Capitolo 1

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Aprile 2033

Non importava quale fosse la stagione, né se fosse in programma una serata particolare: il Drink Up era sempre stracolmo di gente.
Noah aveva pensato che fosse per via dello scarso intrattenimento in una città piccola come San Lorenzo, ma ultimamente aveva ideato una nuova teoria: gli umani andavano sempre dove era più facile ammazzarli.
Riusciva a immaginarseli, mentre parlavano tra loro per decidere cosa fare.
Ehi, c’è un locale gestito da Satiri, che di certo sarà pieno di demoni in incognito pronti a stuprarci, divorarci o bere il nostro sangue! Dobbiamo andarci!
Che stupidi incoscienti.
Posò la Redbull sul tavolino, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia: quel divanetto era scomodissimo.
E comunque, riflettendoci meglio, sarebbe potuto essere vero anche il contrario. Era più probabile che fossero i demoni a frequentare i luoghi affollati dalle loro prede.
Tuttavia, preferiva convincersi della stupidità degli umani: era più motivato a proteggerli, se li credeva ingenui.
Quei piccoli, deboli, portatori di caos.
Spostò lo sguardo sulla folla che ballava, di fronte alla postazione del dj: erano ubriachi, si strusciavano uno sull’altro, in cerca di emozioni.
Un moto di invidia gli salì dallo stomaco.
Quegli stolti non sapevano apprezzare l’impagabile normalità delle loro vite. Volevano di più, bramavano il brivido, l’adrenalina… e finivano sempre per farsi ammazzare dal demone di turno.
Bevve un altro sorso di Redbull.
Se lui avesse potuto scegliere, se fosse sopravvissuto fino ai sessant’anni per ritirarsi e vivere una vita da umano… beh, avrebbe condotto un’esistenza serena. Nessuna guerra, niente adrenalina, nessun tipo di sconvolgimento.
Solo la pace, i suoi amati trenini elettrici e una casa isolata in cui attendere la morte.
Bevve ancora, scolando quel che restava della lattina, e subito ne aprì un’altra.
Per il momento, però, doveva accontentarsi della sua vita così com’era.
E dei fratelli che si ritrovava.
Tra la folla di umani, spiccavano due teste rosse. Neil e Neesha erano avvinghiati a delle ragazze e ballavano come se non avessero una missione più importante da compiere.
Tuttavia, non erano soltanto i suoi gemelli ad amare il divertimento: Nikandros si stava avvicinando al tavolo, tenendo un braccio intorno alle spalle di una paffuta biondina.
Il figlio di Era indossava solo abiti di pelle, come se i tatuaggi che lo decoravano dal collo fino alla punta delle dita non fossero già abbastanza minacciosi. La sua stazza era inquietante: alto un metro e novantacinque, largo come un armadio a doppia anta e con la muscolatura di un toro. I capelli castani gli arrivavano alle spalle, ma lui li teneva sempre legati in una coda bassa.
Aveva lineamenti decisi, che avrebbero reso il suo viso armonioso, se non li avesse nascosti dietro quella lunga e folta barba, rendendosi simile a un pericoloso gladiatore.
Quando sedette, il divanetto emise uno scricchiolio sofferente. Piazzò una mano sulla schiena di Noah, con tanta forza da fargli rovesciare qualche goccia di Redbull.
«Allora, Noia» esordì, «Notato niente?»
«Tutto nella norma» rispose l’altro, tamponandosi la maglia con una mano e spargendo la macchia ancora di più.
La bionda, seduta accanto al Maximo, rise, portandosi i capelli dietro l’orecchio.
«Come l’hai chiamato?» chiese.
Nikandros le rivolse un sorriso, prendendole la mano.
«Lui è Noia» le disse, «Lo chiamano così per ovvi motivi», poi si rivolse al compagno, «E lei è Lisa.»
La ragazza tese la mano verso di lui, ma Noah si limitò a guardarla con sufficienza e portarsi alle labbra la lattina.
Risentita, lei curvò la bocca in un broncio e Nikandros rise.
«Perdonalo» le disse, «È scontroso, ma è un bravo ragazzo.»
Le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé con tanta foga, che persino Noah fu attratto da quei grossi seni che dondolavano.
