Capitolo 1

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Mel stava aspettando.
Era seduta sull'alto muro di mattoni, in cima al terrapieno della ferrovia che chiudeva l'estremità della strada. La sera era scesa presto, con il suo odore di legna bruciata e le sue nuovole basse e scure. La fine di giugno, ma sembrava inizio autunno.
Una fitta pioggerellina stava inzuppando la sua vecchia camicia e le sgocciolava dalle punte dei capelli. Le mani, aggrappate al muro, erano fredde e bagnate, ma lei non ci faceva caso. Era irrigidita dalla tensione e osservava gli ultimi tre ragazzini che giocavano a pallone nello stretto spiazzo tra le macchine abbandonate, senza ruote. Nassim Khan, Kin Molloy e Stevie Miller. In Crowcross Street ogni giorno c'era una partita di calcio, ogni giorno dell'anno, ogni anno. Cambiavano solo i ragazzini. Sapeva che presto sarebbero rientrati. Si stava facendo tardi. Aveva scelto attentamente la sua ora. Doveva solo aspettare; ma l'attesa era dura, adesso che aveva deciso.
Una brezza gelida turbinava lungo la strada, sospingendo la sporcizia e l'immondizia contro le macchine. Come la gente nelle case di queste squallide strade imputridite, pensò lei, costruite alla fine dell'Ottocento da un imprenditore che con il suo l'auto guadagno si era comprato una bella villa ad Epping Forest. Tre piccole strade, strette nel triangolo di terreni incolti tra il mercato rionale, la linea principale per Liverpool Street e la metropolitana, nel tratto in cui correva all'aperto. Le case stavano cadendo a pezzi. Piene di poveracci intrappolati che si odiavano l'un l'altro. Non ne sarebbero mai usciti. La strada era un vicolo cieco, in ogni senso. Soprattutto nel suo. Le sue mani tremanti si aggrapparono più forte al muro.
Doveva aspettare, solo un po', poi si sarebbe lasciata andare e sarebbe caduta all'indietro sui binari, davanti al prossimo convoglio della metropolitana che sarebbe uscito dal tunnel.

- C'é una ragazzina in cima al parapetto- disse il nuovo ragazzo di Vi Brown annondandosi la cravatta, affacciato alla finestra del numero Tre. - Non dovrebbe. É pericoloso, no?
- Una ragazzina?
Lui annuì.
- Mel Clader. - Vi si alzò e si mise accanto a lui, guardando fuori, nell'uggioso crepuscolo. -Abita dall'altro lato della strada. Al numero Sei.
- Sta piovendo. Dev'essere zuppa. Ma che ci sta a fare?
- Non vuole andare a casa.
- Povera piccola bestiolina. Sembra proprio un cane randagio.
- La maltrattano. Suo padre é morto.
- Credevo che oggigiorno qualcuno si occupasse dei ragazzini in queste situazioni.
- Anch'io. Forse non ne sanno nulla. Va avanti da anni. Avrei dovuto fare qualcosa, immagino. Ma c'é tutta questa gente, i cosiddetti rispettabili, come quei due della porta accanto, e Flo Hickey, la ficcanaso della casa all'angolo; non se ne sono mai interessati, loro.
Lui scrollò le spalle. - Dai, non ci pensare più, Vi. Beviamoci qualcosa.

- Sta di nuovo là sopra. Con questa sono quattro volte in una settimana- disse la signora Nicholls della porta accanto, sbirciando attraverso le pesanti tende di pizzo del numero Cinque. - Sembra malata. Neanche una giacca. Reg, devi fare qualcosa.
- Per esempio?
- Dovremmo avvertire gli assistenti sociali.
- Se chiamo gli assistenti sociali la porteranno via e la metteranno in un istituto. Pensi che le farebbe piacere? Bada a sua madre, se non sbaglio. Che farebbe quella povera donna se lei non ci fosse? Peggioreremo solo le cose. Tu pensa ai fatti tuoi. Non credo che ci ringrazierebbero per esserci intromessi.

- Non è giusto!- disse il signor Hussain in urdu, guardando fuori dalla finestra del numero Otto. - Il rumore delle botte. Le urla. Dove sono i suoi parenti? La sua famiglia se ne dovrebbe prendere cura. Perché nessuno se ne preoccupa?
- Non c'è nessuno- disse sua moglie sospirando. - Saira dice che non ha famiglia, e sua madre é malata di mente.
- Le autorità dovrebbero fare qualcosa- disse con rabbia il signor Hussain. - Non riesco a capire perché la scuola non abbia preso provvedimenti.

