Capitolo 11

283 11 0
                                    

Nikandros arrivò al piccolo altare di marmo, addentrandosi di parecchio nel bosco. Era nascosto e solo un piccolo sentiero conduceva ad esso; erano in pochi a conoscerlo.
Sull'altare, c'era la statua di un grande pavone in marmo, l'animale sacro alla Sovrana. Era stato Ric a costruirlo, per scontare la sua pena: dopo averlo trasformato in un Oimedo, infatti, la Regina degli Dèi lo aveva condannato a dedicarle una preghiera ogni mattina della sua vita, perciò il demone si era creato quello spazio privato, dedicato alla sua divinità.
Nikandros c'era stato poche volte, perché di rado aveva avuto bisogno di parlare con sua madre, ma in quel momento non sapeva proprio a chi altro rivolgersi.
Nikandros siede al bancone, nella sala giochi, e tiene in mano una bottiglia di birra. Ne fa ondeggiare il liquido all'interno, senza guardare Damian, seduto sullo sgabello di fronte a lui, né Sofia, sul tavolo da biliardo. Si sente ancora umiliato per essere stato raggirato in quel modo dalle ninfe: si è scusato mille volte con il suo Principe, tanto che Damian si è innervosito e gli ha intimato a brutto muso di smetterla.
Ora hanno problemi più grandi a cui pensare.
«Il giardino di Zeus è sull'Olimpo» dice Damian, «Ed è l'unico posto in cui possiamo trovare le sue aquile.»
«Se prendiamo il challenger» suggerisce Sofia, «Possiamo atterrare a Larissa in qualche ora.»
«Sì» conviene il Principe, «Ma per scalare l'Olimpo, ci vogliono almeno due giorni. Non torneremo mai in tempo per darle l'antidoto.»
«Potremmo chiedere a Hermes di portarci» dice Nikandros, «Lui è veloce, ci porterebbe in cima in un lampo.»
Damian, però, scuote la testa.
«Ci ho già provato. Hermes dice che solo i Sovrani hanno le chiavi del giardino, se anche ci portasse fin lassù, non potremmo entrare.»
Nikandros beve un sorso di birra e poi sbatte la bottiglia sul tavolo.
«Quindi è spacciata?» ringhia.
Sofia scende dal tavolo da biliardo e gli posa una mano sul braccio.
«C'è ancora tempo» lo rassicura, «Troveremo una soluzione, vedrai. Deve esserci qualcuno in grado di farci entrare.»

Ma Sofia si sbagliava, non avevano tempo: restavano loro soltanto ventiquattro ore prima che il veleno uccidesse Desdemona e lui non poteva permettere che sua sorella morisse.
Non se lo sarebbe mai perdonato.
Perciò, raggiunse l'altare e si inginocchiò, posando le mani e la fronte sul marmo.
«Era, dea della nascita, accogli l'umile supplica che ti offro»
pregò, «Acconsenti e vieni, bellissima, col mantello di porpora. Tre volte ti imploro, dal tuo trono d'oro, con l'animo che arde delle fiamme dell'Olimpo, concedimi udienza.»
Gli bastò pronunciare quelle parole una sola volta, perché sentisse il tocco leggero di una mano gelida sulla spalla.
Quando si voltò, sua madre era lì.
Indossava una lunga veste color porpora, stretta in vita da una cinta dorata con appeso un pugnale dalla lama corta. Bracciali d'oro le adornavano polsi e caviglie e attorno al collo aveva una stretta collana di perle rosa. I capelli, di un castano dorato, erano sciolti e le ricadevano sulla schiena, facendo risaltare la pelle bianca, lattea, dai lineamenti delicati con labbra carnose e naso all'insù. Aveva grandi occhi, rotondi e azzurri, dello stesso colore di quelli della figlia, ed era incredibile quanto le somigliasse pur non essendo bella come lei.
Nikandros si voltò per non darle le spalle, ma rimase in ginocchio.
