Prologo

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«Congratulazioni» disse Namjoon, dando una pacca sulla spalla dell'amico.
Jackson fece un mezzo sorriso, come fosse soddisfatto di aver finalmente conquistato l'attenzione dell'altro ragazzo dopo aver sopportato il suo silenzio per così tanto. «Anche a te».
«Vorrei che le cose fossero andate in modo diverso... Bang era come un padre per i ragazzi dell'Istituto». Namjoon trangugiò mezza bottiglia di birra prima di prendere un lungo respiro e posare di nuovo lo sguardo sulla linea dell'orizzonte.
«E JB era come un fratello maggiore» sospirò Jackson. «A loro» aggiunse, avvicinando la propria bottiglia a quella di Namjoon. L'altro fece toccare i due corpi di vetro marrone. «Credi che il Clave ci aiuterà?»
«Il Clave» ripeté Namjoon con una risata rassegnata. Scosse la testa, non c'era bisogno di aggiungere altro.
«La guerra è finita, sarebbe ora di rivedere le proprie dannate priorità» sbottò altro. Un brivido gli percorse la schiena. Fece del proprio meglio per rimboccarsi il lembo della t-shirt nei pantaloni con una mano sola per evitare che un altro soffio dell'aria gelida dell'alba vi passasse al di sotto, ma non ebbe molta fortuna.
«La verità è che al Clave non interessa di noi, della Corea. Siamo solo un puntino in mezzo ai loro casini». Namjoon doveva essere davvero brillo per aver detto una cosa del genere ad alta voce. «Sono troppo presi dai loro soldatini in America... quel Jace Herondale e i suoi amichetti, sai...»
«Non si rendono conto di quel che è successo? Del vuoto di potere che si è creato? La città è in subbuglio, figurati il paese! Ho sentito di certi lupi nelle campagne che...»
«Non gli interessa, Jackson! Il sistema ha fatto il suo dovere, adesso l'Istituto ha un nuovo leader e anche il tuo branco...»
«E le vittime?»
«Un incidente di percorso. Roba che compete agli istituti». Namjoon guardò la propria bottiglia come fosse deluso di vederla vuota. «Diranno che Bang se l'è andata a cercare, che stava infrangendo la legge...»
«Stronzate» tagliò corto Jackson. «E dire che ad Hong Kong...»
«È la Pace Fredda, Jackson. Noi non dovremmo nemmeno frequentarci».
«Non sono mica un Seelie!»
«Ma sei comunque un Nascosto» sottolineò lo Shadowhunter.
Jackson buttò giù l'ultimo sorso di birra. Improvvisamente aveva un sapore disgustoso.
Namjoon gli fece un mezzo sorriso facendogli segno di buttare la bottiglia nella busta di plastica alle loro spalle. «Se qualcuno dovesse chiedere, diremo che questo era un meeting di lavoro» scherzò, ma nessuno dei due rise.
«Se dovessi avere bisogno di me, sai dove trovarmi» disse Jackson alzandosi. Si spolverò i pantaloni lì dove il cemento aveva lasciato delle tracce grigie e accennò un saluto militare all'altro ragazzo prima di avviarsi verso la porta del vano scale.
«Buona fortuna» sentì dire a Namjoon, quando ormai aveva sceso i primi due gradini. Probabilmente, se non fosse stato un lupo mannaro non l'avrebbe sentito. «Con il branco».
Jackson scese un altro gradino prima di convincersi a girarsi a guardarlo: Namjoon se ne stava ancora seduto dove l'aveva lasciato, sul cornicione del tetto del palazzo, con le ginocchia strette al petto e lo sguardo fisso sullo skyline di Seoul che si stava lentamente indorando alla luce del sole. «Anche a te» rispose.

«Svolta a destra» gli disse Jimin. Aveva una vecchia cartina spiegazzata stretta fra le mani e i capelli spettinati gli svolazzavano attorno al viso a causa del vento.
«Non posso svoltare a destra» gli rispose.
Taehyung stava guidando, Jimin gli sedeva accanto sul sedile passeggero. Tae l'aveva sgridato mille volte, ripetendogli di non mettere i piedi sul cruscotto, ma alla fine aveva ceduto per disperazione e, davanti alla testardaggine del suo parabatai, aveva smesso.
