconosciuto quasi subito come figlio di Lidja. A me non sembrava che le somigliasse poi tanto, ma il prof era stato come un padre per quella ragazza, perciò non dubitai che avesse colto subito qualsiasi dettaglio che potesse farlo apparire simile a lei. E poi, il fatto che fosse letteralmente entrato nella mente di Annabeth non lasciava adito a molti dubbi.

Piper e Jason avevano lasciato Draconia per ultimi, insieme, continuando a chiedersi come fosse possibile che Lidja risultasse madre di una semidea figlia di Afrodite.
Quando arrivarono a questo punto, Annabeth sbuffò. – Di che colore è il cavallo bianco di Napoleone? – si limitò a commentare.

La guardammo tutti, in attesa di una spiegazione che a quanto pare dava per scontato. Quantomeno, non ero l’unico a non averci capito nulla.

Mia figlia ci squadrò per qualche istante, poi scosse la testa e guardò Ewan. – Afrodite ha preso il corpo di Lidja per attirarti, idiota. La vera Lidja era incinta di Jason, nel frattempo, e questo l’ha portata a sparire dalle scene per abbastanza tempo da permettere alla dea dell’amore di spacciarsi per lei.  – poi si accigliò, e i suoi ragionamenti cominciarono a partire per la tangente. – Forse, è stata proprio Afrodite a far avvicinare Zeus e Lidja una seconda volta… probabilmente, considerando ciò che era diventata quella ragazza, la tracotanza avrebbe reso difficile l’amore con un qualsiasi uomo che non fosse un dio, ma ad Afrodite serviva che sparisse per almeno nove mesi… potrebbe essere anche il motivo per cui ha fatto innamorare Giove di Beryl/Lidya, invece di tentare con Zeus, che non è solito provarci due volte con la stessa donna per paura di Era, e avrebbe potuto accorgersi dell’inganno… ma le due personalità degli dei non conservano ben intatti i ricordi della loro controparte, perciò sarebbe stato più facile… -

- BASTA! – Ewan scattò in piedi, sorprendendo tutti, perfino Annabeth. Fino ad allora, non aveva proferito parola.

- È una scemenza… non può essere! Quella era Lidja, la mia Lidja, ne sono certo. E smettetela di parlare di Giove, Zeus, Era e Afrodite! Smettetela di parlare di mia figlia come se fosse chissà quale strana creatura! Gli dei dell’Olimpo non esistono, chiaro?! Non c’è nessuna forza magica, a questo mondo, a parte i Draconiani. - ci guardava a uno a uno, con gli occhi sgranati. Aveva gesticolato più lui mentre parlava di quanto io non avessi fatto in tutta la mia vita.

Dopo qualche secondo di silenzio, si accasciò sul divano, il respiro pesante. Avrei voluto fargli notare che, se Jason aveva ottenuto i poteri di Lidja e aveva la stessa età di Piper, di certo la madre di Piper non poteva essere Lidja. E quindi, la figlia non poteva aver ereditato la Lingua della Malia, o come si chiamava, da una Draconiana. E se la madre non era una Draconiana…

Ma preferii tacere. E per fortuna.

Piper attirò la mia attenzione sfiorandomi una spalla. La guardai: stava scuotendo piano la testa. Stai zitto, sillabò.
- Papà – chiamò poi Ewan, con una dolcezza insolita. – Mi sembri un po’ stanco. Sai dov’è la cucina; è stata una lunga chiacchierata, perché non vai a farti un caffè? Noi intanto usciamo, a… prendere una boccata d’aria. –

Lo sguardo di Ewan sembrò appannarsi per un istante. Poi guardò la figlia.

- Sì, hai ragione – asserì piano. – Grazie, Pipes. -

Si alzò, e si diresse nella stanza vicina.

Anche io mi alzai, seguendo gli altri fuori dalla porta. Mi era venuta una gran voglia di una tazza di caffè, anche se non sapevo bene il perché.

Solo dopo qualche secondo realizzai che avevo appena assistito alla forza del potere di Piper. E intuii che ne aveva usata solo una minima parte. No, quel potere non era nemmeno paragonabile a quello di Lidja.

Una volta fuori, Piper ci intimò di non riparlare di quell’argomento in presenza di suo padre. Per nessun motivo.

- Ho già provato a dirgli una volta del mondo divino, e ha rischiato di impazzire – mi riferì. – Non voglio che si ripeta una cosa del genere. – Rabbrividì, e Jason le cinse le spalle con un braccio. La figlia di Afrodite si avvicinò, e lui la strinse a sé.