«Onore a te, Madre degli Dèi.»
«Ti è concessa udienza, a te che hai pregato nel mio nome» rispose la Dea.
«Ti ringrazio della clemenza, mia Signora, e ti prego di ascoltare le indegne parole che ti rivolgerò.»
Era annuì.
«Ti concedo di parlare.» Prese le sue mani e lo tirò perché si alzasse in piedi. «Che succede, figlio mio?» gli chiese, «Perché mi hai chiamata?»
«Si tratta di Desdemona» rispose Nikandros.
Pur restando a testa bassa, vide il viso di Era indurirsi e le labbra serrarsi, mentre volgeva lo sguardo agli alberi intorno a loro.
«Mi dispiace per mia figlia» disse, «Non ho potuto fare niente per lei.»
Il Maximo non sapeva se fosse una buona idea, ma lo disse prima ancora di riflettere a fondo:
«È viva, mia Signora.»
La Dea si portò una mano al petto e i suoi bracciali tintinnarono a quel movimento.
«Desdemona è viva?» ripeté.
«Sì. Il gigante Argo le ha salvato la vita e l'ha nascosta. Afrodite però l'ha scoperto e ora le sta dando la caccia.»
Era si morse il labbro inferiore e camminò fino all'albero più vicino. Ad ogni passo le sue cavigliere d'oro tintinnavano, mentre, a braccia conserte, guardava il terreno umido sotto di lei.
«Afrodite l'ha accusata di eymorphia» disse. Allungò una mano, arrivando a sfiorare il tronco di un albero, «Non posso interferire, perché la legge è chiara in merito a questo: nessun mezzosangue può eguagliare il potere di un Dio.»
«So che non puoi salvarla» disse Nikandros, alzando il viso verso la madre, «Ma uno dei serpenti di Afrodite l'ha morsa e devo darle l'antidoto prima che la uccida. Ho bisogno dell'artiglio di un'aquila di Zeus.»
Era si voltò a guardarlo di scatto, capendo dove volesse arrivare.
«Vuoi che ti faccia entrare nel giardino del Re?»
Il Maximo annuì.
«Il Principe e la yunè verranno con me» disse, «Prenderemo solo un artiglio e ce ne andremo, ma ci restano poche ore prima che il veleno termini il suo effetto.» Puntò gli occhi in quelli della madre, contravvenendo a ogni regola, «So che non puoi proteggerla da Afrodite, perché andrebbe contro le regole dell'Olimpo, ma aiutami a salvarla dal veleno. Senza di te, non riusciremo mai ad andare e tornare in tempo.»
Era sospirò, osservando il tronco dell'albero che stava toccando.
Lei aveva molti figli su quella terra. Nikandros era solo uno dei tanti e non provava particolare affetto per lui, ma Desdemona...
Quella piccola mezzosangue era nata da una relazione che lei aveva avuto con un medico umano.
Si era finta un'infermiera ed era in cerca di un amante, come faceva ogni anno, pronta a concepire per offrire il suo contributo al Khrathos, e aveva incontrato lui. Si chiamava Simòs, lavorava in un piccolo ospedale sull'isola di Creta.
Quella che sarebbe dovuta essere una relazione al solo scopo di fecondarla, si era trasformata in qualcosa di più. Simòs le aveva ricordato il giovane Zeus: il modo in cui si prendeva cura degli altri, l'importanza che attribuiva alla famiglia, le piccole attenzioni che riservava a lei. Non avrebbe mai voluto che accadesse, ma se ne era innamorata, in modo totale; aveva perso se stessa in quel mortale. Era stata così presa, da dimenticare che il suo compito era generare un Maximo e non lasciare che la natura facesse il suo corso.
Perciò, da quell'infatuazione, era nata una bambina.
Nel corso dei secoli erano già capitati errori simili e Zeus aveva sempre consigliato agli Dèi di uccidere i semidéi non destinati al Khrathos, ma Era proprio non riusciva ad accettare l'idea di perdere quella creatura che ancora non conosceva, ma che già amava, proprio come aveva amato Simòs.