Il vento sferzava i loro visi: viaggiavano con i finestrini abbassati perché a Jimin piaceva mettere la mano fuori e muoverla lentamente, come per creare delle piccole onde nello spostamento d'aria generato dall'auto. Jimin aveva dita sottili, piene di piccole cicatrici, indurite dai calli creati dall'impugnatura della spada. Taehyung spesso le osservava mentre Jimin tamburellava sulle ginocchia mentre cantava in auto, seguendo le canzoni che si susseguivano in radio.
«Hai saltato la traversa! La cartina dice chiaramente che dovevamo svoltare a destra!»
«Quella cartina ha più anni di Matusalemme, può dire quel che vuole!» replicò Taehyung senza distogliere lo sguardo dalla strada dissestata. I cartelli stradali segnalavano pericolo di frane, passaggio di fauna selvatica e obbligo di catene in inverno; non c'era traccia di guardrail da chilometri ormai. Quella strada non gli piaceva per niente, lo innervosiva.
L'altro sospirò, ripiegando la cartina con uno sbuffo stizzito e rimettendola nel portaoggetti. «Accosta, continuiamo a piedi».
«Okay» acconsentì Taehyung, sollevando mentalmente gli occhi al cielo. Parcheggiò su un lato della strada sterrata, sollevando una nuvola di polvere giallastra.
Jimin scese e sbatté forte lo sportello dietro di sé, mentre Tae estraeva le chiavi e se le metteva in tasca. Lo sentì aprire il bagagliaio e tirare fuori l'armamentario, scese dall'auto in tempo per prendere al volo la spada angelica che gli aveva tirato e la infilò nella cintura delle armi.
Taehyung indossò la fondina dei pugnali; Jimin gli passò i mezzi guanti di pelle e legò la custodia delle proprie ssangdo alla vita, guardandosi attorno.
Il sole stava calando alla loro destra. L'erba giallastra intorno a loro, secca, arrivava alle ginocchia, in alcuni punti era stata calpestata. Nell'aria c'era odore di zolfo.
Taehyung richiuse il bagagliaio con un colpo secco, poi si piantò davanti a lui e iniziò a controllare che le cinghie del fodero, della cintura delle armi, della fondina dei pugnali che portava sotto la giacca della tenuta fossero legate in modo corretto, per assicurarsi che in caso di scontro non si staccassero, ferendolo o, peggio, lasciandolo disarmato. Le sue dita si muovevano veloci su di lui: conoscevano ogni centimetro. Jimin nel frattempo osservava le proprie mani fare la stessa cosa su Taehyung, automaticamente. Chiamavano questo loro piccolo rito G. S. C. S. O.: l'acronimo stava sia per "Guarda Sempre Come Siamo Organizzati" che per "Giacca, Schiena, Cintura, Stivali, Okay".
Ed eccolo, il pugno chiuso che segnava l'okay del suo parabatai. Jimin batté piano le nocche contro quelle di Taehyung, lui sorrise e fece strada verso la traversa in mezzo al nulla che avevano superato con l'auto. Era una strada chiusa, sterrata, che terminava con i ruderi di un casale: appariva come un cumolo scuro sullo sfondo fatto del terreno secco e del cielo sereno di agosto. Le pareti erano annerite, segni di un incendio. Sulla soglia polverosa si intrecciavano due pentacoli fatti di sale e sangue secco.
«Segni di un incantesimo» disse Taehyung. «È il posto giusto».
«Sarà meglio munirsi di marchi» gli rispose Jimin, rimboccandosi la manica della maglietta nera.
Taehyung estrasse lo stilo dalla cintura delle armi e iniziò a tracciare le dense linee nere sulla pelle del suo parabatai. Lui rabbrividì al contatto del metallo angelico con la sua pelle, ma non disse nulla, non faceva male: per quanto Taehyung fosse dotato della stessa delicatezza di un elefante africano, farsi marchiare dal proprio parabatai era quasi piacevole e lui aveva la mano ferma e precisa di un artista.
«Dovresti essere a posto» gli sussurrò quando ebbe finito di disegnare l'ultima runa.
Jimin non rispose, prese il proprio stilo e fece un cenno col mento. Taehyung si voltò e si sfilò la giacca della tenuta nera da cacciatore, lasciando la pelle delle spalle e degli avambracci libera perché lui potesse inciderla di rune di Forza, Precisione, Velocità.
«Fatto» disse Jimin.
Taehyung si risistemò la giacca e lo guardò in faccia con i suoi occhi decisi, lui annuì. Lo guardò tracciare una runa di Apertura sulla porta, che si spalancò. Nominarono le loro lame angeliche.