- C'è di nuovo quella Mel sul muro- disse la signora Miller, preoccupata, nell'ultima casa accanto al terrapieno. - Un giorno o l'altro cadrà di sotto. Proprio sui binari.
- Cosa vuoi che faccia, donna? - Il signor Miller spiegò il suo giornale della domenica, irritato. - Ci riguarda, per caso? É una bianca. Lascia che se ne occupino quelli della sua razza. Noi abbiamo già i nostri problemi. - Continuò a guardare il giornale, ma i suoi occhi avevano smesso di muoversi, e si stava chiedendo per l'ennesima volta se non ci fosse qualche modo ore aiutare quella ragazza. Tutto il vicinato aveva sentito sua madre strillare e bestemmiare, stava peggiorando.
La signora Miller gli lanciò un'occhiataccia rabbiosa e si affacciò sulla porta di ingresso. La sua potente voce da contralto caraibico arrivava facilmente in fondo alla strada.
- Stevie Miller, torna a casa. Si sta facendo tardi.
- Dai, ma', mezz'ora...
- Adesso.
- Dieci minuti- patteggiò lui.
- Se mi costringi a venirti a prendere, figliolo, te ne pentirai.
Stevie parlottò con i suoi amici, raccolse il suo pallone e lo dribblò, più lentamente che poteva, lungo il marciapiede sconnesso. Kevin e Nassim, sconsolati, lo seguirono svogliatamente, diretti alle proprie case. Niente più pallone!
La signora Miller alzò lo sguardo verso il muretto sopra il terrapieno. - E tu, Mel Calder, vedi di scendere da quel muro e vattene a casa. Ti prenderai un accidente, stando così sotto la pioggia come una stupida!
Mel si risvegliò e guardò amaramente la signora Miller. Chiunque avrebbe detto che se avesse dieci anni, come Stevie, invece di diciassette. Aveva tutto il diritto di stare su quel muro, se le andava. Fece spallucce e voltò la testa dall'altra parte.
La signora Miller rientrò sbattendo la porta.
Mel sentì un vago rimorso per essere stata sgarbata con la signora Miller che era stata gentile in più di un'occasione, invitandola a prendere torta e gassosa al tempo in cui lei e Lucinda erano state amiche. Ma tanto adesso non importava. Ormai niente poteva più importare.
Mosse le spalle e sentì la stoffa bagnata incollarsi alla sua schiena piena di lividi. Non interessava a nessuno. Quelli del personale medico, a scuola, un paio di volte le avevano chiesto dei lividi, ma avevano accettato le scusa banali senza fare commenti. In realtà nessuno voleva sapere. Sarebbe morta e nessuno se ne sarebbe accorto. Finalmente non avrebbe provato più nulla. Niente più paura, dolore e disgusto. Non cambierà mai nulla. Ammettilo, e che vadano tutti al diavolo. Quando sarebbe arrivato il treno avrebbe dovuto solo togliere le mani dal muro, così... stendere le gambe in avanti... sporgersi all'indietro... inclinarsi ancora un po' e...
Il convoglio della metropolitana uscì all'improvviso dal tunnel, ruggendo prima che lei fosse pronta, lampeggiando con bagliori argentati.
Mel trattenne il respiro, spenzolò per un attimo, stordita, con lo sferragliare assordante del treno nelle orecchie, poi le sue mani, di loro propria volontà, si aggrapparono al cornicione e la spinsero in avanti, lontano dal treno e dalla sua turbinante scia ventosa. Cadde male, scorticandosi la schiena illividita contro il muro, atterrando goffamente. Si storse una caviglia e scivolò lungo il ripido terrapieno fangoso e pieno di erbacce.
Arrivata in fondo, tra le carrozzine arrugginite e i materassi vecchi, si mise la testa tra le ginocchia, tremante, cercando di riprendere fiato. Passò un minuto prima che se ne rendesse conto. Era ancora viva. Aveva fallito. Non riusciva a farlo. Stupida vigliacca. Bastava solo lasciarsi andare. Solo lasciarsi andare. A quest'ora sarebbe già tutto finito.
