Parte 8

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Quando era aperto, lo Spotlight spegneva le luci a mezzanotte. Prima si spegnevano le numerose lampadine dell'atrio, dove c'era l'ingresso alle sale e il negozio di popcorn, poi le luci più fioche della biglietteria, che quando non c'era nessuno alla cassa in orario di chiusura proiettavano le sagome scure degli schienali delle sedie attraverso il vetro, dando l'impressione che quel luogo di sera tardi diventi l'antro oscuro di una serie di strane e elusive creature dalle teste quadriformi. Salutai A. e D., presi la giacca ed uscii all'aria aperta, facendo una leggera giravolta su me stessa, prima che il pensiero dei compiti per il giorno dopo e delle discussioni con i miei mi appesantisse di nuovo lo spirito.

Quella sera era passato G. a prendermi; non aveva ancora la macchina, ma a me andava bene di passeggiare. Lo baciai a stampo e mi strinsi a lui; indossava una giacca di camoscio e un paio di jeans pesanti.

"Andiamo" mi fece.

"Certo" gli dissi.

Proseguimmo, sotto la luce fioca dei lampioni, mano nella mano. Le sue mani erano sgraziate, grosse e in qualche modo erose dal tempo, anche se sia io che lui avevamo appena diciotto anni. Riuscivo a odorare la sua colonia invadente, che per qualche motivo mi faceva ridere, mi trasmetteva un senso di ridicolo. Ma io mi guardavo bene dal dirglielo, naturalmente.

Non riuscivo neanche a vederlo bene in faccia, con l'illuminazione stradale scadente che andava e veniva, e che imperlava i marciapiedi di una luce rossastra prima di spegnersi e poi riaccendersi di nuovo.

Attraversammo la famosa "piazzetta", come la chiamavano (e la chiamiamo ancora). Lì vidi un gruppo di persone, dovevano essere cinque o sei; dalla forma dei loro corpi direi che erano tutti maschi, anche se non potevo essere sicura. Erano tutti uniti a formare una sorta di cerchio, e si muovevano agitati in una sorta di strana danza. Mi immobilizzai subito e tesi i miei sensi per cercare di capire cosa stesse succedendo. Stavano facendo un rituale? Sentivo delle urla, gemiti di dolore, ovazioni, non riuscivo a capire; l'acustica della piazza, anche senza macchine in giro, non era delle migliori.

"Che succede?" mi domandò G.

Si rese conto di che cosa stavo guardando.

E a quel punto me ne resi conto anch'io: in mezzo a quel cerchio c'era una sesta o settima figura, stesa per terra, la sagoma in controluce che si contorceva e si riduceva a una macchia prima di distendersi e dilatarsi di nuovo. Qualcuno fra gli uomini in piedi spinse una, due volte la gamba e sferrò uno, due calci a quella sagoma, che tremolava come una goccia di pioggia su un finestrino. Facevano a turni, per colpirla, facevano uno strano movimento portando il busto all'indietro quando conficcavano il piede nella persona per terra, sembravano omini del biliardino. In quel momento ero quasi certa che alcuni di quei suoni vocali inespressivi appartenessero a quella persona, anche se non ero sicura di quali. La piazza era deserta, attorno a loro; solo cartacce che svolazzavano. Sullo sfondo di quella scena torbida, l'agghiacciante azzurro luminescente dell'insegna di un supermercato ancora aperto. Una delle persone si allontanò per un attimo dal gruppo, e riemerse poco dopo trascinando un treno di carrelli, probabilmente appena presi dal supermercato. Prese velocità, fra qualche latrato di entusiasmo, e li spinse verso la persona accasciata a terra come un treno in corsa, provocando un clangore metallico che sentii anch'io fino a lì. Il primo carrello del treno salì per metà sopra la sagoma che si contorse e si accartocciò su se stessa, elevando leggermente le gambe e le braccia, in un movimento convulso e incerto da neonato, e uno gli diede un calcio, e fu lì che sentii la prima frase di senso compiuto. "Sta giù!". Tentarono per svariati minuti di spingere le ruote e i carrelli successivi sopra il corpo dello sconosciuto, o della sconosciuta, e alla fine parve che avessero rinunciato. Lì accanto, la luce sintetica dei lampioni e dell'insegna fece brillare una densa chiazza scura sul pietrisco della piazza di un luccichio misterioso.

"Che fai, andiamo?".

"Sì" risposi io, timidamente. "Non dovremmo fare qualcosa?".

G. mi toccò piano la spalla. La sua faccia era perfettamente in ombra, non riuscii a cogliere la sua espressione, né il tono della sua voce quando mi disse: "Lascia stare".

"Lasciamo stare?".

"Sì, tanto che vuoi fare? Qui va così, purtroppo".

Il vociare degli uomini nella piazza diminuì di intensità.

"Quindi andiamo?".

"Andiamo".

Mi strinse a sé avvolgendomi un braccio attorno alla schiena. Io posai in modo meccanico la testa sulla sua spalla, i capelli gli scivolarono lungo la giacca, alcuni (non so perché) rimasero impigliati nel suo orologio, e io gemetti di dolore, e decisi di legarli in una coda. Quando lo feci, mi sentii più comoda. Più libera. Il silenzio della periferia ci avvolgeva, ci sussurrava. Le luci dalle finestre delle case erano via via sempre più rade. Ci avviammo per la nostra strada, senza dire nulla, come al solito, come ogni giorno. Passo dopo passo, percorremmo un chilometro. Gli alti palazzi del nostro quartiere ci accoglievano immobili, immutabili, come torri d'avorio.

I PENDOLARI SI VESTONO DI NERODove le storie prendono vita. Scoprilo ora