Solo in quel momento, Mi ricordai che Annabeth doveva riferirci un’ultima cosa, prima che il mondo dei semidei diventasse un tabù.

- Annabeth, ma… com’è andata la chiamata col tuo ragazzo, alla fine? -

Lei mi osservò per un istante, come se non fosse sicura del perché mi importasse. In effetti, non le chiedevo spesso – anzi, mai – della sua relazione. Poi però sembrò capire che mi riferivo alle informazioni pratiche.

- Oh, sì – annuì. – abbiamo parlato davvero poco, in realtà. La maggior parte del tempo, il telefono ha squillato vuoto. Quando ha risposto, sembrava affannato – il suo sguardo si indurì, ma sotto si intuiva una profonda apprensione. – Gli ho accennato al volo del problema col ghiaccio e dei nostri nuovi poteri. Poi gli stavo riferendo quello che mi aveva detto Nico sulla chiave del tempo, ma mi ha attaccato in faccia dicendo che… -

- Aspetta un attimo. Frena. – Intervenne Piper, come se fosse abituata ai monologhi di Annabeth e sapesse quando era il momento di stopparla. – Nico? Cosa c’entra Nico, adesso? Di quale chiave parli? –

- Oh… non ve l’ho detto? – si massaggiò le tempie, sembrando all’improvviso confusa. E stressata, _molto_ stressata. - Be’, mentre eravate ancora tutti svenuti, Nico mi ha chiamata con un Messaggio- Iride. Mi ha detto che anche al Campo c’è stato qualche… -

E poi fu il caos.

Un boato tremendo scosse la terra sotto i nostri piedi, facendomi battere i denti. No, non un boato. Un ruggito.
In effetti, avevo sentito qualche rumore strano, quando ero uscito fuori. Delle urla, per lo più; ma l’avevo subito collegato a una qualche stupida rissa. Quei ruggiti, però, non erano umani.

Nulla poteva prepararmi a quello che avrei visto di lì a un secondo, sopra i tetti, a qualche isolato di distanza.

Due figure si levarono in cielo, sovrastando i palazzi e facendomi venire la pelle d’oca. Perché non avrei mai potuto dimenticare quelle ali, il profilo di quei corpi scuri, lo scintillio delle zanne e degli occhi che mi sembrava di vedere anche da quella distanza.

Per metà umani, per metà semi trasformati. Viverne.

Ero così sconcertato che non riuscii a schiodarmi da quella posizione. Non erano semplici Assoggettati, erano proprio viverne, quelle viverne. Dopotutto, non c’erano altre di loro capaci di trasformarsi in umani.

Ma allora, se Nida e Ratatoskr erano tornati… no, non era possibile che fosse tornato lui. Avevamo lottato tanto, non era possibile, non era…

Fu mentre Annabeth cercava di riscuotermi, urlandomi parole che non mi preoccupavo di ascoltare, che notai la prima stortura. Perché… perché quei due stavano combattendo tra di loro?

Poi mi ricordai di un altro piccolo particolare. Nida, nell’ultimo periodo, ci aveva appoggiato. Ci aveva addirittura aiutati, durante la battaglia finale. E se stesse combattendo contro Ratatoskr proprio per questo?

Aguzzai la vista, per vedere se riuscivo ancora a distinguere la figura della ragazza nel mare di artigli e ali nere. E in effetti, intravidi dei capelli lunghi, da ragazza. Molto lunghi, e mossi, e castano chiaro. Si indovinava anche un abito, lungo fino alle caviglie e bianco. E il viso…

Quella non era Nida.

Solo allora mi sturai le orecchie, e mi resi conto di cosa stavano urlando i ragazzi.

- Ma a me sembra… quello è… -
- Leo! Si, è lui! Si vede la cintura! E i capelli… è lui! –
- Papà, sbrigati, Stige! Dobbiamo arrivare lì e capire cosa sta succedendo! Muoviti! –

L’ultima era di Annabeth. Non avevo bisogno di farmelo ripetere un’altra volta, perché ero estremamente d’accordo.

Il tempo di prendere la macchina, e ci avviammo verso il combattimento. Ci vollero meno di cinque minuti, ma fu comunque troppo tempo.

Distratto dalla guida, non vidi bene il momento in cui una delle viverne prese fuoco, ma la risata e l’urlo sadico li sentimmo benissimo. No, quella non era la voce di Ratatoskr.

Gli altri, invece, sembrarono riconoscerla.

