capitolo 3

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«Dov’è Jungkook?» chiese Namjoon quando i cacciatori tornarono all’Istituto.
Taehyung non ebbe il coraggio di guardare in faccia l’amico. Non aveva il coraggio di fare altro che respirare, divorare aria: i suoi polmoni non trovavano pace da quando aveva messo piede fuori da quel dannato tugurio. Ma nessuna boccata d’ossigeno sembrava davvero placare il bruciore che gli soffocava il petto.
Taehyung non avrebbe nemmeno saputo dire come aveva fatto a tornare all’Istituto. Sentiva la testa leggera e delle macchie nere gli sfarfallavano davanti agli occhi. Quando era salito in macchina? Quanto tempo era passato? Perché non riusciva a quietare il proprio diaframma? Eppure concentrarsi sul proprio respiro sembrava l’unica cosa che il suo cervello potesse consentirgli di fare.
«Che succede?» lo interrogò ancora Namjoon. «Come mai ci avete messo tanto?» Sorrideva, ma era evidentemente preoccupato.
Taehyung mise a fuoco il ragazzo, i suoi occhi scuri, ingoiò a vuoto e, semplicemente, lo disse: «Lo abbiamo perso».
Il sorriso sbiadì sul viso di Namjoon. Taehyung lo sentì inspirare lentamente prima di chiedere: «Come?»
«Non sapevamo cosa ci aspettasse lì» iniziò lui, faticando nella ricerca delle parole. «Quella specie di chiesa… il Clave non ha idea…»
«Come?» la voce di Namjoon risultò più dura, come il ringhio di un animale ferito.
Un brivido percorse la pelle di Taehyung. «La chiesa è il luogo di ritrovo di una setta» spiegò. «Hanno evocato un angelo, Imamiah. Ha preso Jungkook ed è sparito».
Doveva davvero suonare come una presa in giro, perché Namjoon alzò lo sguardo su Jimin. Lui affiancò il proprio parabatai: «È la verità» dichiarò, «non sappiamo se lo rivedremo più».
Namjoon si limitò ad annuire, il suo sguardo tornò a Taehyung: «Lo dirò io agli altri» gli disse. E il ragazzo non seppe se interpretarlo come un atto di misericordia o di delusione.

La sala che si trovava esattamente sopra la volta della minuscola chiesa dell’Istituto per secoli aveva accolto l’Enclave chiamato a discutere i problemi che avevano scosso la comunità degli Shadowhunters della Corea. Presiedevano i capi dei principali Istituti: Jeju, Daegu, Busan, e, naturalmente, Kim Namjoon e Jung Hoseok per l’Istituto di Seoul. Al tavolo erano seduti anche due Fratelli Silenti, Fratello Alon e Fratello Dror. Non ci voleva un genio per capire che probabilmente l’avrebbero costretto a ripetere il rapporto sotto l’effetto della Spada Mortale: la sola idea che qualcuno fosse riuscito a evocare un angelo era qualcosa di troppo grave per essere preso con leggerezza.
Jimin aveva già visto tutti loro, il giorno in cui era entrato per la prima volta nell’Istituto che era stato la casa del suo parabatai, a Daegu. Quando ci pensava, a volte, gli sembrava il ricordo di un sogno: a prima vista un negozio di periferia, un ammasso di blocchi di tufo ammuffiti e polvere; poi Taehyung era uscito dal dietro la zanzariera sgangherata che copriva la porta aperta, gli aveva sorriso tendendogli una mano, e improvvisamente la struttura aveva assunto l’aria austera di un Istituto di Shadowhunters. «Benvenuto a casa» gli aveva detto. «Vieni, i Fratelli Silenti e il capo dell’Istituto ti aspettano».
Ma Taehyung non c’era adesso.
«Sei certo di quello che hai visto?» gli chiese Park Jihyo, il capo dell’Istituto di Jeju. Col suo viso a cuore e gli occhi enormi sembrava quasi fuori luogo in mezzo agli altri capi di Istituto, troppo carina, troppo dolce per il loro mondo.
«Sì» rispose Jimin. Era al centro della sala, con le braccia intrecciate dietro la schiena, in piedi sulle onde azzurre del pavimento a mosaico che raffigurava Raziel con le ali spiegate sul Lago Lyn. «Lo giuro sull’Angelo» ripeté.
