Your eyes are my shelter

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La bellezza di più di centocinquanta giorni passarono prima che Harry e i suoi amici se ne potessero rendere conto. Il tempo scorreva veloce tra i bambini e tra i loro sorrisi.

Ogni giorno era una continua lotta per aiutarli ad afferrare la vita che si meritavano.

Cinque mesi, d'altronde, passano velocemente quando il cielo sembra averti regalato delle persone così belle e quel paio di occhi in cui rifugiarti ogni volta che senti di perdere il controllo.

Ma a volte il tempo sembra sempre passare troppo lentamente quando ti svegli di notte, nel bel mezzo di un incubo e tutto ciò che vedi è oscurità, tutto ciò che senti è quel vecchio bisogno di scappare e di staccare la spina, di dimenticarti del male di cui il mondo è capace; puoi scappare, puoi cercare di sfuggirgli per tutta la vita, ma una volta intrapresa questa carriera non potrai mai scordartene, quelle immagini diventano parte di te proprio come lo diventano i sorrisi innocenti dei bambini.

Si alzò dalla sua branda e si guardò intorno.

Niall dormiva profondamente, esausto quanto lui. Il suo respiro pesante scandiva il tempo ad intervalli regolari. Sentì il bisogno di aria, di liberarsi di quelle mura.

Si infilò gli scarponcini e si strinse nel giaccone prima di uscire dal complesso che li ospitava.

Quando passò davanti alla camera di Louis e Zayn si preoccupò di fare ancora meno rumore, quasi trattenne il fiato per la paura di svegliare soprattutto quegli occhi color cielo e di essere sorpreso un'altra volta nel panico.

Louis era spaventoso, lo diventava sempre di più, giorno dopo giorno. Riusciva a capirlo e a leggerlo con una facilità inaudita, bastava un'occhiata per calmarlo, una pacca sulla spalla per convincerlo che sarebbe andato tutto bene.

Dopo il primo giorno con Baba, Harry aveva cominciato a prendere sempre più dimestichezza con i bambini, aveva imparato ad approcciarsi, a sorridere di più, ad asciugare le lacrime, a suturare la loro anima più che le loro ferite. Ma c'era una cosa che Harry ancora non aveva imparato a fare, ed era sicuro che non ci sarebbe mai e poi mai riuscito: dire a un genitore che non c'era più speranza, che quella vita che avevano difeso per anni mettendo a rischio la propria era stata stroncata da una malattia, da una pallottola, da qualsiasi cosa.

Se ne era reso conto proprio quel giorno quando la malaria aveva avuto la meglio su Tomi, il bambino che lui e Niall seguivano da un mese. Non erano riusciti a salvarlo, in due non avevano potuto che allerviargli la morte. Una vita quel giorno si era stroncata tra le sue mani a solo cinque anni. Non aveva pianto Harry, non se ne era sentito degno.

Semplicemente non riusciva a parlare e Niall aveva subito capito che sarebbe toccato a lui dirlo alla mamma del bambino, stringerla forte per impedirle di accasciarsi a terra e farsi male.

Ma le urla della donna non erano sfuggite alle orecchie di Harry, le sentiva ancora forti e chiare rimbombargli non nel cervello ma nel cuore. Aveva stretto i capelli tra le mani, si era morso le labbra e aveva impedito agli occhi di bagnarsi per l'ennesima volta.

Si era poi riavvicinato al lettino, aveva carezzato dolcemente la testa del bambino, perso le dita tra i capelli scuri e "Scusa" aveva detto con voce roca, alle soglie del pianto, ormai dentro alla sensazione di fallimento "Scusa se non sono stato abbastanza" aveva precisato prima di coprire il corpo oramai senza vita con un lenzuolo bianco, leggero.

Si era preso cinque minuti, solo cinque minuti, era il massimo che poteva avere.

Si era rifugiato nella jeep e aveva tenuto lo sguardo fisso davanti a se' per tutto il tempo, anche non vedendolo riusciva a sentire quegli occhi azzurri addosso quasi carezzarlo.

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