- È Leo, è lui! Frederick, Karl o come ti pare, accelera! – mi intimò Piper, usando anche un pizzico del suo potere. Pigiai sul pedale dell’acceleratore, e in meno di un minuto fummo davanti al vicolo dove stava succedendo la catastrofe.

Facemmo appena in tempo a vedere delle teste che sparivano in un’enorme crepa nell’asfalto, mentre un uomo con due ali nere chiuse sulla schiena guardava nel punto in cui le due viverne erano appena sparite. Nida era volata via, verso Est; solo più tardi avrei saputo che stava andando a dare guaio a dei possibili alleati. Magari avrei potuto impedirlo, se fossi arrivato un attimo prima.

I semidei dietro di me sembravano pensarla allo stesso modo. Jason non aspettò un altro secondo: si avventò sull’uomo, la spada già in pugno, senza dargli il tempo di capire cosa stesse succedendo.

- Cos’hai fatto a Leo?! – urlò.

Per un attimo, il tipo sembrò talmente sbalordito da non riuscire a proferire parola. Poi sorrise, il sorriso più inquietante che avessi mai visto.

- Questi non sono affari tuoi, figlio di Rastaban –

Poi l’uomo scattò in piedi sollevandosi da terra con le ali, con una forza tale da lanciare letteralmente via il figlio di Giove. Il povero Jason volò contro il muro dell’edificio di fronte, e riuscì a controllare i venti appena in tempo per non sbattere la testa. Il braccio, tuttavia, non fu abbastanza fortunato: sbatté violentemente contro il muro, e la spada gli scivolò di mano.

L’uomo si posizionò davanti alla spaccatura nel terreno, i muscoli tesi e le dita incurvate come artigli. Sulla fronte aveva una pietra simile a quella di un Draconiano, ma totalmente nera, come se risucchiasse la luce invece di brillare. Anche gli occhi erano pozzi neri.

Quell’essere era uno strano misto: le ali erano del colore di quelle delle viverne, ma avevano la fattezza di quelle di un drago. E aveva chiamato Jason “figlio di Giove”, perciò sapeva dei semidei.

Non avevo la benché minima idea di chi, o cosa, potesse essere quella creatura.

Alle semidee che mi affiancavano, tuttavia, non sembrava importare un gran che. Una volta assicuratasi che il suo ragazzo stesse bene, Piper si accostò a mia figlia, che stava studiando il nemico, probabilmente scorrendo una lista mentale per le migliori strategie d’attacco. Non capii perché volesse attaccare piuttosto che, non so, darsela a gambe, finché non mi resi conto di quel che doveva aver notato anche lei: l’uomo dal neo brillante si era posizionato davanti alla spaccatura nel terreno, e se ne stava lì immobile, con fare quasi protettivo. Intanto, la crepa si richiudeva, con un rombo sordo. Ma perché avrebbe dovuto voler evitare che entrassimo?

Annabeth, ovviamente, ci arrivò prima di me. – Leo è lì sotto. Quello che abbiamo visto è solo il suo corpo, vero? E quello – indicò la spaccatura – è il posto in cui stai tentando di imprigionare il suo spirito – Lo disse come se fosse ovvio, e la faccia dell’uomo dovette confermarglielo. Era totalmente distorta dall’ira, il volto di qualcuno che è consapevole di star rischiando tutto.

E le semidee dovettero prenderlo come un buon segno, perché sguainarono le armi e partirono all’attacco.

O meglio, Annabeth partì. Piper si limitò a gridare.

Questa volta, per mia fortuna, non ne uscì una scarica elettrica… non che servisse a molto, certo. Perché quel grido fu altrettanto spiazzante.

- Fermo! -

Io e Jason rimanemmo totalmente paralizzati. Annabeth, per un qualche motivo, riuscì invece ad avanzare ancora, anche se rallentando leggermente. Corse verso l’uomo dal neo brillante, sicura che non si sarebbe mosso.

Il suo nemico, che pensai fosse stato colto alla sprovvista come noi, rimase immobile per qualche secondo. Ma proprio mentre Annabeth si gettava su di lui, aprì le ali e si librò sopra le nostre teste.

Mia figlia non riuscì a frenarsi, e cadde oltre il baratro.
Sentii il cuore perdere un battito. Non mi resi nemmeno conto di essere riuscito a liberarmi dall’incantesimo di Piper: mi fiondai verso la spaccatura nel terreno come se ne valesse della salvezza del mondo.