Yoon Jeonghan, il capo dell’Istituto di Daegu, fece un cenno a Fratello Alon e lui e Fratello Dror si alzarono in silenzio. «Raccontaci cosa è successo, Jimin» lo esortò quando la porta della sala si chiuse alle spalle dei Fratelli Silenti.
Jimin parlò, ripeté ciò che aveva visto, ciò che aveva sentito, ma non disse loro di come la luce aveva accecato i suoi occhi umidi nel momento in cui la loggia era uscita dalla chiesa; dei membri che si allontanavano silenziosamente, con le mani congiunte come fossero in preghiera; né di come, appena era riuscito a distinguere di nuovo le forme, il suo sguardo aveva cercato Taehyung, che era a qualche metro da lui: ansimava come avesse trattenuto il fiato troppo a lungo, piegato in due, con le mani poggiate sulle ginocchia, tremava.
Jimin l’aveva raggiunto e si era inginocchiato accanto a lui, poggiandogli una mano sulla spalla: «Va tutto bene?» gli aveva chiesto.
Taehyung aveva alzato gli occhi su di lui ed ecco di nuovo quella sensazione di freddo sotto lo sterno di Jimin, la consapevolezza che qualcosa non andava. Taehyung si era tirato su e aveva detto solo: «Dobbiamo tornare lì dentro».
Il rumore di qualcosa che crollava aveva richiamato la loro attenzione: alle loro spalle, metà della struttura della chiesa si era accartocciata su se stessa.
Jimin aveva corso e si era aggrappato alla schiena di Taehyung, tirandolo indietro, tenendogli le braccia strette attorno al corpo in modo che non potesse muoverle. «Non possiamo fare niente» aveva cercato di farlo ragionare. «Jungkook…» Ma al suono di quel nome il respiro di Taehyung era mancato come se gli avesse dato un pugno al plesso solare.
Lo aveva spinto via con forza e si era allontanato da Jimin muovendo qualche passo all’indietro. «Non era pronto! Sapevo che non avremmo dovuto portarlo qui!» aveva urlato. Le parole erano uscite dalle sue labbra come un lamento, ma non avrebbe versato lacrime. «Dobbiamo aiutarlo! Dobbiamo tornare lì dentro! Ritrovarlo!»
«È troppo pericoloso» aveva ribadito Jimin. «Non c’è niente da fare». Aveva tentato di prenderlo per i polsi, ma Taehyung si era svincolato ancora.
«Non mi toccare!» gli aveva ringhiato contro.
«Sono chiaramente delle sciocchezze!» sbottò Lee Jongsuk, il capo dell’Istituto di Busan, battendo pesantemente una mano sul tavolo di legno della sala.  «È impossibile che un qualsiasi gruppo di estremisti sia stato in grado di invocare Imamiah, uno degli angeli più potenti del paradiso!»
«Il ragazzo ha giurato sull’Angelo!» sottolineò Yoon.
«Yoon Jeonghan ha ragione» intervenne Namjoon. Jimin non l’aveva mai visto così in vita sua: aveva gli occhi arrossati dietro agli occhiali squadrati e i muscoli intorno alla bocca induriti; più che preoccupato, sembrava spaventato.
«E dovremmo davvero credere a questo qui? Questo… mondano?» continuò Lee, imperterrito.
«Jimin ha compiuto l’Ascensione, come lo stesso Jonathan Shadowhunter» gli ricordò Namjoon. «Inoltre, conosceva Jeon Jungkook da molto tempo. Non avrebbe motivo di mentire».
«Queste nuove generazioni sono sempre alla ricerca di attenzioni!» insistette Lee. «È da quando quella Clarissa Fairchild si è messa di mezzo alla Guerra Mortale che spuntano fuori casi di questo genere! Tutti ragazzini che affermano di aver visto angeli e…»
«Ma Jungkook è sparito veramente!» urlò Jimin. L’intero Enclave si voltò verso di lui, sentì i loro sguardi severi su di sé.
Namjoon prese un profondo respiro: «Jiminie, capisco come ti senti. Va’ dal tuo parabatai, immagino che in questo momento abbiate bisogno l’uno dell’altro».
Jimin annuì e uscì dalle porte antipanico bianche della sala.
Gli sembrò di essere investito dall’aria fredda, di poter respirare e rabbrividire, come se, varcata quella soglia, avesse il permesso di smettere di essere razionale e lasciarsi andare alla scarica di terrore generato da ciò che aveva visto il giorno prima.
Corse lungo il corridoio, giù per le scale, fuori, sotto il sole cocente di agosto.
