1. The Temple Bar

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22 novembre 2019.

Sentii il tessuto in memory del materasso abbassarsi e accogliere perfettamente la forma del corpo di Tanya che - sdraiata a pancia in giù e con i piedi a mezz'aria - mi osservò con criticità. Schiuse le labbra, richiudendole dopo qualche secondo come se le parole le fossero morte in bocca, senza riuscire a riformulare la frase. La vidi mettersi le mani sulle guance e stringersi il viso frustrata. «Non ci posso credere, perché proprio lui? Perchè proprio Ian?» mi chiese, quasi sconvolta, come se quello che avevo detto qualche minuto prima fosse una menzogna, a cui non sapeva se credere o meno.

Annuii, roteando gli occhi azzurri verso il soffitto, prima di riportare lo sguardo sul sangue del mio sangue. Mi schiarii la voce: «Già, a quanto pare Ian ha deciso di farsi assumere. Dopotutto, il titolare può scegliere chiunque si presenti al colloquio». Sospirai, mordicchiandomi il labbro inferiore, perchè la frase successiva mi faceva venire i conati di vomito. «E così Ian Blevis lavorerà con me» soffiai quasi in un sussurro, perchè dirlo a voce alta mi avrebbe ferito di più.

Sospirai per l'ennesima volta e mi alzai dal letto lasciando a Tanya molto più spazio di quanto ne avesse prima, infatti si girò su un fianco facendo cadere i suoi boccoli biondi sul cuscino. Io, intanto, mi parai davanti allo specchio del cassettone osservandomi e toccandomi i capelli acconciati in onde morbide e leggere sulle spalle. Come illuminata, mi girai di scatto verso mia sorella: «Questo non significa che stringerò alcun tipo di rapporto con lui, Nya. Quel che è stato è stato, ormai non ci penso neanche più». Scrollai le spalle e lei annuì, ma nella sua espressione leggevo altro: come se fosse stata colta con le mani nel sacco. Immaginavo stesse già pensando a un ipotetico rapporto tra me e Ian, che non mi sarei sognata di avere nemmeno da lì a cento anni e, con la mia affermazione, risposi ad ogni sua futura domanda.
Inarcai un sopracciglio e Nya sorrise innocentemente, alzando le mani a mezz'aria, in segno di resa.

☆☆☆

«Certo signora, sono quattro euro e trenta centesimi» sorrisi alla donna davanti a me, che frugò per alcuni minuti nel suo portafogli in cerca di monetine. Evidentemente fallì nella sua ardua ricerca perché mi porse una banconota da cinque, che presi con delicatezza dalle sue mani. Digitai l'importo sul display e le presentai lo scontrino però, prima di poter aprire la cassa e contarle il resto, la sentii dire: «Non si preoccupi, signorina, tenga pure il resto. Il caffè era buonissimo, ma accompagnato dalla sua gentilezza era ancora meglio. A domani» mi salutò la settantenne, indossando di nuovo il suo berretto di lana e voltandomi le spalle.

Dublino era nel pieno dei suoi giorni più freddi: infatti il mio cellulare percepiva circa sei gradi ed erano le dieci del mattino. Mi soffermai a guardare fuori dalla grande vetrata che separava il locale dall'esterno: era cosparsa dalle gocce di pioggia che quella mattina non dava pace alla città. Il mio turno era cominciato da tre ore e avevo già servito centinaia di caffè americani. Non c'era da stupirsi, lavorando aThe Temple Bar, uno dei locali più famosi e visitati della metropoli. Con il suo stile rustico, ma allo stesso tempo funzionale, un semplice caffè americano costava quanto due espresso nei locali limitrofi.
Eppure lì dentro, quella mattina, sembrava estate, perchè l'aria calda del condizionatore mi avvolgeva il corpo facendomi sentire al sicuro dalla pioggia e dal freddo.