Peccato che il mio nemico non fosse d’accordo. Prima che potessi raggiungere l’orlo del baratro, mi afferrò per la collottola e prese a portarmi in alto. Volammo su, oltre i tetti dei palazzi, la stoffa della mia maglia che minacciava di cedere da un momento all’altro.

Guardai in basso: Jason aveva appena recuperato la spada, ma sembrava stordito. Piper aveva raggiunto la spaccatura, e tendeva una mano al suo interno. Ma non c’era niente da fare: Annabeth era aggrappata ad una sporgenza diversi metri più in basso, tanto che riuscivo a distinguerne solo il volto.

Stava piangendo.

Teneva le mani aggrappate alla sporgenza con così tanta forza da farsi uscire il sangue. I suoi occhi erano rivolti al cielo, quasi non si accorgesse nemmeno della presenza dell’amica che le tendeva la mano, e aveva il volto contorto in una smorfia di terrore.

Non sentivo bene cosa stava dicendo, ma sembrava stesse pregando. E tremava.

Cosa doveva esserci, lì sotto, per farle così paura?

Poi, con orrore, mi resi conto dell’altro problema. La crepa si stava chiudendo. Anche non contando il panico, Annabeth non aveva tempo di provare a tornare su: doveva lasciarsi cadere, o sarebbe stata schiacciata dalle pareti di pietra.
Guardai il suo viso disperato, e capii che non poteva andare da sola. Jason, forse, avrebbe potuto salvarla, volando… ma probabilmente non sarebbe riuscito a tornare su in tempo.

Poi mi ricordai quello che Annabeth stessa aveva dedotto un attimo prima. Il loro amico era là sotto.

Mi accorsi che i due eroi in piedi sotto di me guardavano tra me e Annabeth, tra l’indecisione e il panico. E mi resi conto che avrebbero voluto salvarci entrambi.

Perché era ovvio che l’uomo dal neo brillante mi avrebbe ucciso non appena se ne fossero andati.

C’era solo un piccolo dettaglio che non avevano considerato: non me ne importava niente. Mi figlia aveva bisogno di aiuto.

- Andate, idioti! Prima che si chiuda! Salvate… salvate il vostro amico! –

Forse, avranno pensato che avessi un qualche piano. Forse non gliene importava nulla. Fatto sta che si guardarono, e annuirono.

L’uomo dal neo brillante ringhiò; gli occhi neri sembravano essere fatti della stessa materia di cui è fatta la morte. Si lanciò verso terra, con me ancorato addosso, e capii che avrebbe fatto di tutto pur di fermare i due eroi.
Ma ormai era troppo tardi. Jason abbracciò Piper con il braccio sano, e insieme si gettarono nell’abisso.

Vidi le mani di Annabeth staccarsi un attimo prima che il terreno si chiudesse del tutto.

L’uomo dal neo brillante posò i piedi nel punto in cui il terreno era squarciato fino ad un istante prima, e ringhio di frustrazione.

- Tu... – mi sibilò in faccia. – Non si sarebbero lanciati se tu… tu… -

Sicuro di essere già condannato, mi limitai a sorridere. Ero già morto una volta, dopotutto, no? A quanto pare, era destino non arrivare alla vecchiaia.

Avevo una speranza che Annabeth si salvasse. Mia moglie e i miei figli stavano bene. Tanto mi bastava. E allora, perché non uscire di scena con la testa alta?

- Se io… non avessi rovinato i piani? – ridacchiai. – Allora, questo vecchietto serve ancora a qualcosa, è? –

L’uomo dal neo brillante ringhiò un’ultima volta, poi spinse con un solo braccio e mi lanciò come una palla da baseball.

