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Jimin si era steso sul letto, accanto al calore emesso dal corpo del suo amico. Taehyung aveva posato la testa sul suo braccio e sprofondato il viso nella sua maglietta, mentre lui lo stringeva in un abbraccio.
Nessuna lacrima, nessuno rumore o sospiro, solo un caldo e ovattato silenzio, e la sensazione dei muscoli rigidi di Taehyung che lentamente andavano rilassandosi, abbandonandosi alla sua stretta.
«Voglio chiederti una cosa» aveva detto poi Taehyung infrangendo quel silenzio. «Riguardo noi» aggiunse. Un brivido gli aveva percorso la schiena, Jimin l’aveva sentito e gli aveva accarezzato le scapole. «Quando ci muoviamo insieme, quando combattiamo insieme…» sussurrò.
«Taehyung, io…»
«Potremmo farlo sempre. Potremmo restare così, per sempre».
«Intendi come…»
«Parabatai» aveva finito per lui. Era stato all’ora che quello sguardo vuoto si era dipinto sul suo viso: non sapeva cosa pensare, come reagire a una richiesta del genere. «Sempre se non preferisci Taemin, ovviamente» aveva aggiunto Taehyung, cercando di rimetterlo a proprio agio.
Sul viso di Jimin si era arricciato un sorriso: «No, Taemin…» aveva ridacchiato.
«Cosa?»
«Nulla. È solo che… ma l’hai visto a lezione di tossicologia? Credo rischi di uccidermi più lui che un demone!»
Taehyung aveva sorriso, ma tremava. «Allora che ne pensi di me?»
«Sì» aveva risposto semplicemente Jimin. «Sarò il tuo parabatai».

La prima cosa che Taehyung riuscì a mettere a fuoco fu il soffitto dell’infermeria: stucco bianco intramezzato dai riquadri più chiari della luce che inondava la stanza dalle grandi finestre.
Sembrava che tutto gli girasse attorno, gli pulsava la testa. Quando cercò di mettersi a sedere, davanti agli occhi gli balenò il viso preoccupato di Jimin e sentì la sua presa sulle spalle che lo costrinse a restare giù: «Devi stare fermo» gli intimò. «Certo però che ti sei proprio impegnato per farmi prendere un colpo, idiota!»
Taehyung rise al modo in cui la preoccupazione per Jimin si trasmutava in stizza. «L’ultima volta che ti ho visto appollaiato al mio capezzale… è stata in Accademia, ti ricordi?» gli chiese, socchiudendo gli occhi. «Quando il mio cavallo si è imbizzarrito e mi sono fratturato il polso».
Jimin sgranò per un istante gli occhi castani. «Avevi battuto anche la schiena» sbottò in tutta risposta. «Ero costretto a stare lì, non riuscivi ad alzarsi».
«Quella volta…» sussurrò Tae. Si grattò la gola, cercando di schiarirsi la voce, e ingoiò a vuoto una sensazione di bruciore sul fondo della trachea. Allungò più che poté la mano, Jimin intuì e la prese nella sua. «Mi hai chiesto una cosa. Non ricordo cosa fosse, ma so che era importante. Importante per noi, come parabatai».
Jimin abbassò il capo e subito i capelli scuri gli ricaddero davanti agli occhi come una tenda. Strinse la presa sulla sua mano, come avesse paura che potesse sfuggirgli. «Ti ho chiesto perché passassi il tuo tempo con la feccia» sussurrò Jimin. Si irrigidì nelle spalle. «Avevi detto di ricordarti di me…»
«Mi dispiace» cercò di pronunciare Taehyung, ma non fu certo di esserci riuscito propriamente. Jimin sembrava non riuscire neppure a sostenere lo sforzo di guardarlo, come fosse disgustato da quelle infime scuse. «Riguardava la mia famiglia, non è vero? Quel che ti ho detto quella volta, intendo».
Jimin sollevò lo sguardo umido su di lui. Un brivido percorse la schiena di Taehyung: gli occhi di Jimin improvvisamente erano feroci come quelli di una animale ferito, eppure… Jimin non aveva lasciato la sua mano. Per un istante Taehyung tremò all’idea che, per la prima volta, non sarebbe riuscito a intuire cosa ci fosse dietro quello sguardo, invece gli occhi di Jimin gli lasciarono ancora spazio per mostrargli sollievo, che per lui era la cosa più vicina alla speranza, perché Jimin non osava sperare.
