Epilogo

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EPILOGO

Blackbird singing in the dead of night
Take these broken wings and learn to fly
All your life
You were only waiting for this moment to arise

The Beatles – Blackbird

Merlo che canti nel cuore della notte
Prendi queste ali rotte e impara a volare
Per tutta la tua vita
Stavi solo aspettando questo momento per sorgere

The Beatles - Blackbird 

Settembre 2034

 
Desdemona sedeva su un masso, con la schiena appoggiata al tronco di un albero. Il sole era sorto da poco e avrebbe potuto udire i suoni della natura che si risvegliava, selvaggia e indisturbata in quel fitto bosco, ma era troppo impegnata ad affilare la lama della sua sciabola con una pietra.
La faceva scorrere in avanti, seguendo la linea del filo e provocando un lungo stridio metallico che spezzava la quiete di quel luogo.
Desdemona appoggia lo zaino sul letto, pronta per la partenza.
Dopo quello che è accaduto, Damian le ha permesso di restare per rimettersi in forze, ma sono già passati due mesi e lei inizia a sentirsi di troppo.
Alza gli occhi a guardare il ragazzo, steso nel letto.
Indossa solo un paio di boxer aderenti, mostrando senza pudore quel corpo magnifico; tiene le mani dietro la testa, sollevando quei boccoli rossi come una criniera, attorno a quel viso bellissimo.
Gli ultimi mesi trascorsi con lui sono stati un idillio, ma entrambi sapevano che non sarebbe durata.
Hanno tenuto fede alla parola che si erano dati, sono usciti insieme e si sono divertiti, ma ora Desdemona sa che è arrivato il momento di andarsene: non è pronta a rinunciare alla propria libertà per lui. Né per nessun altro.
«Sei sicura di quello che stai facendo?» le chiede, grattandosi la pancia.
Desdemona sospira e tira i lacci dello zaino, che si chiude con un sibilo.
«Devo tornare dalle Amazzoni, Ish. Voglio riprendere la mia vita da dove l’ho lasciata.»
«Va’ pure» commenta lui, alzando le spalle, «Ma sai già che ti mancherò e fra una settimana sarai di nuovo qui.»
«Nonostante il tuo pene mi piaccia molto» lo sfotte, chiudendo i bottoni dello zaino, «Trovo che il suo proprietario sia arrogante e a tratti insopportabile, quindi no, non mi mancherai.»
Lui si morde il labbro inferiore.
«Ah» gongola, stringendosi il pacco con una mano, «E dimmi, quanto ti piace il mio pene?»
Lei ride e solleva un cuscino.
«Sei davvero un deficiente, Ish» lo insulta, tirandoglielo in faccia. Lui si solleva, schivandolo, e l’afferra per la vita, tirandola sul letto con sé.
Desdemona si ritrova stesa accanto a lui e dischiude le labbra quando il Maximo la bacia.
Neesha le accarezza il viso con la punta delle dita e le sorride.
«Tu, invece» mormora, «Mi mancherai, leanbh
Lei inclina la testa, con un’espressione disincantata.
«No, non è vero. Non appena avrò varcato i cancelli della Baita starai già scopando con qualche ninfa e le avrai giurato amore eterno.»
Lui alza le spalle.
«Ho detto che mi mancherai, non che farò voto di astinenza.»
Lo colpisce con una manata sul petto e lui ride, stringendola ancora e baciandole una tempia.
Desdemona si lascia coccolare da quel corpo che ha saputo tenerla al caldo nelle ultime settimane ed è pervasa da un moto di malinconia.
Le piacerebbe credere che tra loro potrebbe funzionare in qualche modo, ma è cresciuta abbastanza da aver superato la fase adolescenziale in cui sentirsi la crocerossina di un uomo.
Neesha ha fin troppi problemi: è alla ricerca disperata di qualcuno che lo ami e si lega con facilità a chiunque gli mostri un minimo di affetto. Una parte di lei vuole credere che ci sia davvero qualcosa di speciale tra loro, ma l’altra parte, quella razionale, sa bene che non può rinunciare a tutto, non può mandare a monte la sua vita e rinunciare a capire chi sia solo per una sciocca fantasia priva di fondamento.
In fondo, Neesha non l’ama davvero, ma ha soltanto bisogno di lei, proprio come ne aveva avuto bisogno Argo.
Rimane stretta nel suo abbraccio, con la testa sul suo petto, ascoltando il battito del suo cuore e, Dèi, non vuole lasciarlo andare.