Io non fui fortunato come Jason. La nuca colpì i mattoni di un edificio con un sonoro crach, e finii in un limbo dove non c’era il tempo, o la luce.
O il rimorso.

~~~~~~~~~~~~~~~~~~
La legge del burattinaio ~ Andrea

Guardai verso l’uomo steso a qualche metro da me, cercando di regolarizzare il respiro. Un disastro. Quello era un vero disastro.

Non doveva andare così. La figlia di Atena e i suoi amici avrebbero dovuto incontrare Nidafjoll, non me! E di certo non sarebbero dovuti cadere…

Non conoscevo il piano per intero, ma ero abbastanza sicuro che questo avesse appena scombinato tutto. E se davvero le cose fossero andate male… lui… lui mi avrebbe…

Ma avrei dovuto ricordarmi fin da subito di non doverlo sottovalutare.

Lui mi apparve a fianco, così, all’improvviso. L’attimo prima non c’era, l’attimo dopo mi squadrava con quegli occhi millenari.

Non aveva più il corpo di Gym. Aveva ripreso il suo vero aspetto. Tremai da capo a piedi, difronte alla vista di quella creatura che avrebbe potuto portarmi alla vetta o farmi subire le pene dell’Inferno.

E se lui aveva rinunciato alla sua maschera per mostrare il suo vero aspetto… capii che stava per accadere qualcosa. Qualcosa di orribile.

Mi guardò, restando in silenzio, per qualche istante. Poi se ne uscì con qualche parola breve, semplice. – Me l’aspettavo. Questo era un altro modo in cui le cose sarebbero potute andare. Nida si sta dirigendo verso il luogo da cui è più attratta, ma la porteranno comunque dove mi serve. E non è un male, ciò che è successo… sono potenti, ne usciranno tutti vivi, e se siamo fortunati anche un po’ indeboliti. –

- A… aspetti ma… quindi, non è un male che… che tre dei cinque siano precipitati negli Inferi? –

- Non è d’intralcio per il piano – replicò lui. – ma è stato un errore. Che di certo non rimarrà impunito. –

Strinsi i pugni, ma non potei far altro che chinare la testa. – Sì, signore. Certo, signore. –

Lui mi guardò, inespressivo. – Il tuo servilismo e la tua paura mi fanno schifo. –

Rimasi a capo chino, mentre lui raggiungeva l’ex Draconiano. Non era morto, non ancora: potevo vedere il petto alzarsi e abbassarsi, anche se un fiore di sangue si stava stendendo lento e viscido sotto la sua testa.

- Presumo che nemmeno lui rimarrà impunito, signore – tentai. Quantomeno, avrei avuto l’opportunità di vedere la causa dei miei mali soffrire quanto avrei sofferto io.

Invece, il mio signore sorrise in direzione del corpo abbandonato. – Penso proprio di no. Quest’uomo ha dimostrato un grande valore, uno spirito di sacrificio non da poco. Penso che mi sarà molto utile, anche se credo che mi farò obbedire in modo più… diretto, da lui. Frederick Chase, un inutile “mortale”, avrà l’onore di essere un tassello dell’enorme mosaico che porterà tutto questo – e mosse la mano attorno in un gesto vago – a come dovrebbe essere. -

Sentii le viscere che mi si attorcigliavano per la rabbia. Avevo tentato in tutti i modi di farmi accettare tra quelle fila, e ora lui mi preferiva un ometto inutile e di poco conto, solo perché aveva tentato di salvare la figlia. Invece io la stavo combattendo, la mia Sofia, perché era questo che mi avrebbe portato a raggiungere i miei scopi. Non erano queste, le azioni che avrebbe dovuto apprezzare l’uomo freddo e calcolatore a pochi passi da me?

Il mio signore, però, non era un uomo comune. Questo l’avevo capito appena l’avevo conosciuto, appena aveva cominciato a predicarmi i suoi ideali. Lui non si piegava alle leggi degli altri, semmai obbligava gli altri a rispettare le proprie. Ma era difficile capire quali fossero queste leggi finché non le si infrangeva, perché la sua mente era quella di un genio. Folle, fredda, ma geniale.

Chinai il capo, ma non osai proferire parola per paura di dire qualcosa di sbagliato.

Lui non mi degnò di uno sguardo. Si limitò a schioccare le dita e sussurrare qualcosa.

In pochi istanti, lui e l’uomo erano spariti.

Rimasi solo, consapevole di non possedere più nulla. Neanche la mia dignità. Ne’ la mia vita, o la mia coscienza.

Ormai, tutto era suo.

Angolo Sclero

Che bello, il mio nuovo record di orario indecendemente indecente! (tralasciando il ritardo di una settimana... )

Però dovevo pubblicare oggi... FINALMENTE, PERCY COMPIE UFFICIALMENTE 18 ANNIIIII! DOPO CINQUE O SEI ANNI DA DICIASSETTENNE, IL NOSTRO TESTA D'ALGHE DIVENTA MAGGIORENNEEEEEEE!
(buona fortuna ad arrivare alla pensione...)

Oh, e ovviamente, siamo anche al secondo anniversario ufficiale della Percabeth! Un anno intero insieme, senza sparizioni né troppi gua...

Ah, già. Il libro che sta per uscire.
Dai. Prima o poi Percy e Annabeth lo avranno un anno normale insieme. Ne sono certa.
Cioè, suppongo.
Credo.
Spero.

Mentre aspetto di saperlo, vado a cercare altri biscotti blu.

-Philo_Sophia08

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