Finalmente si alzò, ancora tremante, scalciando via furiosamente le vecchie lattine e gli scatoloni di cartone. Aveva i jeans coperti di fango e foglie. Automaticamente cercò di ripulirli riuscendo solo a peggiorare la situazione. Staccandosi la camicia bagnata dalla schiena sentì scorrere un rivolo di sangue. Si raddrizzò con cautela e si arrampicò dolorante attraverso la staccionata di ferro ricurvo. Camminò lungo la piccola strada, cercando di non zoppicare con la caviglia gonfia. Sperava che nessuno avesse assistito alla sua poco dignitosa caduta nell'ammasso di immondizie. Improvvisamente aveva una voglia isterica di ridere. Alla faccia del tentativo di suicidio.
Le luci si stavano accendendo dietro le finestre, accoglienti nell'umido crepuscolo. C'erano sei piccole case dal suo lato della strada, a schiera, senza giardinetti anteriori, con le strette Orte di ingresso e le piccole finestre direttamente sul marciapiede. Chiunque poteva guardarci dentro. Le quattro case di fronte erano leggermente più grandi, con finestre sporgenti, le porte d'ingresso sul fianco, e avevano tutte un giardinetto davanti. Anche le loro luci erano accese, ma Mel continuò a camminare, con gli occhi fissi sul marciapiede. Non voleva vedere nessuna allegra scenetta di vita domestica.
La sua casa era ancora al buio. Mentre apriva la porta con la sua chiave fu di nuovo investita da quel tanfo. Umidità, fogne, cibo rancido, pipì, sporcizia. Acidità ammuffita.
Camminò lungo lo stretto corridoio, verso le scale, ma poi, esitante, si voltò e con riluttanza aprì la porta del soggiorno. La stanza era illuminata solo dal lampeggiare bluastro della televisione, che però non trasmetteva nessuna immagine, e da molto tempo. Sua madre stava seduta lí, in silenzio, assente. Muoveva solo le mani, strappando con attenzione un giornale in tanti piccolissimi, perfetti quadratini che cadevano svolazzando in uno scatolone, ai suoi piedi.
Non alzò gli occhi, nemmeno quando Mel accese la fioca luce centrale.
Aveva un aspetto terribile. I capelli erano sporchi e appiccosi, il vestito macchiato e puzzolente. Era magra come uno scheletro e aveva la pelle pallidamente grigia e screpolata. Aveva trentacinque anni, ma secondo Mel dimostrava almeno vent'anni in più. La stanza era sudicia e disordinata come sempre. Mel vide, sentendosi quasi male, che sua madre doveva essere di nuovo uscita durante la notte, a prendere qualche nuova scorta di giornali e scatoloni dall'immondizia che i vicini lasciavano fuori dalle porte. Erano ammassati nella stanza a pile e a mucchi, ammuffiti e puzzolenti. Ormai quasi tutto il pavimento ne era ricoperto.
Mel rimase cautamente sulla soglia. - Vuoi mangiare qualcosa?
Ci fu un lungo silenzio. Poi sua madre voltò rigidamente la testa e la fissò.
- Mangiare. Vuoi mangiare?- ripetè Mel.
- No.
- Allora io vado a letto.- Distolse lo sguardo da quegli occhi vuoti, fissi su di lei.
- Mel?
- Che c'é?
Di nuovo silenzio. Mel si voltò, riluttante. Quegli enormi occhi scuri, così simili ai suoi, adesso erano spalancati e supplichevoli. Stavano chiedendo qualcosa, ma Mel non capiva cosa. Il cuore le batteva fastidiosamente.
- Vuoi qualcosa? Del té?- Il té che le aveva fatto quella mattina era ancora lì sul tavolo, intatto.
- Dovresti mangiare qualcosa.
- No.
- Allora che vuoi?
- Niente.
Gli occhi si erano spenti di nuovo e i quadratini di giornale continuavano a caderle dalle dita scheletriche, come le sue lacrime.

Mel si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò. Cosa poteva fare? Doveva sicuramente esserci qualcuno, che da qualche parte, che potesse darle una mano. Si voltò, avvicinandosi lentamente su per le scale, con le spalle curve, strascicando i piedi. Si stava illudendo. Sapeva benissimo che non c'era nessun aiuto, da nessuna parte.

MEL - Liz BerryWhere stories live. Discover now