Non le è mai capitato di stare così bene con qualcuno, di sentirsi così… in pace.
Oh, maledizione, lei non può lasciarsi andare a tanta disperazione, deve trovare un modo per reagire e tornare alla propria vita.
«Io tornerò dalle Amazzoni e chissà tu quante donne incontrerai» gli dice, «Chissà di quante altre ti innamorerai.»
Neesha le bacia la tempia.
«Nessuna sarà mai come te, leanbh
Desdemona respira piano e si solleva su un gomito, allontanandosi da lui. È già così difficile doversene andare, perché lui non rende le cose più semplici? Perché non può trattarla come una delle tante?
«Perché mi parli in questo modo?» gli chiede, «Non siamo myssi, non puoi essere così preso da me.»
Si aspetta di innervosirlo, in un riflesso delle proprie sensazioni, invece Neesha le sorride.
«Credi che solo due myssi possano amarsi?» le chiede, «Io non posso scegliere di chi innamorarmi, capita e basta. A volte è la persona giusta, altre volte non lo è, ma non è mai un errore.»
Lei scruta il suo viso, cercando segnali di menzogna o di ironia, ma non ne trova: lui è sincero, crede davvero nelle proprie parole.
«Quindi» lo incalza, «Secondo te sarebbe una buona idea restare insieme?»
Neesha ridacchia e scuote la testa.
«Leanbh, io non ti farei lasciare questo letto per niente al mondo, ma tu non hai ancora capito chi sei e restare qui sarebbe il tuo sbaglio più grande.»
Lei stringe le labbra e annuisce piano: allora ha ragione, andare via è la soluzione migliore.
Lui si siede e le prende il viso con una mano.
«Ascoltami bene» mormora, «Ho mantenuto sempre la parola con te, perciò non voglio dirti bugie», le accarezza i capelli, portandoglieli dietro l’orecchio, «Non so se ci rivedremo mai, ma se dove accadere, se il Fato dovesse metterci di nuovo sulla stessa strada, allora io ti giuro sul mio onore che farò tutto quello che è in mio potere per non lasciarti mai più andar via.»
Lei si morde il labbro inferiore, sentendo gli occhi pizzicare. Deve combattere contro se stessa per non lasciarsi andare alle lacrime.
«Quante probabilità ci sono?» gli chiede, «Una per i trent’anni che forse riuscirò a sopravvivere?»
Anche lui sa che sarà impossibile.
Desdemona non è una vera Amazzone e non appartiene al mondo degli Dèi, ma non è neanche una mortale: è solo un incidente di percorso nel ciclo riproduttivo della Regina degli Dèi.
Non appartiene a nessuno dei due mondi e lui, invece, è immerso fino al collo in quella realtà.
Sorride, tentando di sdrammatizzare.
«È come vincere alla lotteria.»
Lei inarca un sopracciglio, ironica.
«E tu saresti il premio?»
Le prende una mano, portandosela alle labbra, e ne bacia il palmo.
«La mia devozione per te lo sarebbe» mormora.
Desdemona chiude gli occhi per un istante.
Dèi, perché deve essere così difficile?
«Sarebbe bello.»
«Non perdere le speranze, leanbh
Lei scuote la testa, guardandolo di nuovo. È così bello, il suo guerriero.
Quello che hanno condiviso, breve e intenso, le rimarrà dentro per il resto della vita e sarebbe bello poter credere che lui la vorrà ancora, che non la dimenticherà.
«Mi vorresti davvero, anche con questo viso sfregiato?»
Neesha accarezza con la punta dei polpastrelli la lunga cicatrice che le attraversa il viso. Dove la lama l’ha incisa, la pelle è sollevata e arrossata: dalla punta del mento fino alla tempia, lasciando un segno orrendo e indelebile. Forse si schiarirà con il tempo, ma non andrò mai via, rimarrà lì per sempre, a memento del fatto che nessuno può sfidare gli Dèi.
Eppure, Neesha non ci fa più caso.
«Io ti voglio sempre, Dez» le dice, «Damian ti avrà anche lasciato una cicatrice, ma ogni volta che ti guardo, ti vedo ancora più bella della stessa Afrodite.»
Era passato più di un anno da quel momento.
Non aveva più avuto modo di incontrare Neesha e, a quel punto, era certa che non si sarebbero mai più rivisti. Una parte di lei, comunque, l’aveva sempre saputo; il figlio di Eros non era il suo myssi ed era sciocco credere che per loro ci sarebbero mai state delle speranze. L’aveva amato, anche se per poco, e doveva accontentarsi di ciò che era riuscita ad avere da lui.