Taehyung aveva già visto quell’espressione: quel giorno di convalescenza, sul viso di Jimin, che aveva vegliato su di lui. Il ricordo lo colpì come uno schiaffo, martellando nelle sue tempie.
«C’era del sangue di fata nella famiglia di mio padre» disse. Jimin quasi sobbalzò, ma si astenne ancora dal parlare. «Ti ho conosciuto solo perché dopo la Pace Fredda…»
«Sì, be’, quello non era esattamente un punto a favore della tua popolarità» scherzò Jimin e strozzò una risata. Era sollevato. Abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate, accarezzò il dorso di quella del suo parabatai con il pollice. Prese un respiro e tornò a guardarlo. «Ricordi cosa è successo nella Villa Celata?»
«La cosa?»
«La… il posto in cui sei svenuto».
Taehyung ricordava la stanza che aveva trovato nel sotterraneo, il libro, le fiale nere… «C’era qualcosa nella tasca della mia giacca?» domandò a Jimin, riprendendo lentamente controllo della lingua gonfia, impastata. Voleva una prova che quello non fosse stato un sogno.
«Sì». Jimin si allungò e gli porse una delle fiale che ricordava. «Ce n’erano due» lo informò. «Ne ho data una a Hoseok hyung».
«Cosa? Jimin, non eravamo autorizzati!» gli urlò contro. «Il Conclave…»
«Ho dovuto dirglielo» tagliò corto Jimin. Scattò in piedi, calciò via la sedia, con le mani fra i capelli. Cercava di recuperare la calma. «Dannazione, avevi tanto di quel veleno in circolo, cosa avrei dovuto fare? Lasciarti morire?»
Taehyung si limitò a restare in silenzio, percorse l’avambraccio destro con la mano fino a trovare il punto nevralgico del dolore: una runa di guarigione era impressa lievemente in rilievo sulla sua pelle, nera e pulsante mentre lo curava dalle ferite di battaglia. «Voglio parlare con Namjoon» disse poi sollevando lo sguardo di nuovo su Jimin.
Lui sospirò piano, si lasciò cadere sul letto, accanto a Tae. «Lo immaginavo. Continuavi a chiamare membri dell’Istituto nel sonno…» gli disse. Gli accarezzò leggermente i capelli sudati, aggrovigliati fra i cuscini, gli sorrise appena. «Jackson è andato a chiamarlo».
«Jackson?»
Per un istante la bocca dello stomaco di Taehyung fu stretta nella morsa della paura. Paura di aver dimenticato di nuovo qualcosa, qualcuno. Ma poi vide un’espressione comprensiva sul volto di Jimin: «Jackson Wang è il leader dei lupi di Seoul» disse.
«M-mi ricordo chi è, è solo che… cosa ci fa qui?»
«Accorro in soccorso» rispose una voce rilassata dall’ingresso della porta. «Saresti stato già fortunato a sopravvivere al viaggio in auto da Daegu all’Istituto, ma il modo in cui ti stai riprendendo…»
Appoggiato allo stipite, c’era un ragazzo longilineo con uno spettinato ciuffo di capelli castani che gli ricadevano sulla montatura dei grandi occhiali tondi. Aveva arrotolato le maniche della maglietta scura sopra le spalle. La sfilza di braccialetti dorati che portava al polso tintinnarono quando si grattò la testa.
Con una scrollata di spalle, si spostò dall’entrata e lasciò spazio a un Namjoon preoccupato.
Taehyung non aveva mai visto il ragazzo così. Non era mai stato troppo loquace, ma neppure aveva mai avuto una tale espressione preoccupata, tanto meno per lui.
«Come ti senti?» gli chiese sedendosi sul letto, di fronte a Jimin.
Di solito, si rese conto Taehyung, era lui a chiedere a Namjoon se stava bene, magari sapendo che si era beccato un raffreddore.
Namjoon, Yoongi… ricordava i loro volti, le loro espressioni, di averli visti maturare e di aver cercato di emularli, eppure era come se ci fosse ancora qualcosa riguardo a loro che gli sfuggiva.
«Sto meglio, non preoccuparti» gli disse Taehyung. Abbozzò un sorriso e gli fece un segno di okay col pollice. «Sembri stanco… È tutto okay? Avete cenato?» scherzò.