Taehyung era seduto sotto la tettoia dell’ingresso del palazzo. Lo vide balzare in piedi e corrergli incontro, lo abbracciò forte. Jimin non si aspettava una reazione del genere: Taehyung si era preoccupato per lui, nonostante fosse distrutto dopo aver visto sparire Jungkook.
«Cosa è successo?» gli chiese, tirandogli i capelli lontano dal volto e guardandolo dritto in faccia. «Stai bene? Sei stato lì dentro per due ore! Cosa ti hanno chiesto?»
«Sto bene» l’assicurò, scuotendo la testa per allontanare le sue mani. «Mi hanno solo chiesto di ripetere il rapporto, se fossi certo di ciò che ho visto». Taehyung annuì, ma non sembrò convinto al cento per cento della parole di Jimin. «Ho una cosa per te» gli disse il ragazzo. Estrasse dalla tasca dei jeans dei fogli ripiegati e glieli porse: «Sono i documenti che abbiamo trovato in quella casa».
«Cosa dicono?» Taehyung sembrò sul punto di dire qualcos’altro, sentì la sua voce morirgli in gola. Alzò gli occhi bruni su di lui e Jimin aspettò di sentire quella sensazione di freddo sotto lo sterno, ma stranamente non arrivò. Taehyung non era arrabbiato con lui, sembrava solo spaventato, stanco.
«Ecco, io… prima che tu li legga, credo… che dovremmo parlare di alcune cose» disse Jimin.
«Di che si tratta?» Jimin esitò. «Perché hai quella faccia?»
«Noi pensavamo che…» Jimin non sapeva davvero come formulare quella frase. «Avevi ragione. Questa serie di omicidi, è tutto collegato. E credo che il Conclave voglia insabbiare tutto. In questi documenti… vengono nominate delle famiglie, Taehyung. Famiglie Shadowhunters importati e…»
«C’entra anche la mia famiglia?» Jimin annuì. «Senti… So che i Fratelli Silenti ti hanno detto di non parlarmene, che i miei ricordi torneranno da soli, ma… ti prego, Jimin, devi dirmi quello che sai».
Jimin non sentiva quel tono nella voce del suo parabatai dai tempi dell’Accademia: “Se vuoi, a me puoi dire cosa non va” gli aveva sussurrato una sera, seduti sul lurido pavimento del corridoio, uno di fronte all’altro, con le schiene poggiate alle pareti. E Jimin lo aveva fatto, non aveva mai smesso di farlo, e Taehyung non aveva mai smesso di cercare di fargli vedere il lato positivo, di dargli una ragione per non pensare a tutto il male che aveva sentito, di farlo sorridere anche quando sapeva di non poterlo fare. Taehyung si era preoccupato per lui anche quando non doveva, fino a sentire le preoccupazioni, i risentimenti e ripensamenti di Jimin come mali fisici, come mali propri, fino a scoppiare, a urlare, a piangere, ma non l’aveva mai lasciato, neppure quando avrebbe voluto, arrabbiato a morte con lui per le stesse ragioni per cui gli voleva bene. Taehyung non l’aveva mai disprezzato, non l’aveva mai visto come lo vedevano gli altri: stranamente, per lui c’era qualcosa di bello in Jimin che neanche, o forse soprattutto, lui vedeva. A volte Jimin si era chiesto se Taehyung fosse consapevole del fatto che lui sapesse queste cose… come poteva adesso rifiutarsi di dargli ciò che più desiderava, i suoi ricordi?
«Non posso dirti tutto» lo avvisò. «Per il semplice fatto che non so tutto».
«Non importa» ribatté subito l’altro; ingoiò a vuoto.
Jimin prese un lungo respiro. «Va bene» disse. E raccontò. Non aveva idea di come raccontare a Taehyung di Taehyung, sarebbe stato come cercare di spiegare a un amante della Nutella la supremazia della marmellata al mandarino, ma aveva una mezza idea di come raccontare a qualcuno del proprio parabatai, quindi lo fece e basta.
I genitori di Taehyung, Jungkook e Namjoon erano morti nella Guerra Oscura, come, per quel che Jimin ne sapeva, centinaia di altre brave persone.