«Mi scusi, ci vuole ancora molto per il mio cappuccino?», quella richiesta, venuta da una voce roca e vagamente irritata, mi catapultò nella realtà con una velocità tale che mi fece sobbalzare. Mi lisciai il grembiule in cotone nero, per pulirmi le mani, e portai lo sguardo sulla persona che aveva interrotto il flusso dei miei pensieri.
Sorrisi, falsamente, perchè in quel lavoro la mia espressione doveva essere sempre la stessa, senza lasciar trapelare le mie vere emozioni. In quel momento cosa provavo? Nervosismo, dovuto al fatto che nessuno aveva rispetto del lavoro che svolgevo, a parte qualche rarissima eccezione.

Mi inumidii le labbra: «Si, mi scusi. Preferisce sedersi o lo prende al bancone?» Chiesi velocemente, cominciando a preparare il sotto tazza e il cucchiaino, un po' più grandi di quelli per il caffè. La risposta fu una semplice parola: "banco", perciò intuii che questa persona andava di fretta, così mi misi subito al lavoro nella preparazione del cappuccino all'italiana. Semplicemente una schiuma di latte vellutata, ma che non copriva completamente il colore dorato del caffè. Quando posai la tazza bollente sul piattino, provocai un rumore stridulo che infastidì il mio cliente. Infatti sentii il suo sguardo bruciarmi addosso, attirando di riflesso la mia attenzione.

Mi accorsi solo in quel momento di non aver mai visto quel ragazzo nel locale e, lentamente, portai lo sguardo prima sulla sua giacca di pelle - che non assorbiva le goccioline di pioggia, tant'è che scivolavano su di essa finendo a terra - e poi sui suoi occhi azzurri, molto simili ai miei, ma con le luci soffuse del locale mi sembravano blu notte. «Mi scusi» mi giustificai nuovamente senza nessun motivo apparente e ritornai nella mia posizione naturale. Distolsi lo sguardo da lui, riprendendo il mio lavoro in modo frenetico. Ero imbarazzata e decisamente più imbranata del solito, forse perchè percepivo ancora un paio di occhi addosso e non riuscivo a non sentirmi osservata e giudicata. Sentii la voce di quel ragazzo ringraziare e salutare, probabilmente aveva pagato alla mia collega ed era andato via. Finalmente potevo tornare a lavorare tranquillamente.

Dopo altre tre estenuanti ore di lavoro, il mio turno era ufficialmente terminato; servito l'ultimo cliente, uscii da quella gabbia che era il bancone per andare nella stanza che dava sul retro. Oltrepassai la cucina - dove altri colleghi stavano preparando stuzzichini caldi e qualche sfizioseria per la serata - ed entrai nello spogliatoio: esso era composto da un paio di armadietti sgangherati e un piccolo bagno con lavandino. Mi avvicinai proprio a quest'ultimo e sciacquai le mani per togliere lo sporco che mi avevano lasciato le banconote e le monetine, poi raccattai le mie cose e sfilai via il grembiule e la divisa, indossando i miei abiti giornalieri. Uscii dal locale dalla porta sul retro e fui subito investita dal freddo caratteristico di novembre, poi le mie Dottor Martens vennero a contatto con l'asfalto bagnato e mi resi conto che la giornata non poteva andare peggio. Alzai il cappuccio del giubbotto sulla testa e strinsi a me l'enorme sciarpa che indossavo, prima di cominciare a camminare tenendo lo sguardo basso in modo da poter guardare i miei piedi e cosa calpestavano, di certo non volevo finire in una pozzanghera.

Ero quasi arrivata alla fermata dell'autobus che mi avrebbe riportata a casa e non potevo esserne più contenta, perchè tutto quel gelo si stava insinuando nelle ossa. Stavo già pregustando la tazza di cioccolato che mi sarei preparata, quando il mio autobus arrivò e spalancò le sue porte a due ante, facendo scendere una ventina di persone circa. Quando avanzai di un passo per salire il gradino dell'autobus, una forte spallata mi fece indietreggiare e se non ci fosse stata tutta quella gente intorno a me probabilmente sarei caduta.

Brontolai qualcosa di incomprensibile e quando alzai lo sguardo su chi mi aveva spinta sentii un tuffo al cuore. Mi sbagliavo, la giornata poteva andare peggio, eccome.

FearlessWhere stories live. Discover now