«Sì, Yoongi ha fatto la frittata» rispose scocciato Namjoon. La frittata non era uno dei suoi piatti preferiti, né uno di quelli di Yoongi. Ma non era certo stata la cena a rendere così acquosi i suoi occhi. «Se hai bisogno di qualcosa…»
«Schiavizzerò Jimin» lo assicurò cercando di sembrare il più tranquillo possibile. «Piuttosto… vorrei vedere quella persona».
Namjoon annuì facendo una smorfia mesta. Si alzò, fece un cenno col capo a Jackson e si avviò per il corridoio.
«Mai visto una visita così veloce» commentò Jackson cacciando le mani nella tasca dei pantaloni neri della tuta.
«Sa che me la caverò» replicò Taehyung ritornando a posare la propria attenzione sul ragazzo.
«Erano tutti morti di paura quando sono arrivato» affermò invece Jackson. Nessuno tentò di negarlo, ma Jimin evitò lo sguardo di Taehyung. «Immagino ti stia ancora chiedendo che ci faccia un lupo mannaro in un Istituto» punzecchiò allora il lupo. Poggiò i palmi delle mani alla ringhiera ai piedi del letto di Taehyung, piegandosi in avanti verso di lui. Allungò una mano: «Ricominciamo da capo. Io sono Jackson Wang» si presentò.
Lo Shadowhunter ricambiò la stretta: «Kim Taehyung» rispose. «Cacciatore di demoni, quando non ci resto quasi secco».
Jackson si lasciò sfuggire una risata. E per un momento, Taehyung notò che, ridendo, i suoi occhi si chiudevano dando l’impressione che questi ridessero con lui, quasi come quelli di Jimin.
«Non abbiamo mai avuto occasione di fare due chiacchiere, di solito, se interagisco con degli Shadowhunters, è per lavoro. Per il branco, intendo. Sai, sono un lavoro nel campo musicale. Faccio anche il modello a tempo perso, anche se magari quello lo avevi immaginato» aggiunse sollevando le sopracciglia mentre sul suo viso si illuminava di un sorriso smagliante. «Puoi chiamarmi hyung».
«Sai, non è da tutti i giorni dover estrarre del veleno di demone Nue dal corpo di uno Shadowhunter e vederlo riprendersi» la voce di Hoseok fece voltare di nuovo i tre verso la porta dell’infermeria. Con lui c’era anche Yoongi. «Kim Seokjin non è riuscito a fare più di una trasfusione e tenere monitorati i tuoi chakra finché non è arrivato Jackson, qualunque cosa voglia dire…» L’espressione di Hoseok non emanava esattamente fiducia o sollievo. «Per fortuna Yoongi hyung si è ricordato che Bang aveva un amico esperto di veleni».
«Come va?» chiese il ragazzo più grande.
«Direi bene» mentì Taehyung. Non andava bene: più l’effetto dell’iratze passava, più sentiva i muscoli dolergli a ogni minimo movimento.
«Avremmo bisogno di parlarti» lo informò Yoongi. Spostò lo sguardo su Jackson. «In privato».
«Se non te la senti…» fece Hoseok.
«No, ce la faccio». Un’altra bugia, ma si sentiva già come se avesse abusato di loro, di tutti loro, della loro preoccupazione, perciò decise che il dolore alle articolazioni dovuto allo sforzo di mettersi a sedere, il cerchio alla testa che ne seguì e la sensazione di  fosse il male minore.
«Vengo con te» disse subito Jimin.
Taehyung annuì e lasciò che il suo parabatai lo prendesse per mano.

Jungkook si alzò a fatica, gli girava la testa. Prese un respiro profondo. L’aria fredda gli pizzicò la gola. C’era un odore metallico, in quell’aria. E qualcos’altro, ma non sapeva dire cosa.
«Alzati, pigrone, siamo arrivati» si sentì dire. Era una voce familiare. Yoongi hyung.
Jungkook si stropicciò gli occhi prima di riuscire ad aprirli del tutto, sentiva le palpebre pesanti.
Attorno a lui tutto sembrava avvolto da toni azzurrini. Poi realizzò: erano in spiaggia. L’odore che aveva sentito era salsedine e quella luce strana era l’alba.
Era sdraiato nel retro del pickup di Hoseok; i suoi hyung erano già scesi e stavano sistemando dei teli sulla sabbia.
«Che mi è successo?» chiese Jungkook, saltando giù dal pickup.
Hoseok lo guardò con un’espressione perplessa. «Che vuoi dire? Ti sei addormentato durante il viaggio» rispose.