L’amore eterno era riservato solo a chi viveva nell’Ektel, tutti gli altri dovevano accontentarsi di fugaci attimi di felicità.
Desdemona avrebbe ricordato le settimane trascorse con Neesha per il resto della sua vita, perché lui, insieme a suo fratello e Argo, erano stati la chiave che l’aveva aiutata a comprendere chi fosse davvero.
Ruotò la sciabola e si specchiò nel riflesso dell’acciaio tirato a lucido: la cicatrice ora era più chiara, con un contorno ben definito. Guardarla, non le faceva più tanto male come prima. 
Non lo avrebbe mai ammesso, ma una parte di lei, quella più femminile, amava il proprio riflesso e sentiva una fitta allo stomaco ogni volta che guardava il modo in cui era stato sfigurato il suo viso. Tuttavia, non avrebbe mai ringraziato abbastanza il Principe dei Guerrieri per averle salvato la vita con quello stratagemma.
Quella cicatrice era il simbolo di ciò che era e di ciò che sarebbe sempre stata. 
Nikandros siede accanto a lei intorno al fuoco: sono accampati poco lontano dal territorio delle Amazzoni, dove lui la sta riaccompagnando.
Desdemona osserva il fratello, illuminato dalla fiamma: indossa una t-shirt a mezze maniche che gli scopre le braccia e lei può vedere tutti i suoi tatuaggi. Abbassa lo sguardo sui propri, che le ricoprono la pelle dai polsi alle spalle, proprio nello stesso identico modo.
A un osservatore esterno non sembrerebbero mai fratello e sorella: né i loro lineamenti, né la corporatura si assomigliano in alcun modo, eppure hanno più cose in comune di quanto appaia. Quella necessità di non dimenticare, di imprimere i ricordi importanti sulla pelle per portarli sempre con sé, è solo un primo indizio.
«Sai» inizia lei, stringendosi il plaid sulle spalle, «Credo di non averti mai chiesto scusa.»
Nikandros aggrotta le sopracciglia, mentre con un lungo bastone sistema i rami e le foglie che hanno usato per accendere il fuoco.
«Per cosa?»
Desdemona alza gli occhi al cielo, guardando senza vederlo il tappeto di stelle che è sopra la loro testa.
«Mi dispiace per tutte le cose orribili che ti ho detto a Berdjans’k.» Si china di lato, posando il capo sulla sua spalla, «Tu ti sei sempre preoccupato per me e io non ho voluto vederlo.»
Nikandros le circonda le spalle con un braccio e le posa un bacio sulla testa, respirando il suo profumo.
«Non importa» le dice, «È acqua passata.»
«Tu sei l’unico che mi abbia mai voluto bene davvero, senza chiedere niente in cambio. Non avrei dovuto allontanarti.»
Nikandros si tira indietro, quel tanto che basta per guardarla.
«Non sarò più così lontano» le promette, «Ci sentiremo sempre e, ogni volta che potrò, verrò a trovarti.»
Lei sospira e scuote la testa, incredula.
«Perché sei così buono?» gli chiede, «Io sono stata una stronza con te e tu, invece, non hai esitato un momento quando si è trattato di aiutarmi. Come fai ad essere così?»
Nikandros abbassa lo sguardo sul terreno per un momento, riflettendo.
«Non è facile da spiegare» ammette.
Lui è un Maximo, non è molto bravo con le parole, ma vuole che sua sorella sappia quello che prova.
Allora sfodera un pugnale dalla cintura e si infligge un lungo taglio sul palmo della mano.
Il sangue inizia a scorrere subito, rosso e denso, e lui prende la mano della sorella; incide anche il suo palmo, in modo più leggero, e Desdemona sussulta.
«Che cosa stai facendo?»
Nikandros avvicina le loro mani ferite una accanto all’altra.
«Lo vedi?» le chiede, «Il nostro sangue è identico. Noi siamo figli di Era, siamo fratello e sorella, e questa è l’unica verità che non potrà cambiare mai.»
Desdemona osserva il loro sangue scivolare sulla pelle, lungo i palmi inclinati, e mischiarsi in gocce dello stesso colore.
«Io e te» continua suo fratello, «Siamo nati per proteggere e servire coloro che amiamo e, quando riuscirai a comprenderlo, troverai la tua strada e la tua vita avrà finalmente un senso.»