Allora l'aveva affidata a Nikandros perché la proteggesse e le cose erano andate bene, fin quando quella stupida di Eris non si era presentata di nuovo con la mela.
Era aveva pianto quando aveva saputo dell'accusa di Afrodite, aveva versato tutte le sue lacrime quando aveva creduto che la sua bambina fosse stata uccisa.
E ora, sapere che era viva... era un sollievo.
Stava bene, era con i Maximi, Nikandros la stava ancora proteggendo.
Aiutarli a entrare nel giardino di Zeus sarebbe stata una trasgressione che il Re non le avrebbe perdonato, ma certo non avrebbe scatenato nessuna guerra.
«Posso farvi entrare» disse, perciò, «Ma a una condizione.»
Nikandros chinò di nuovo la testa.
«Qualunque cosa.»
«Potete prendere una sola aquila. Non dovrete uccidere nessun altro animale», sollevò l'indice in un monito, «Se Zeus dovesse accorgersi che qualcuna delle sue preziose bestie è stata ferita, ve la farebbe pagare cara.»
Il Maximo annuì.
«Sarà fatto.»
Era sganciò la collana di perle che aveva al collo, poi ruppe il sigillo d'oro che tratteneva le perle: ne sfilò sei e le porse al ragazzo.
«Queste sono fatte della pietra dell'Olimpo» gli disse, «Quando ne romperete una vi troverete nel giardino, quando sarete lì, rompete un'altra e vi ritroverete qui.»
Nikandros le prese e le strinse nel pugno, inchinandosi di fronte alla madre.
«È tutto quello che posso fare per voi» disse lei.
«Ti ringrazio.»
Era gli prese il viso tra le mani e lo sollevò perché la guardasse.
«Salvala, Nik» gli disse, «Proteggi la mia bambina.»
Nikandros si rialzò in piedi, posando una mano su quella della madre.
«Come comandi, mia Regina.»
La Sovrana si chinò e gli posò un bacio sulla testa, prima di svanire nel nulla.
Lui si infilò le perle nella tasca del giubbotto di pelle e attraversò il bosco, tornando alla Baita.
Ormai era notte fonda, l'indomani mattina avrebbe detto a Damian cosa aveva ottenuto e sarebbero corsi al giardino di Zeus.
Salì le scale in fretta, ansioso di vedere sua sorella e aggiornarla sulle novità, ma quando aprì la porta della stanza, rimase fermo sulla soglia per qualche istante.
Desdemona dormiva, la sua espressione era serena, nonostante la sua pelle fosse imperlata di sudore. Dietro di lei era steso Neesha e l'abbracciava.
A terra c'erano degli abiti e il Maximo russava sonoramente, tenendo una mano chiusa attorno a uno dei seni di sua sorella.
Nikandros sentì il respiro accorciarsi.
Quel bastardo aveva osato toccare sua sorella.
Senza una sola parola si avvicinò e sollevò il lenzuolo: afferrò un piede di Neesha e lo tirò fino a farlo cadere dal letto. Il ragazzo batté la testa a terra, svegliandosi e imprecando, mentre il compagno lo trascinava fuori dalla stanza.
Nikandros lo lanciò nel corridoio e, quando vide che era nudo, dovette trattenersi dal tirare fuori la pistola. Chiuse la porta dietro di sé.
«Ti sei scopato mia sorella!» lo accusò.
Neesha, steso a terra, sollevò le mani in segno di resa e sorrise.
«Veramente, è stato reciproco.»
«Oh, stavolta ti ammazzo» latrò.
Sfoderò la pistola dalla fondina attorno alla vita e la puntò verso di lui. Neesha si alzò in piedi e continuò a tenere le mani avanti.
«Andiamo, è un'adulta, non puoi...», ma non terminò la frase, perché il Maximo sparò proprio accanto al suo piede.
«Sparisci» ringhiò, «O ti centro le palle.»