«È caduto in coma, vorrai dire» fece Yoongi prima di lanciargli uno sacco blu. «Pianta la tenda» gli urlò.
Jungkook guardò il sacco di nylon fra le proprie mani. C’era qualcosa di strano, ma ancora non riusciva a capire cosa. «E la missione?» chiese ancora. «La setta? L’angelo?»
«Ma di che parli?» replicò Hoseok. Lo superò e salì sul pickup per prendere un altro sacco come quello che Yoongi gli aveva dato.
«Del nuovo videogame che stiamo giocando insieme» rispose Taehyung. «Finiremo la missione quando torniamo a casa» lo assicurò passandogli accanto per prendere il sacco di Hoseok. «Per ora godiamoci il campeggio».
«Jungkookah, per una volta che riusciamo a farti uscire di casa per fare qualcosa che non sia andare in palestra, potresti evitare di parlare di videogame?» lo rimproverò Namjoon.
«Ecco, io…» provò a dire il ragazzo. Si sentiva così confuso. Gli pulsavano le tempie. «Va bene» si sentì dire, ma era come se in fondo non fosse quello che voleva. «Allora monterò la tenda».
Sapeva come montare una tenda, ovviamente. In particolare, quel modello era estremamente semplice: doveva solo far passere i bastoncini negli appositi canalini di stoffa e poi piantare i picchetti. Jimin era entrato in acqua, con i pantaloni arrotolati sulle caviglie, per prendere dei sassi che potessero assicurare meglio i picchetti nella sabbia.
Muoversi nella sabbia umida e fredda non era il massimo, Jungkook non faceva altro che sprofondarci dentro e ricoprirsene. Era certo che gliene fosse già finita abbondantemente nei calzini, quando si ritrovò inginocchiato a scavare a mano le buche per i picchietti.
«Posso mettere dentro i sacchi a pelo?» chiese Taehyung.
«Sì, adesso non rischia di capovolgersi» rispose Jungkook osservando l’ultimo sasso che aveva posato, orgoglioso del proprio operato. «Ma assicurati di non avere i piedi sporchi di sabbia, o ce la ritroveremo dappertutto stanotte».
Taehyung gli sorrise in risposta prima di entrare.
Il sole stava sorgendo alle loro spalle. Jungkook si alzò e si spolverò via la sabbia dai pantaloni più che poté. Guardò gli altri ragazzi che lavoravano attorno a lui: Yoongi e Hoseok stavano finendo si sistemare l’altra tenda, chiacchieravano fra di loro riguardo una nuova canzone che Yoongi aveva iniziato a comporre; Jimin stava distribuendo bicchieri, versando del tè fumante da un termos; Namjoon avevano montato il barbecue e ora stava cercando di capire come accendere la carbonella, rigirandosi le istruzioni per le mani.
«Devo fare qualcos’altro?» chiese Jungkook.
«Fossi in te, andrei a togliere l’accendino dalle mani di Namjoon hyung» fece Jimin sottovoce, gli porse un bicchiere di plastica e Jungkook l’accettò.
«Già, è una buona idea» concordò Taehyung, uscendo dalla tenda.
Jungkook li guardò e loro gli fecero cenno con la testa per sollecitarlo a darsi una mossa.
«Hyung,» chiamò Jungkook, «ti do una mano io ad accenderlo» gli disse raggiungendolo.
Namjoon gli sorrise con gratitudine e lo lasciò fare.

Yoongi rientrò nella stanza dopo essersi assicurato che Jackson si fosse allontanato a sufficienza. Si chiuse la porta alle spalle. Quando incrociò lo sguardo di Hoseok, annuì, come sapesse già cosa volesse chiedergli. Poggiò la schiena allo stipite. Come un cane da guardia, pensò Taehyung.
Hoseok, ai piedi del letto, estrasse un foglio ripiegato da una delle tasche dei larghi pantaloni cargo e lo porse a Jimin. «Ho chiesto al Sommo Stregone di analizzare la merda che c’era in quella fiala».
Jimin lo prese, gli occhi spalancati. «Non hai chiesto ai Silenti?»
«Era materiale recuperato senza il permesso del Clave» replicò semplicemente Hoseok. Incrociò le braccia al petto, osservando Jimin scorrere l’elenco degli elementi contenuti dalla sostanza nera che avevano trovato. Taehyung distolse lo sguardo e lo fissò sulle proprie mani: le cifre e i caratteri giravano e si mescolavano troppo velocemente perché riuscisse a capirci qualcosa, ora gli sembrava di avere più di una ventina di dita. Gli girava già la testa, aveva la bocca secca.