Prende la sua mano e se la posa sul petto, incurante di sporcare la maglia con il suo sangue.
«Fino a quel momento, qualunque cosa accada, io mi prenderò sempre cura di te, Dez
Lasciare suo fratello e tornare dalle Amazzoni era stato straziante, ma Desdemona sapeva di doverlo fare.
Nonostante non fosse un vero addio, ora che l’aveva ritrovato sapeva che quel fratello le sarebbe mancato tantissimo.
E così era stato per tutto quel tempo.
Le Amazzoni l’avevano riaccolta con tutti gli onori: credevano tutte che lei fosse morta e il suo ritorno fu festeggiato come una miracolosa resurrezione.
Desdemona era tornata alla sua vita, ma qualcosa era cambiato per sempre e lei non poteva ignorarlo.
Dopo tutto quello che era accaduto, quello che aveva dovuto affrontare, era impossibile tornare ad essere quella di prima.
Durante ogni battaglia, in quell’ultimo anno, durante ogni scontro, aveva sentito il sangue di sua madre scorrerle nelle vene. Il potere divino della Regina degli Dèi infondeva nuova forza al suo corpo, la sosteneva e la animava in un modo che lei non avrebbe mai creduto possibile.
Sentiva la sua dinastia ruggire e graffiare attraverso il suo corpo, la sentiva prendere il controllo della sua vita.
Ripose la pietra che stava usando in un sacchetto e lo infilò nello zaino, appoggiato accanto a lei. Poi puntellò la sciabola a terra e si alzò in piedi.
Lei non era un’umana e non era neanche un’Amazzone. Il sangue di Era che le scorreva nel corpo era identico a quello di suo fratello e la rendeva una guerriera.
Argo la stringe tra le braccia, mentre sono stesi nel letto. Fuori imperversa il diluvio e Desdemona sussulta a ogni tuono.
«Sta’ tranquilla, piccola mia» le dice, «Sono solo fulmini.»
«È la collera di Zeus» risponde lei, alzando il viso a guardarlo, «E se anche lui mi stesse cercando?»
Argo le sorride: al buio lei non può vedere i suoi denti marci, ma sente le ciglia degli occhi che ha sul petto sfiorarle le guance.
«No, non è opera di Zeus, è solo un temporale. A volte, la natura fa il suo corso senza l’intervento degli Dèi.»
Lei, però, scuote la testa e la posa di nuovo sul suo petto.
«No, non è vero. Gli Dèi decidono ogni cosa.»
Argo le carezza i capelli e la stringe. È così piccola, la sua bambina, così spaventata.
«Credimi, Dez, a te non succederà niente.» Le posa un bacio sulla testa, «Tu sei una sopravvissuta, piccola mia. Sei venuta al mondo quando saresti dovuta morire, sei viva nonostante l’odio di Afrodite, tu sei nata per resistere e sopravvivere.»
«Se tu non mi avessi risparmiato, sarei morta» obietta lei, «Non sono una sopravvissuta, sono solo fortunata.»
Argo sorride ancora e appoggia il mento sulla sua testa.
«Discendi dall’Olimpo, Dez. Non c’è niente che tu non possa fare, se lo desideri davvero.»
Argo aveva ragione.
All’epoca, lei era troppo ingenua per poter comprendere fino in fondo le sue parole, ma ora, finalmente, sapeva bene cosa volesse dire.
I suoi passi nel bosco erano silenziosi, perché le Amazzoni l’avevano addestrata a essere invisibile, ma in quel momento non le importava di passare inosservata.
Quando la raggiunse, sentì un moto di rabbia riempirle lo stomaco e infuocarle il petto.
Una donna aveva un cappio intorno al collo, ancorata al ramo più basso di un alto albero. Era in piedi, con i polsi legati dietro la schiena. Tutto intorno a lei, bastoni appuntiti ben piantati nel terreno le impedivano di spostarsi da quella posizione rigida: aveva spazio a malapena sufficiente per allargare di poco le gambe.
Il suo viso era coperto da un cappuccio di spessa pelle nera, che non le permetteva di distinguere il giorno dalla notte.
Desdemona la teneva in quel modo da cinque giorni. Avrebbe dovuto portarla subito all’accampamento delle Amazzoni, ma aveva preferito prendersi qualche momento per sé.
Quando si avvicinò, la donna sentì la sua presenza e incominciò a tremare.
«Sei tu?» le chiese.
Desdemona si fece roteare la sciabola nella mano, provocando un sibilo nell’aria.
