Parte 6

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Sto mangiando il mio panino seduta su una panchina davanti al binario 19. E' il mio posto segreto, il più lontano dalle stanze della stazione. Lì posso vedere di sbieco le finestre degli uffici, con le sagome delle teste distorte dai doppi vetri. Leggo che è arrivato un messaggio di V.P. Mi sorprendo perché il telefono non mi squilla quasi mai quando sono al lavoro, e la mia conversazione con ciascuno dei miei colleghi è composta soltanto da piccoli messaggi sparuti, a fini informativi, come bollettini meteo. Tranne a E., a cui ho inviato qualche anno fa una foto buffa con l'augurio di buon Ferragosto, e che mi ha risposto con un singolo laconico smile.

Il messaggio dice soltanto: "Il matto se n'è andato".

Non pensavo sarebbe successo. "Davvero se n'è andato?" le digito, le dita ancora unte creano brevi striature arcobaleno sul mio schermo.

"Non ci sta più".

Menomale, mi viene da scrivere. Ma sarebbe inutile; e soprattutto, mi rendo conto, sarebbe una reazione falsa. Onestamente, anche frugando nel mio cervello per tirar fuori una reazione adeguata, mi ritroverei a mani vuote.

Finisco il panino, e contemplo la prospettiva di ritornare in ufficio, ma non voglio. Mi metto a camminare lungo il binario, allontanandomi lenta dalla stazione, verso quello sprazzo di ciuffi d'erba alla fine della banchina ferroviaria. Lontana da tutto e da tutti. Sento solo il ronfare placido di qualche treno in lontananza.

Un altro suo messaggio mi arriva dopo circa mezz'ora.

"Vieni che è successo un casino".

"Che succede?".

"Uno si è buttato sotto un treno ed è morto".