Li accolsero la puzza nauseabonda della putrefazione e il ronzio delle mosche. L'interno del casolare era buio, le finestra erano sbarrate. Jimin tirò fuori dalla tasca la sua strega luce e la fece divampare.
Erano in quello che doveva essere stato il soggiorno: uno spazio ampio, pavimento in parquet, quadri ad olio sulle pareti, un caminetto con la mensola piena di fotografie.
«Il sensore non rileva nulla» disse Taehyung, toccando il braccialetto d'argento che portava al polso sinistro.
«Nessuno mette piede qui da giorni» concordò Jimin, arricciando il naso.
Sul pavimento erano sparsi pezzi di vetro e grumi di sangue. I cadaveri giacevano uno di fronte all'altro: un uomo e una donna, sulla quarantina, con le mani protese come per cercare di toccarsi un'ultima volta.
«Guarda le loro braccia» disse Taehyung. Si inginocchiò accanto al corpo della donna e indicò i profondi tagli che le solcavano la pelle dai polsi ai gomiti. «Segni di difesa».
Jimin lo superò e andò a controllare il resto della casa: né il corridoio né alcuna altra stanza oltre all'ingresso dove giacevano i corpi mostravano segni di lotta o di infrazione. «Libero» urlò. «La facciata è bruciata, ma il resto della casa è intatto» aggiunse, tornando nell'ingresso.
Taehyung stava scattando fotografie con il cellulare ai segni sulle braccia delle vittime. «Ho contattato i Fratelli Silenti, fra poco saranno qui» gli disse.
«Bene» fece lui, continuando a guardarsi attorno. C'era troppa calma.
«È il terzo omicidio, Jimin» sospirò Taehyung, passandosi una mano fra i capelli con aria combattuta. «Stesso modus operandi». Se ne stava piegato sulle ginocchia accanto ai corpi come si farebbe per guardare un bambino piccolo negli occhi.
«Credi siano dei sacrifici?» gli chiese l'altro ragazzo.
«Non so cosa pensare, ma c'è uno schema sotto. Le vittime sono coppie che vivono in luoghi isolati...»
«Deve esser un serial killer» commentò Jimin, sarcastico. Tae lo fulminò con lo sguardo. «Dicevo tanto per dire!» si difese lui, con finta aria d'offesa, alzando le mani aperte e poi incrociando le braccia al petto.
Taehyung ruotò gli occhi e si tirò in piedi. «Perquisiamo il resto della casa».
Jimin si limitò ad annuire e farsi da parte perché lui lo precedesse nel corridoio. Lo osservò aprire uno per uno tutti i cassetti del comò della camera da letto padronale, rovistando nervosamente fra la biancheria, alla ricerca di qualsiasi cosa.
«Potresti dare una mano, invece di stare lì a guardare» commentò Taehyung acidamente. Era perfettamente consapevole del fatto che Jimin fosse dietro di lui, a braccia conserte, con le spalle poggiate al muro accanto alla porta.
Non era più lo stesso da quella sera: Jimin lo sentiva nella sua voce, nei suoi gesti, nella sensazione di freddo che avvertiva sotto lo sterno quando Tae lo guardava.
«Non ti sto aiutando perché qui non c'è niente da cercare» gli disse.
Era una camera ampia, con un grande armadio dalle ante a specchio che occupava l'intera parete sinistra, catturando lo sguardo di chiunque entrasse per la prima volta. Le pareti erano dipinte di uno scolorito color tortora, un lampadario di cristalli colorati pendeva sul letto rifatto e sormontato da un grande quadro, anche questo olio su tela, che raffigurava un mare in tempesta.
«Non puoi saperlo finché non provi» ribatté Taehyung, svuotando un cassetto sul pavimento. Qualcosa brillò e rimbalzò sul parquet con un suono metallico. «Una chiave».
«Potrebbe essere la chiave della catena di una bicicletta» osservò Jimin.
«Chi diamine terrebbe la chiave della catena della bicicletta in un cassetto del comodino?»
«Qualcuno che ama particolarmente la propria bicicletta» soppesò lui.
Taehyung lo guardò di traverso, contraendo i muscoli della mascella. «Qualcuno stava nascondendo questa chiave, vuol dire che apre qualcosa che non dovrebbe essere trovato».
«Ah, fantastico, ora dobbiamo solo provarla in ogni toppa in cui imbattiamo finché non troviamo quella giusta!»