«Taehyungah, il tuo sangue non è come quello degli altri Shadowhunters» espirò Hoseok.
Taehyung sollevò la testa per guardarlo. Non fu sicuro se il peso che avvertì alla bocca dello stomaco fosse dovuta alle parole del maestro d’armi o dalla roba che aveva in circolo. «Se ti riferisci al sangue di fata, sappi che non sono dell’umore giusto per le stronzate sulla purezza del sangue Shadowhunter».
«No», dichiarò Hoseok. Per un istante sembrò sul punto di scoppiare a ridere per la banalità di quell’osservazione. «Il contenuto della fiala nera che hai trovato combacia in buona parte con il tuo sangue. In oltre, conteneva tracce di sangue demoniaco… e angelico» sospirò le ultime due parole con rassegnazione, come se solo in quel momento stesse venendo a patti con quell’informazione. «A questo punto pensiamo che le fiale che avete visto nel sotterraneo non fossero semplici esperimenti, ma dosi. Per qualcosa, per qualcuno».
«Questo è impossibile. Nessuno può… E comunque cosa dovrebbe avere a che fare con Tae?» chiese Jimin, il tono di voce resto più acuto dal modo in cui si era messo sulla difensiva.
«I documenti che avete trovato, i ragazzini sotto la chiesa, ora questo…» Hoseok indicò col mento il foglio nella mani di Jimin. «Vanno avanti da anni».
Al suono di quelle parole Taehyung fu attraversato da un brivido, Jimin lo intuì dal modo in cui scosse appena le spalle. Fece per alzarsi, ma le sue gambe sembravano avere un’opinione diversa.
Jimin lo prese fra le braccia e lo sostenne. «Va tutto bene?» gli sussurrò.
Taehyung annuì, mettendo una mano sulla sua. «Sì» ansimò.
«Non puoi alzarti» replicò Jimin, evidenziando l’evidenza.
Taehyung imprecò a mezza voce. «Va bene! Dammi un bicchiere d’acqua ed io resterò a letto» sbottò, tornando a stendersi.
«I bambini sopravvissuti agli esperimenti» disse Yoongi, interrompendo il sipario tragicomico fra i due parabatai, «sono tutti mezze fate».
Taehyung avevo lo sguardo perso, come fosse sul punto di svenire di nuovo. Boccheggiò prima di formulare la domanda: «E questo cosa significa?»
Jimin ingoiò a vuoto prima di dirgli ciò che già sapeva: «Le fate sono ibridi, lo sai, a metà tra angeli e demoni. Per questo su di te esperimenti di quel genere potrebbero avere effetti…»
«No» lo interruppe Taehyung. «Se avessi subito degli esperimenti, io…» Ricorderei, avrebbe voluto dire, si rese conto Jimin. Ma Taehyung non ricordava.

«Un lupo mannaro in un Istituto?» ripeté Suzy. Il suo tono non lasciava niente all’immaginazione: era basita.
«Pare sia stato morso da un demone Nue» commentò Inna. Lei non sembrava affatto turbata dalla cosa, continuava a sfogliare la pila di documenti consegnateli da Kim Namjoon senza particolare attenzione. «Non è un crimine chiedere aiuto nel momento del bisogno» le disse guardandola da sopra gli occhiali da lettura che le erano scivolati praticamente sulla punta del naso.
«È stato chiesto un permesso al Conclave?»
«Sì».
«E la loro missione era autorizzata?»
«Non erano in missione, da quanto ha dichiarato Kim Namjoon».
«E allora cosa ci facevano lì? Non era nemmeno nel loro distretto di giurisdizione! Avrebbero dovuto contattare i membri dell’Istituto di Daegu».
«Stavano spendendo del tempo insieme, come dei buoni amici. È una cosa che la gente fa, sai?»
«E casualmente sono stati attaccati da dei demoni?» Questa volta Inna non si prese nemmeno la briga di risponderle, la guardò semplicemente con un sopracciglio alzato, come per chiederle se avesse intenzione di continuare ancora per molto. «Oh, andiamo! Chi si prende il lusso di fare delle gite al giorno d’oggi? Stentiamo ancora a riprenderci dopo la guerra…»
Inna batté una mano sulla scrivania della sua stanza e si sfilò gli occhiali con un sospiro esasperato. «È un loro diritto» disse muovendo la sedia girevole in modo da guardare l’altra ragazza, che stava facendo avanti e indietro davanti al suo letto da quando era entrata nella stanza. «Hanno richiesto un giorno libero al capo dell’Istituto, gli è stato accordato. Il Conclave crede ancora che degli Shadowhunters sani di mente siano più efficienti di gente mentalmente e fisicamente esausta, perciò è possibile chiedere dei permessi! E poi cos’hai contro quei ragazzi? Pensi anche tu che abbiano mentito, come Jongsuk?»