«Okay» convenne Neesha, coprendosi i testicoli e indietreggiando con cautela verso la propria stanza, «Ma sappi che la tua reazione è eccessiva.»
Nikandros sollevò di nuovo la pistola e, quando il ragazzo si voltò per scappare, sparò di nuovo, centrandolo nella natica destra.
Neesha cadde a terra, ridendo, e lui rinfoderò la pistola, rientrando nella stanza.
Si richiuse la porta alle spalle e vide Desdemona seduta sul letto, con il lenzuolo tirato fino al petto per coprirsi.
«Cosa è successo?» chiese, preoccupata.
«Niente» rispose lui, togliendosi il giubbotto e lasciandolo sulla sedia accanto al letto.
Lei inclinò la testa di lato.
«Non hai sparato a Neesha, vero?»
Lui non rispose e sedette vicino a lei, accarezzandole la testa.
«Come ti senti?»
Desdemona si stese di nuovo e sospirò.
«Credo che la febbre stia salendo» rispose, «Mi gira la testa.»
Nikandros calciò via gli anfibi e si stese accanto a lei, abbracciandola.
«Domani avremo l'antidoto» le disse, posandole un bacio sulla fronte e sentendo che la sua pelle era bollente, «Ti prometto che starai meglio.»
La ragazza si strinse di più contro di lui, facendosi piccola contro il suo torace ampio.
«Grazie. Sei sempre gentile con me.»
L'automobile corre veloce sull'autostrada, ma Nikandros non ci fa caso: sul sedile posteriore, stringe la bambina tra le braccia. La piccola siede sulle sue gambe e guarda fuori dal finestrino; lui non riesce a distogliere lo sguardo da quei capelli biondi, morbidi attorno a quel viso paffuto e dolcissimo.
«Sicura di non avere fame?» le chiede.
Lei scuote la testa e i capelli danzano intorno alla sua testa.
«Sei sempre gentile con me» gli dice, scrutandolo con quegli intensi occhi azzurri.
«È perché sono tuo fratello» le risponde, «Il mio compito è essere gentile e prendermi cura di te.»
Desdemona appoggia la testa al suo petto e sbadiglia.
«Mi piacerà il posto in cui andiamo?»
«Spero di sì. Ci sono tante altre bambine, è un buon posto in cui crescere.»
Lei alza il visino per guardarlo.
«Ma tu verrai a trovarmi?»
«Certo», le sorride, «Ogni volta che potrò.»
Lei si accoccola meglio e lui la stringe, respirando il suo profumo.
Nel giro di poco si addormenta e Nikandros resta incantato a osservare quel miracolo che tiene tra le braccia. Non credeva di poter amare così tanto qualcosa di così piccolo. Sente il legame di sangue che ha con lei, lo sente nelle vene, nello stomaco, nel cuore.
Desdemona è una parte di lui.
«Sicuro di non volerlo dire a Damian?» chiede Hektor, mentre guida.
Nikandros sospira, riflettendo, e guarda nello specchietto retrovisore, incrociando gli occhi con quelli grigi del compagno, che guida senza fretta; ha tagliato i capelli da poco, rasandoli quasi a zero, e ora gli danno un'aria bella e pericolosa, proprio come fosse un angelo della morte, ma, nonostante il suo aspetto poco rassicurante, è l'unico di cui si fida davvero.
«Non ancora» risponde, «Lei è un mio problema, non voglio coinvolgere il
Khrathos
Abbassa di nuovo gli occhi sulla bambina e si rende conto delle proprie parole: lei non è un problema, ma un dono.
Desdemona è un regalo che sua madre non si rende conto di avergli fatto.

«Mi dispiace averti coinvolto in tutto questo» mormorò lei, chiudendo gli occhi.
«Non dirlo neanche» rispose, stringendola più forte, «Tu sei sangue del mio sangue. Ti proteggerò sempre.»

L'incanto di AfroditeWhere stories live. Discover now