«Certo non sono qualcuno che è qui per salvarti» le rispose.
Nonostante non le fosse vicinissima, sentì lo stesso lo stomaco della prigioniera che brontolava per la fame: non le aveva mai permesso di mangiare da quando l’aveva presa con sé. E, gli Dèi le erano testimoni, non glielo avrebbe permesso fin quando non fossero state le Regine delle Amazzoni a ordinarle di nutrirla.
Un mugolio di dolore sfuggì dalle labbra della ragazza, quando le sue ginocchia cedettero per la stanchezza: se si fosse chinata, anche solo per riposarsi, sarebbe soffocata per via del cappio.
«Perché mi fai questo?» lamentò, «Io sono come te, non dovresti torturarmi.»
Desdemona si avvicinò di scatto e spinse la punta della sciabola contro la bocca del suo stomaco, facendola raddrizzare e ottenendo una guaito di terrore.
«Noi non siamo uguali» ringhiò, «E non osare neanche ripeterlo. Preferirei essere morta che essere simile a te.»
La sentì singhiozzare, sotto il cappuccio di pelle, ma non si mosse a compassione.
«Io non volevo fare del male a nessuno» pianse lei.
«Ma l’hai fatto» insisté Desdemona, spingendo la lama contro il suo stomaco, «E ora devi scontare la tua punizione.»
Di colpo, la prigioniera si raddrizzò e gridò:
«Neanche a te importava niente! Se fosse stato così, allora ci saresti stata! Non è giusto che tu…»
Non terminò la frase, perché Desdemona sollevò l’arma e la colpì in viso con l’elsa. La prigioniera cadde di lato, battendo il fianco contro le punte affilate dei bastoni. Il legno le si conficcò nella carne e lei gridò dal dolore, continuando a singhiozzare.
«Non osare rispondermi» sibilò, «O inizierò a farti male sul serio.»
La ragazza dovette raccogliere tutte le poche forze che le rimanevano per raddrizzarsi di nuovo: i bastoni ora erano sporchi di sangue e lei aveva ferite aperte sull’anca e la spalla.
«Chi sei?» balbettò, «Chi credi di essere per potermi fare tutto questo?»
Senza volerlo, Desdemona si ritrovò a sorridere. Perché aveva dovuto attraversare l’inferno, ma finalmente sapeva rispondere a quella domanda.
«Sono figlia di Era, la Regina dal trono d’oro, protettrice del matrimonio e del sangue. E, proprio come mia madre, ti porto la punizione per aver disonorato un legame tanto importante come quello della famiglia.» Inarcò un sopracciglio, «Con una certa rivisitazione personale dei suoi metodi, come puoi intuire.» Si avvicinò alla prigioniera e le afferrò la testa, costringendola a piegarla all’indietro, «Quello che stai passando è solo un briciolo di quello che hai fatto loro, perciò, invece di lamentarti, ringrazia la mia clemenza.»
La lasciò andare e la ragazza barcollò per cercare di restare in equilibrio e non sbattere contro gli altri pali appuntiti.
Desdemona le puntò la sciabola sotto la gola e sorrise di nuovo.
«Vedo che non hai ancora compreso la gravità delle tue azioni, perciò ti lascerò ancora per un po’ qui a riflettere.»
La prigioniera singhiozzò tanto forte che le sue spalle si scossero e Desdemona le voltò le spalle, tornando verso il proprio giaciglio.
Ci era voluto del tempo ma alla fine aveva capito che non importava chi fosse, perché non voleva essere umana o una semidea, né un’Amazzone o un Maximo. Non aveva bisogno di appartenere a nessuna categoria.
Era figlia della Sovrana degli Dèi, in lei scorreva il sangue dei Titani, era pura potenza in divenire. Come una strada che poteva essere salita e discesa nello stesso momento, lei era un composto di opposti che convivevano nella medesima entità.
Era umana e divina, era un guerriero e una donna.
Perciò, a differenza di chiunque altro, lei poteva scegliere.
E aveva scelto di essere semplicemente se stessa, senza appartenere a nessuno.
Avrebbe vissuto la sua vita seguendo il proprio cuore e, magari, un giorno, sarebbe riuscita ad essere felice.
Di sicuro, suo fratello aveva avuto ragione: Desdemona era nata per servire e proteggere coloro che amava e, in nome degli Dèi, lo avrebbe fatto finché avrebbe avuto respiro.

L'incanto di AfroditeWhere stories live. Discover now