Taehyung lo stava magistralmente ignorando, troppo impegnato a osservare la propria scoperta: una chiave piccola e sottile. «Potrebbe aprire una cassetta di sicurezza» concluse. «Passami la tua stregaluce» disse poi, allungando una mano aperta. Jimin gliela lanciò e Taehyung la prese al volo senza nemmeno guardarlo.
Jimin lo guardò girare per la stanza, illuminando gli angoli più bui. Qualcosa riflesse un raggio emesso dalla stregaluce. Gli occhi di Taehyung saettarono in giro per la camera, fermandosi su una fotografia scolorita sul comodino che non aveva ancora perquisito, dalla parte opposta del letto.
Il ragazzo saltò sul letto, si allungò ad afferrare la cornice di legno e la scaraventò a terra, mandandola in pezzi.
«Che diamine stai facendo?» gli urlò Jimin, anche se avrebbe preferito non suonare così sorpreso.
Taehyung estrasse la fotografia dai frammenti di legno e la sollevò: ritraeva un uomo e una donna che ridevano, ora erano morti nell'atrio della loro casa.
Mise la foto controluce, rivelando una scritta nascosta. Quasi ghignò. «C'è una filigrana».
Jimin lo raggiunse a grandi passi dall'altra parte della stanza e gli strappò la fotografia dalle mani per osservare il messaggio: «1-2-3-0-19-9-5» lesse.
Taehyung si riprese la foto, la piegò in quattro e la mise nella tasca interna della giacca delle sua tenuta. «È una combinazione». Jimin vide lo sguardo del suo parabatai salire sul quadro.
«Oh, andiamo! Non crederai davvero che lì dietro ci sia una cassaforte?»
Ancora, Taehyung gli sorrise e ripeté: «Non puoi saperlo finché non provi». Si mise in piedi sul letto, macchiando le lenzuola bianche con gli anfibi sporchi di terra e sangue. Lo guardò con gli occhi castani che brillavano di eccitazione. «Aiutami!»
«Non ci credo che sto per farlo» sospirò lui. Salì sul letto e prese l'angolo in basso a destra del quadro, Taehyung prese quello a sinistra.
Lo guardò negli occhi. Eccolo lì, di nuovo il Taehyung che conosceva: geniale a volte, altre completamente folle, positivista a modo suo.
Taehyung aveva lo stesso sguardo ubriaco di emozioni la prima volta che l'aveva visto, in Accademia, quando Jimin era ancora un mondano, un membro della feccia, e lui era uno Shadowhunter dell'èlite, il discendente dell'antica famiglia Kim.
«Al mio tre» gli disse Taehyung. «Uno, due... tre».
Il quadro si staccò dalla parete sollevando una nuvola di polvere. Lasciarono cadere la pesante cornice dorata sul materasso, rivelando la porta di una piccola cassaforte a muro. Jimin inserì la combinazione e l'aprì: conteneva un mucchio di documenti.
«Carta straccia» commentò il ragazzo prendendo fra le mani la pila di fascicoli di carta ingiallita.
«E la cassetta da aprire con la chiave!» sottolineò soddisfatto Taehyung. Tirò fuori il parallelepipedo di metallo coperto di polvere che giaceva sul fondo della cassaforte, inserì la chiave nella piccola toppa e fece scattare la serratura. «Uno stilo?»
Jimin osservò l'oggetto contenuto nella cassetta con tanto d'occhi. Era adamas, non c'era dubbio, s'illuminò debolmente quando Taehyung ci fece passare le dita sopra.
«C'è qualcosa scritto sul fondo della cassetta» notò Jimin. Taehyung gliela passò e lui seguì le linee dell'incisione con le dita.
Taehyung gli fece luce, impaziente: «Cosa c'è scritto?»
«Non riconosci questo hanja?»
Taehyung scosse la testa. «Cosa significa?»
«Oro» rispose Jimin. Taehyung fece spallucce.
Jimin non aveva idea del perché quel carattere fosse lì e in quel momento non gli importava, ma... Tae non aveva riconosciuto il carattere del nome della sua famiglia.
Taehyung riprese i documenti e si sedette sul letto a gambe incrociate, sparpagliando i fogli sulle lenzuola macchiate, ma dopo qualche secondo di osservazione sbuffò: «È inutile, è tutto in mandarino, non ci capisco niente».
Jimin radunò i documenti e gli diede una pacca sulla spalla. «Prendiamo tutto e andiamo via» gli disse. «Non mi piace qui».

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