Parte 1

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Mi sono svegliata appena prima della sveglia, come al solito. Sono le cinque meno cinque. Il cielo è ancora buio, appena screpolato da una linea rossa di sole, coperta dalle sagome delle grandi case popolari. C'è quel vecchio detto che dice che il mattino ha l'oro in bocca. Io il mattino ho in bocca un sapore di acido, di marcio, di sudore e malessere. Mi passa subito con un caffè e un cornetto.

G. sta ancora dormendo prono nel letto, in mutande, la testa ritorta inerme sul cuscino e le braccia scomposte come una grossa e pelosa balena spiaggiata. Non lo sveglio neanche quando faccio stridere la manopola del lavandino e mi sciacquo la bocca gorgogliando rumorosamente. Sono molto rumorosa quando non sono di buon umore. Mi vesto con una camicia azzurra qualunque e un paio di jeans, vestiti dall'aspetto decente, ma anche abbastanza dozzinali da non preoccuparmi troppo di non macchiarli quando pranzo. Pranzo che, a proposito, devo prepararmi subito, altrimenti mi dovrò rifornire da quel cubico macchinario infernale bastardo all'uscita del parcheggio della stazione che irrora i suoi prodotti confezionati di una fredda luce al neon e che li fa pagare il doppio di un qualsiasi altro cubico macchinario infernale bastardo; un po' come un piccolo duty-free ferroviario, penso spesso, ma alla rovescia.

G. non si è ancora svegliato.

Il 35 passa lento sferragliando davanti alla fermata degli autobus, semideserto, carico soltanto dei suoi pensieri polverosi, e mi fa salire. Cenerentola e la sua carrozza. Dopo un tragitto di quasi un'ora scendo alla stazione e incrocio la donna dell'est-Europa con il carrello dei prodotti per pulire che mi saluta sollevando una mano, forse troppo timida per parlare o tentare di indovinare il mio nome. Io il suo me lo ricordo: Tatiana. Non chiedetemi come mai. Entro negli uffici della stazione, attraverso i corridoi senza neppure guardare e mi siedo alla mia scrivania. Tra poco attacco a lavorare in biglietteria. Mi gratto la fronte con la gomma di una matita. Fuori il cielo è sereno, però in qualche modo mi sembra grigio, sigillato, opprimente.

Poco dopo arrivano E., V.P. e V.Q., con le loro vecchie auto graffiate e piene di bozzi. V.P. e V.Q. sono le due V. dell'ufficio e se la intendono sempre parecchio; abitano in due zone opposte della provincia, una guida una Panda e l'altra una Mini, una fa lo sportello la mattina e sta in ufficio il pomeriggio e l'altra il contrario, però sono un sacco amiche e sembra che lo diventino sempre di più quando le vedo. Siamo le uniche donne under 40 qui (ho un po' di dubbi su V. Q., ma lasciamo stare), ma non hanno attenzione che per loro stesse, e stanno lì a spettegolare, a guardare l'una sul monitor dell'altra e a ridere. La risata di V.P. fa lo stesso suono che emette la fotocopiatrice quando stampa i fogli, e questo mi ha stranito parecchio i primi tempi. Un giorno vorrei scherzarci su con lei, ma ci parliamo talmente poco "in amicizia" che ancora non me la sento.

Mentre mi alliscio i capelli, entra E. Quando lo vedo, il primo pensiero che mi viene in mente è che mi sono dimenticata di truccarmi anche stamattina. Avevo giurato che avrei fatto uno sforzo per apparire più interessante, ma poi me lo dimentico sempre. In effetti sono sempre troppo stanca; il sonno ormai per me è diventata una necessità, non un bisogno naturale, più una medicina che sei costretta a prendere tutte le sere perché sai che se non lo fai poi te ne penti. Mi ci rifugio sempre verso le 9, mentre G. guarda ancora la televisione e neanche mi guarda entrare nella camera da letto e non uscire più. Persino il mio cuscino, che tra l'altro è durissimo e mi lascia delle tremende finte rughe in faccia ogni volta che mi rigiro su un fianco, è come se mi dicesse "Eh, che devi fare, così va" con rassegnazione amara, mentre io cerco di dormire e di non dormire allo stesso tempo. E comunque, per il discorso del trucco, una volta ci ho pure provato di recente, ma quando mi sono guardata allo specchio e ho visto quei terrificanti triangoli viola scavati sotto gli occhi mi sono spaventata a pensare al lavoro che avrei dovuto fare per coprirli, e ho rimesso lo specchietto al suo posto nel cassetto del bagno.

E. invece, non so come faccia, ma lui è sempre pulito. Non intendo pulizia come igiene, ma in un altro senso che non so bene come descrivere. Pulito, puro, ordinato, limpido. Ogni volta che lo vedo mi viene in mente un parco appena aperto, con il prato ancora verde e gli alberi ordinati e le strade bianche. Non ho idea di come faccia, con le sue camicie poco stirate e i capelli bruni arruffati e la barba tagliata in un modo che sembra dipinta, e gli occhi scuri e vivaci che si gettano nei tuoi quando ti guarda. Potrei dire che lo invidio, e in effetti un po' è così, ma non penso sia davvero quella la sensazione che provo.

Come se non bastasse, non so nulla di lui, né dove abita, né se è sposato, se ha una famiglia o una fidanzata. La mia prima settimana a lavorare in stazione gli ho chiesto di passarmi un oggetto inesistente su una mensola soltanto per poter vedere se aveva un anello al dito della mano sinistra. E non ce l'aveva, per la cronaca, ma oggi come oggi non vuol dire nulla.

E. mi saluta. "Giornataccia?".

"Perché, si vede?" faccio, sorridendo, in modo ironico e vulnerabile. E. non cade nella mia trappola e si allontana senza dire nulla.

Gioco per un po' al giochino del puzzle delle lettere che mi ha installato G. sul telefono, poi vado a prepararmi per il turno allo sportello. Quando ho iniziato questo lavoro mi aspettavo che sarebbe stato come quando facevo la bigliettaia del cinema sotto casa dei miei; invece mi sbagliavo, c'era molta più roba da sapere, più moduli da riempire e più regole da rispettare e gli angoli degli occhi mi bruciavano per lo sforzo di aver fatto avanti e indietro per ore dallo schermo del computer alle brutte facce dei clienti, in piedi davanti a me con i loro soldi in mano e delle facce sempre preoccupate quando la procedura li tratteneva lì più tempo del previsto.

Stamattina c'è poca gente. Stappo una lattina di Coca Cola e ne bevo un sorso. V.P. attacca a ridere come fa sempre guardando il cellulare e dall'altra stanza quasi allo stesso momento si sente V.Q. che fa la stessa cosa, quindi immagino che stiano chattando. Ci sono poche persone sedute sui sedili di plastica blu della biglietteria: una ragazza carina con il viso sommerso da una sciarpa di lana, una signora grassa con un bambino e un vecchio con un cappello da pescatore che si aggrappava da seduto al suo bastone come se fosse l'ultimo appiglio per non cadere in un burrone.

E poi succede.

I PENDOLARI SI VESTONO DI NEROWhere stories live. Discover now