La scollatura profonda, poi, non lasciava molto all’immaginazione.
Lisa ridacchiò, lusingata dalle attenzioni del Maximo, e quando Nikandros le prese il viso, affondando senza delicatezza la lingua nella sua bocca, Noah trattenne un moto di disgusto e riprese a scrutare la sala.
Nikandros era uno dei guerrieri più anziani del Khrathos. Serviva il Principe da oltre vent’anni e non aveva mai perso una battaglia. Dove altri avevano trovato la morte, lui aveva sempre raccolto gloria.
Come Era, sua madre, aveva un’indole burrascosa, ma la sua rabbia era tanto impietosa quanto breve. Non era capace di serbare rancore, perché dietro quell’ira facile, si nascondeva un uomo buono, generoso e leale.
L’umana che stava baciando, però, non aveva idea di quale bestia stesse per risvegliare.
Prese tra i denti il labbro inferiore del Maximo e spinse le unghie nella sua coscia: lui riuscì a sentirle, nonostante i pantaloni di pelle.
«Smettila» ringhiò sulle sue labbra, «Se lo fai ancora, ti prendo qui, davanti a tutti.»
Lisa sorrise e risalì con le unghie sul suo ventre.
«Allora» suggerì, «Portami dove possiamo sentirci più liberi.»
Afferrò la sua lunga barba e lo tirò a sé, catturando le sue labbra in un bacio.
Nikandros le strinse una coscia e la tirò, fino a farla salire a cavalcioni sulle proprie gambe.
Noah, infastidito da quello spettacolo, roteò gli occhi.
«Il privè è libero» gli disse, «Perché non ci andate? Così evitate di farmi vomitare.»
Lisa rise e Nikandros la sollevò, alzandosi in piedi con lei.
Attraversarono la sala e lui non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi seni: beata Afrodite, erano così grandi e morbidi. Non vedeva l’ora di spogliarla per affondarvi la faccia.
Tuttavia, non erano arrivati molto lontano dal loro tavolo, quando Nikandros sentì degli uomini ridere e dire:
«Tutta sola, che peccato. Vuoi divertirti con noi?»
Si fermò e si voltò: quattro Satiri erano in cerchio intorno a qualcuno. Alti e longilinei, con abiti eleganti e quegli inquietanti sorrisi perversi, tipici della loro specie.
Nikandros vedeva solamente una testa bionda, ma dalla voce fu ovvio che fosse una ragazza.
«Andate via» disse lei, «Sarà meglio per tutti.»
E quella voce gli suonò familiare.
«Torno subito» disse a Lisa, avvicinandosi poi al gruppo.
«Non essere così scorbutica» disse uno dei Satiri, con quel sorriso orribile, «Vogliamo solo fare amicizia.»
Nikandros lo vide allungare la mano verso la ragazza e poi cadere in avanti di colpo, quasi fosse stato risucchiato dal pavimento.
Nel tempo che impiegò a raggiungerli, altri due finirono a terra.
Quando le arrivò di fronte, il respiro gli morì nel petto.
Alta e slanciata, la ragazza aveva un viso ovale, dai lineamenti molto delicati. Grandi occhi azzurri e labbra sporgenti, per una bellezza da togliere il fiato.
Indossava dei jeans e una canottiera bianca, scoprendo le braccia tatuate dalle spalle fino ai polsi.
Si scambiarono un lungo sguardo, restando in un silenzio carico di parole inespresse.
A Nikandros sembrò che il tempo si fosse fermato, così come il suo cuore.
Alla fine, fu lei la prima a parlare.
«Eccoti» abbozzò appena un sorriso, sollevando gli zigomi, «Ti ho trovato, finalmente.»
Nikandros aggrottò le folte sopracciglia, confuso.
«Che ci fai qui?» le chiese, «Stai bene?»
Lei annuì e, in quello stesso momento, rovesciò gli occhi all’indietro e svenne.
Nikandros l’afferrò prima che cadesse a terra e solo allora si accorse che lei non stava bene. La canottiera che indossava era strappata in più punti, la sua pelle era pallida e i suoi occhi cerchiati di nero.
Noah li raggiunse e gli posò una mano sulla spalla, chiedendo:
«Tutto okay? La conosci?»
Nikandros annuì e si chinò per passarle un braccio sotto le gambe, sollevandola.
«Sì, la conosco» rispose con tono grave, «È mia sorella.»

L'incanto di AfroditeWhere stories live. Discover now