«Sai chi è il lupo incaricato?» ribatté semplicemente Suzy sedendosi sulla punta letto, in modo da stare alla stessa altezza dell’altra e guardarla dritta negli occhi.
«Non vedo come questo cambi qualcosa».
«Jackson Wang» pronunciò Suzy.
Inna si limitò a girare la sedia e indossare di nuovo i suoi occhiali. «Ho sentito che è il nuovo capobranco di Seoul, saprà fare il suo lavoro» disse semplicemente. «E anche noi abbiamo del lavoro da fare».

Quando Taehyung riaprì gli occhi, si rese conto di essere in camera sua. Le pareti bianche erano ingiallite dalla luce ovattata del tramonto che filtrava dalle persiane socchiuse. Tentò di alzarsi a sedere, ma l’infelice idea lo fece ricadere sul cuscino dopo pochi istanti in cui l’intera stanza aveva ruotato e si era riempita di chiazze nere. Si sentiva debole, ma soprattutto inutile.
Il suono del chiudersi improvviso della porta del bagno della camera lo fece sobbalzare. Si voltò e mise a fuoco dapprima i capelli neri, poi i lineamenti morbidi del viso di Jackson. Era a piedi nudi, con una vaschetta di plastica in mano - che doveva essere andato a riempire d’acqua. Avanzò strizzando una pezza di cotone nel pugno. Sollevò gli occhi scuri su di lui e gli sorrise: «Come ti senti?» chiese.
«Che cosa mi è successo? Perché non sono in infermeria?»
«Hai semplicemente voluto strafare» lo informò il ragazzo. Aveva sistemato una sedia accanto a letto, vi si sedette e allungò un braccio per poggiargli sulla fronte la pezza umida. «Ho convinto il tuo amico Jimin a portarti qui, invece che lasciarti a marcire in quell’orrenda infermeria. Hai la febbre alta, il tuo corpo sta disperatamente cercando di bruciare il veleno del demone Nue che ti ha morso».
Taehyung sentiva la bocca impastata, la lingua gonfia contro il palato ruvido. Era difficile pesino respirare. «E tu perché sei qui?» mugolò.
«Quando sei arrivato qui, imbottito di veleno, i tuoi amichetti cacciatori non sapevo esattamente cosa fare».
«Così hanno chiamato i rinforzi?»
«Precisamente» fece Jackson dandogli un buffetto su una guancia. «I demoni Nue sono la cosa più simile all’origine della licantropia che finora è stato possibile riscontrare. Quando un essere umano viene morso, di solito ci sono due opzioni…»
«Scommetto che una è la morte» sbottò Taehyung.
«E sembrava proprio che tu fossi propenso a scegliere quella» osservò il ragazzo posando la vaschetta sul comodino accanto al letto. «La seconda scelta era trasformarsi in una specie di chimera bavosa in preda all’istinto e priva di coscienza o ragione. E morire nel giro di quarantotto ore» aggiunse con una scossa di spalle. Incrociò le gambe come se volesse meditare, appollaiandosi sulla sedia.
«Interessante» fu l’unico commento che riuscì a fare Taehyung. La testa gli faceva male, e la sensazione di fresco umido sulle tempie non aiutava.
«Quindi… in pratica sono venuto a salvarti la vita» sentenziò il ragazzo osservandolo con aria divertita. «Direi di meritarmi almeno un ringraziamento».
«Sì, molte grazie davvero… hyung» sbottò l’altro strofinandosi gli occhi.
Sul viso dell’altro si dipinse un gran sorriso. E ancora Taehyung ebbe la sensazione che anche i suoi occhi ridessero.
«Di niente, Taehyungie». Sembrava piuttosto soddisfatto, mentre metteva a mollo la pezza nella bacinella poggiata sul suo comodino.
«Hyung» fece Taehyung. Non sapeva bene come dirlo. «Credi che… potrei andare in un posto?»