Quando si erano conosciuti in Accademia, Taehyung gli aveva raccontato di suo nonno, del fatto che da bambino era il suo eroe, di come lui e sua nonna lo avessero cresciuto… di come rimpiangeva non aver potuto star loro vicino negli ultimi momenti perché bloccato in quella stupida Accademia; di quanto disprezzasse il destino di essere nato Shadowhunter; di come si chiedesse quali ragioni avessero potuto spingere Jimin ad arrivare in quel posto. Ma nemmeno Jimin sapeva bene quali fossero.
«Avevi dei fratelli» gli disse. «Per quel che ne so, li adoravi».
Taehyung prese un respiro e ingoiò a vuoto un’altra volta. Non avrebbe pianto, Jimin ne era certo. Si era appallottolato sul pavimento del marciapiede, con la schiena poggiata al muro, le gambe strette al petto e gli occhi rivolti alla strada trafficata, e Jimin si era seduto accanto a lui. I mondani non potevano vederli a causa delle rune.
Taehyung riabbassò lo sguardo sui fogli stropicciati che teneva in grembo, li prese in mano e li esaminò in silenzio: Jimin aveva evidenziato delle frasi con un pennarello giallo, voleva che leggesse.
Giorno 92
Il soggetto non presenta sintomi di rigetto.
Giorno 137
Il soggetto è irascibile. È stato notato un aumento di forza e velocità nei movimenti, nonostante questi si presentino a scatti meccanici e solo temporaneamente.
Giorno 276
L’esperimento è stato un successo. Il soggetto ha dato alla luce un risultato corrispondente ai parametri documentati del primo esperimento.
35.8714335 – 128.601445
«Sono coordinate. Hai idea di cosa possano significare questi?» gli chiese Jimin indicando le sequenze di numeri con due dita.
«È a Daegu» rispose Taehyung. Aveva gli occhi lucidi. «Credo siano le coordinate del luogo in cui sono nato».
«Taehyung». Il ragazzo si voltò di scatto verso Yoongi. La sua voce l’aveva fatto sobbalzare. «È… è vero? Quello che dicono… che Jungkookah…»
Taehyung non riuscì a replicare. Sentì una mano di Jimin passargli sul braccio, fermarsi attorno al polso; la voce di Jimin rispondere alle domande di Yoongi al suo posto, anche se per monosillabi.
Alla fine Yoongi fece un verso mesto. Non aveva una bella cera, anche se Taehyung non avrebbe saputo indicare esattamente cosa non andasse in lui. «Vi credo» disse. Sembrò voler aggiungere qualcos’altro, poi scosse appena la testa. Sul suo viso apparve il suo solito sorriso a parentesi quadra, ma durò solo un istante. Taehyung lo interpretò come il suo tentativo di essere incoraggiante. «Parlerò con Namjoon» assicurò, con lo sguardo rivolto a Jimin.
«Pensi che l’Enclave possa credere a ciò che abbiamo visto?» chiese l’altro. Aveva ancora la mano stretta attorno al polso del suo parabatai, Taehyung sentì il suo pollice accarezzargli il dorso della mano.
«No» fece seccamente Yoongi.
«Non siamo pazzi» dichiarò Taehyung. Fece scivolare la mano di Jimin nella propria. «C’è qualcosa sotto, perché non vogliono ammetterlo?»
«Perché li metterebbe in una posizione scomoda, Tae». Yoongi non sembrò minimamente infastidito dal tono aggressivo che aveva assunto l’altro ragazzo. In qualche modo, questo fece sentire Taehyung in colpa. Yoongi restò in silenzio per un po’ prima di dire: «Non volevo che andasse in missione, ma Jungkook era davvero pronto a scendere sul campo. Sarebbe stato uno Shadowhunter perfetto…»
«Perché parli di lui al passato?» lo aggredì Jimin. Taehyung gli strinse forte la mano per fargli segno di smetterla. «Proprio tu! Non sappiamo cosa…»
Questa volta Yoongi scattò come una molla: «È stato toccato da un angelo, Jiminah! Cosa pensi gli possa essere successo? Puoi solo sperare che non abbia sofferto!»
Non era facile vedere Yoongi arrabbiato, quel tono sembrava non appartenergli. Jimin non seppe più bene cosa farsene di se stesso, semplicemente cominciò a piangere.
Taehyung lasciò la prese sulla sua mano solo per passare il braccio attorno alle sue spalle e stringerlo a sé. «Sarà meglio che tu vada ora» intimò a Yoongi.
L’altro non fece una piega, semplicemente li superò e si diresse verso l’ascensore.

blood and memoriesWo Geschichten leben. Entdecke jetzt