Leggo il messaggio. Poi lo rileggo, in caso avessi capito male. Rileggo ogni singola parola, ne assaporo masochisticamente il peso. Poi chiudo il cellulare. Fisso gli occhi in un punto davanti a me, uno scorcio di un binario coperto da treni in sosta. Almeno un mistero è risolto, mi verrebbe da dire con voce ironica, sappiamo dov'è finito il matto. Il mio orecchio coglie il suono di una sirena della polizia, o di un'ambulanza, che si muove nelle vicinanze e si avvicina (o si allontana? Non avrei saputo dire). Io sono sempre qui, distante anni luce da tutto e da tutti. H.W. si è alzato dal suo sedile blu di plastica con il suo solito modo dignitoso; è andato verso il binario del treno, probabilmente l'1 che è il più vicino. Lo vede avvicinarsi, il muso del treno rosso e giallo, o blu e verde, o chissà che altro colore. Forse è questa la cosa che lui descriveva, la cosa che mi sto immaginando: l'interferenza. Il crocevia con qualcosa. Tagliato via, da tutto e da tutti; tagliato in due parti da un gigantesco vagone in movimento. Sangue sul metallo. Riesco a percepire tutto quasi sulla mia pelle, ma è come un ricordo di qualcosa di passato: non ricordo tutto, soltanto la sagoma dell'uomo ignorato da tutti, il matto, che nessuno ha ascoltato, mentre si alza e ad ampi passi va verso la fine, che poi forse è l'inizio di qualcos'altro. Io mi ci sono avvicinata, l'ho sentito. Quando mi ha preso il braccio, mi ha trasmesso le sue vibrazioni, nette come quelle di un diapason. Vorrei articolare meglio quello che sto pensando, per poterlo spiegare, ma non so come farlo. Mi ricordo del mio mal di testa. Mi ricordo del dolore di quell'individuo più di quanto mi ricordi del mio appartamento al quinto piano che mi aspetta, al di là dei binari. H.W. non è più; lunga vita a H.W.; cos'era questo? Un film? Un detto? Mi prendo in giro da sola per aver anche soltanto pensato di poter rivolgere la mia attenzione a qualcos'altro. Lui è stato lì, proprio dove sono io, e nessuno se n'è accorto. Forse anche nel suo portamento dignitoso e variopinto, anche i suoi piedi hanno esitato quando il suo corpo ha capito che la fine era arrivata. Forse aveva rallentato il passo finché la punta dei suoi piedi e delle sue scarpe bicolore non tangevano la linea gialla sverniciata che ci dice "Pericolo!". Proprio come i miei piedi stanno facendo adesso. Sentiva che quello era un punto di non ritorno; quel giallo sbiadito. Forse ha cercato un appiglio in qualcosa che vedeva, per convincersi a cambiare strada, ma non lo ha trovato, non ha trovato nessuno che lo trovasse. Proprio come me. Io sono qui. Il binario 19 è sgombro. Poi, senza neanche guardare il cartellone o sentire l'avviso, ha percepito la presenza del muso del treno, quel suo brontolare inconfondibile, che riempie gli spazi della sua e della mia testa ogni giorno. Proprio come sta succedendo a me adesso. Mette metà piede oltre la linea gialla, poi il secondo, e assapora la rottura di quella parete, soffice e evanescente come quella di una bolla di sapone. Si è guardato le scarpe, forse, stagliate sul giallo della linea, proprio come sto facendo io, e poi le ha spinte ancora più avanti, in bilico, la punta lucida che coincide quasi perfettamente con il bordo della banchina. Le punte delle mie scarpe non sono lucide, le mie sono vecchie trainer da ginnastica stinte dalle corse del liceo e dal soggiorno sotto la scrivania. Quando le vedo coincidere con la pietra, però, noto che quel grigio del pavimento è quasi identico a quello della gomma della suola. E sento che tutto collima perfettamente, e il rombo e il soffio del treno che aumentano di volume alla mia sinistra non fanno che confermare, che dirmi "Esatto! Ci sei arrivata!" con la voce di una smorfiosa compagna di scuola secchiona. E poi magari H.W. ha alzato lo sguardo, perché che tristezza morire guardando in basso, o in alto, è così banale e inconcludente, meglio guardare di fronte a sé, guardare alla propria altezza. E io lo faccio. E vedo V.P. ed E., le loro sagome inconfondibili, che parlano alla finestra. Forse è un gioco di prospettive sfalsate, ma i loro visi sono più vicini del solito. Meglio così, mi viene quasi da dire ad alta voce, è giusto. E' giusto. E' meglio. E il treno urla, sempre di più, e sposta l'aria vicino a me. Prima sembrava che mi incoraggiasse, adesso invece quel suono si è fatto invadente, fastidioso, la sua sagoma mi trapassa, con uno stridore cacofonico di paura e di pace, tranquillità e morte, speranza e apnea. E queste idee sono strane, sono opposte, si incrociano fra loro assieme al frastuono e al vento che mi sposta i capelli, laddove c'erano le ferite degli uncini sulle mie tempie. Li ammiro: eccoli lì, gli opposti, e le loro interferenze...

"Che fai?" mi urla qualcuno dietro di me.

Io balzo di un passo all'indietro. Qualche secondo dopo il treno mi sfreccia davanti.

"Niente".

"E' pericoloso!" mi fa V.Q., con in mano il cellulare.

"Sì... va tutto bene".

"Vieni o no? Ci serve una mano".

"E' arrivata la Polizia?".

"La Polizia?" mi fa lei. "Per cosa?".

"Come "per cosa"? Per H.W.".

Mi guarda storto. "Che c'entra?".

"Per l'uomo sui binari".

"Ma non si è buttato nessuno qui, sei impazzita?".

"Ma...".

"Senti, davvero, V. e E. hanno bisogno del tuo aiuto, devono risolvere un problema...".

"Guarda". Gli punto il cellulare con il messaggio in faccia.

"Guarda che quello non si è mica buttato qui".

"Cosa?".

"E' successo in un'altra stazione, a sud" mi spiega. "Per questo che ti dicevo che è successo un casino: tutte le linee sono bloccate, dobbiamo annunciare che ci sarà un ritardo".

"...".

"Hai capito o no?".

"Sì, sì".

"Allora vieni o no?".

"Sì, sì".

I PENDOLARI SI VESTONO DI NEROWhere stories live. Discover now