«Conciato così?» replicò l’altro, rimettendogli il panno sulla fronte. «Non direi che suoni come una bella idea». Taehyung alzò gli occhi sul soffitto e sospirò di frustrazione. «Perché?» chiese Jackson.
Taehyung lo guardò con aria sconfitta. «Vorrei vedere una persona».
«Capisco» rispose semplicemente Jackson. «Ma dovrai aspettare che la febbre scenda naturalmente, non posso darti tachipirina o antinfiammatori, potrebbero interferire con il processo di eliminazione del veleno».
«Va bene».
«Mi dispiace, ma potrebbe volerci un po’».
«Capisco, non dipende da te».
Il silenzio che seguì di per sé suonò alquanto imbarazzante.
Alla fine fu Jackson a parlare, probabilmente per chiedergli qualcosa che gli frullava nella testa già da un po’: «Devi incontrarti con la tua ragazza?»
«Cosa?» Taehyung si rese conto di quanto acuta suonasse la propria voce. Cercò di schiarirsela, ma la cosa finì per suonare ancora più imbarazzante. «No!» si affrettò a dire. «No, io… devo parlare con uno stregone. Per un caso che sto seguendo! È una cosa seria…»
«Ah ah» replicò Jackson. «Capisco». Taehyung lo guardò in cagnesco. «Ehi! Non ti sto mica prendendo in giro!»
«Non sembrava».
«È solo che la tua reazione era un po’…»
«Un po’?»
«Sulla difensiva, ecco». Jackson ripeté il rito del bagnare la pezza. «Scusa, non ti volevo offendere».
«Nessuna offesa» assicurò Taehyung. «Tu ce l’hai, la ragazza?»
L’altro si fermò col braccio a mezz’aria e il panno umido in mano. «Io…» Si rese conto della propria posizione e gli sistemò lo straccio sulla fronte. «Ce l’avevo, ma è andata via».
«Ah, capisco».

«Disturbo?» chiese la ragazza affacciandosi alla porta dell’ufficio di Namjoon.
«Ah, Bae Suzy. Niente affatto, prego» replicò il capo dell’Istituto, indicando con la penna che aveva in mano un posto a sedere di fronte alla sua scrivania.
Suzy si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò, ma non si sedette. «Ho saputo che un suo sottoposto ha riportato delle ferite».
Namjoon abbandonò ogni attenzione per i documenti che stava esaminando. Alzò la testa per guardare dritto negli occhi scuri della ragazza. «Sì, Kim Taehyung. È fuori pericolo».
«Non credo di aver ben compreso le dinamiche dell’incidente» replicò lei, impassibile.
Namjoon si leccò le labbra, temporeggiando. «Non c’è molto da dire. Una fatalità».
«Demoni Nue, non è vero?»
«Sì» si ritrovò a dire Namjoon. La sua voce suonò strana alle proprie orecchie, statica.
Suzy annuì, cominciando a passare le dita sottili sui complementi d’arredo leggermente impolverati che ingombravano la scrivania: la lampada da tavolo perennemente surriscaldata, lo schermo del portatile, l’orlo delle carte che Namjoon stava esaminando… «Come hanno fatto a imbattersi in quelle creature mostruose?»
Namjoon posò istintivamente le braccia sulla pila di fogli scompigliati davanti a sé. Sapeva che la ragazza stava solo facendo il proprio lavoro, ma non poteva fare a meno di sentire quell’atteggiamento come un’invasione del proprio spazio come capo dell’Istituto e come amico. «Avevano chiesto un permesso. Di tanto in tanto gli piace visitare le proprie regioni d’origine insieme, trovano che rafforzi il loro legame di parabatai. Io non ho avuto niente da obiettare, considerando anche gli eventi recenti…»
«Si riferisce alla morte del suo predecessore?»
L’asserzione, così brusca, lasciò per un istante il ragazzo senza parole. Si ritrovò semplicemente ad annuire: «Bang è stato una figura genitoriale per molti membri di questo Istituto».
«E i suoi sottoposti sono stati attaccati… così? Dal nulla?»
Namjoon cominciò a pensare di sapere dove volesse andare a parare. Tutte queste domane… Suzy doveva sospettare qualcosa. E lui doveva sviarla dall’idea che si trattasse di una missione non dichiarata. «Oh, no» dichiarò. «Come è stato già detto nel rapporto inviato ad Alicante, i ragazzi hanno rilevato un’attività demoniaca con i propri sensori. Hanno ritenuto loro dovere controllare…»
«Ma non hanno avvisato l’Istituto competente» obiettò Suzy. Finalmente si sedette di fronte a lui. Ora i loro occhi erano pressoché allo stesso livello, cosa che fece sentire Namjoon un po’ meno sotto accusa.
Prese un respiro e mentì: «No, e di questo sono molto deluso io stesso. Non so cosa avessero per la testa quei due, credevo di aver insegnato loro meglio di così…»
«Quindi anche lei ritiene che siano stati in errore?»
«Assolutamente» fece lui. «Ma credo anche che ciò che è successo sia stato una punizione sufficiente per entrambi. Il dolore per Kim Taehyung, la paura di perdere il proprio parabatai per Park Jimin… penso che basteranno a ricordare loro di non fare più gli spacconi e chiedere immediatamente rinforzi, quantunque il caso volesse che si trovino di nuovo in una situazione del genere».
Suzy annuì, forse soddisfatta dalla risposta. «Riguardo al Nascosto…»
«Jackson Wang? Ho avuto modo di constatare che sia molto qualificato. Il suo aiuto è stato prezioso, farò in modo di informare il Conclave di quanto i buoni rapporti fra Shadowhunters e mannari possa essere favorevole» tagliò corto Namjoon. La deviazione di argomento gli stava dando l’opportunità perfetta di chiudere lì quell’incontro e buttarla fuori dal proprio ufficio.
«Non ne dubito» disse Suzy. «Ma, vede…»
«Sì?»
Suzy scosse la testa: «Niente». Si alzò di scatto e mise a posto la sedia. «La ringrazio del suo tempo».

«Starà bene» si sentì dire.
Jimin sobbalzò e portò istintivamente una mano alla cintura delle armi, prima di rendersi conto che a parlare era stato lo stregone. Lasciò ricadere la mano, guardandolo di traverso. «Che ci fai ancora qui?»
«Namjoonah ed io avevamo ancora una chiacchierata in sospeso» rispose Seokjin. Sembrava completamente a suo agio a gironzolare per l’Istituto. Si appoggiò alla parete del corridoio opposta a quella di Jimin, gambe allungate e braccia conserte. Gambe troppo lunghe, spalle troppo larghe, si disse lo Shadowhunter. «Non ti fa bene stare tutto il tempo qui fuori. Non fa bene neanche al tuo parabatai, in effetti» commentò facendo un cenno verso la porta col mento. «Da quanto sei in piedi? Trenta ore? Di più? Dovresti riposare».
«Non ricordavo di averti nominato mio medico di fiducia» rispose seccamente lo Shadowhunters. Non volle chiedersi come Seokjin sapesse che quanto tempo aveva passato in piedi davanti alla porta di Taehyung, aspettando il minimo pretesto per chiedere a Jackson se stesse migliorando, se potesse fare qualcosa per aiutarlo.
«Non bisogna essere laureati in medicina per capire che hai bisogno di dormire un po’» l’assicurò l’altro. «Ma ti sei visto in faccia?»
Jimin ruotò mentalmente gli occhi. «Sto bene».
Seokjin fece spallucce. «Come credi».
«Sommo Stregone…»
L’altro lo interruppe alzando una mano: «Gli amici mi chiamano Jin hyung».
«Non siamo amici» gli ricordò Jimin. «Quindi, se hai finito quello che avevi da fare con Namjoon hyung, puoi anche andartene».
«Potrei» concordò Jin. «Ma, sai, qui vicino c’è un posto che fa un ottimo pollo fritto, ha bibite fresche… danno anche un mazzo di carte in dotazione a ogni tavolo!»
«Non vedo cosa ti trattenga».
Jin si staccò dal muro e fece qualche passo verso di lui. «Non voglio giocare a carte da solo» esclamò, quasi divertito, puntellandosi su un braccio contro la parete alle spalle di Jimin, praticamente bloccando il ragazzo fra sé e il muro.
«Esistono i solitari proprio per persone come te». Si sposò a destra ed evase dalla vicinanza con lo stregone. Si allontanò da lui di un paio di metri.
Jin sfoggiò un gran sorriso. «E la vodka per la gente come te».
«Magari un’altra volta» replicò Jimin. Girò sui tacchi e si avviò verso la propria camera. Se proprio doveva fare una cosa suggerita da quell’individuo, sarebbe stata andarsene a dormire.
«Ci conto!» gli urlò dietro lo stregone.

blood and memoriesWhere stories live. Discover now