CAPITOLO 19 (Seconda Parte)

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Mi trovo in una piccola stanza, le pareti sono interamente coperte da specchi, posso vedere la mia immagine riflessa all'infinito. È fastidioso, non ho problemi con gli specchi, ma così tanti creano un effetto che mi fa girare la testa. Non avere un punto di riferimento è spiazzante.
Alzo la testa ma non riesco a vedere il soffitto. So che c'è perché la luce arriva da lì, ma non ci sono lampade o pannelli che indicano la sua presenza. Abbasso lo sguardo e, con mio sollievo, il pavimento è al suo posto. Sotto ai miei piedi riconosco il grosso cerchio dipinto sul pavimento della palestra. È grande quanto la stanza.
Nel silenzio sento un'asse del pavimento scricchiolare dietro di me. Guardo la mia immagine allo specchio ma non c'è nessun altro in questa stanza. Resto immobile, sento di non essere sola, c'è qualcuno ma io non riesco a vederlo.
Di nuovo, alle mie spalle il pavimento scricchiola. Trattengo il respiro e tendo l'orecchio. Nel mio petto il cuore inizia a galoppare e il suo battito mi rimbomba nel cervello. Cerco di ignorarlo e mi concentro sui rumori intorno a me. Lo scricchiolio sembra più vicino, chiunque sia, è proprio dietro di me.
Mi volto di scatto e vedo una macchia scura spostarsi alla mia sinistra, è talmente veloce che non riesco a capire cosa sia: un animale, una persona o qualcosa di più inquietante.
Sento uno spostamento d'aria alle mie spalle e so che qualsiasi cosa sia è di nuovo dietro di me: sento il suo fiato sulla pelle del mio collo.
Devo mantenere la calma e usare la logica, Eric mi sta guardando e se faccio qualcosa di strano potrei pagarlo con la vita.
Se mi volto, quella cosa potrebbe schizzarmi di nuovo alle spalle e tutto ricomincerebbe daccapo. Faccio un profondo respiro e di scatto alzo il gomito e lo spingo dietro di me con forza. Lo sento affondare in qualcosa di morbido e caldo. L'ho colpito. Non faccio in tempo a voltarmi per sferrare un altro colpo che quella cosa mi spinge in avanti. Cado a terra e le schegge del legno del pavimento mi feriscono le mani.
«Abbiamo anche una Pacifica» esclama la creatura. È la voce di Eric.
Alzo lo sguardo, ma ciò che vedo davanti a me non è Eric, sono io.
È inquietante come gli specchi riflettano solo la mia immagine e non la sua. Non mi serve sapere che questa è una simulazione e che lei non è reale. Quella cosa sembra me ma non lo è. Il suo sguardo è freddo e vuoto e il suo sorriso è identico al ghigno che fa Eric quando si diverte a tormentare qualcuno. Ha il corpo pieno di tatuaggi e sul volto ha gli stessi piercing di Eric. È una proiezione di quello che temo di diventare: crudele e spietata, un mostro.
«Tesoro, sono a casa» esclama tirando fuori dalla giacca una frusta. La fa schioccare in aria e un attimo dopo sento il cuoio della frusta stringermi la caviglia.
La me stessa crudele mi trascina verso di sé come se fossi una bambola di pezza.
«Il tuo Eric ci sta guardando.» Si china su di me e aggiunge: «E sono sicura che sono io quella che preferisce».
«Ma sono io quella reale» esclamo a denti stretti mentre la colpisco allo stomaco con un calcio.
Il suo sorriso si trasforma in un ghigno carico di rabbia e in un attimo, la frusta che mi avvolgeva la caviglia, si stringe intorno al mio collo.
Non riesco a respirare, è troppo stretta. Cerco di liberarmi ma riesco solo a graffiarmi. Sento la testa scoppiarmi, la vista inizia ad annebbiarsi e fatico a restare lucida. Devo reagire.
Mi alzo e tutto inizia a girare. Tieni duro Theia.
Mi lancio verso di lei, afferro il suo collo e lo stringo con tutta la forza che mi è rimasta. Lei continua a ridere come se non sentisse nessun dolore.
Non è reale, è solo il mio riflesso malvagio. Riflesso. Quella parola mi fa riacquistare lucidità. È per questo che non la vedo nello specchio, è da lì che viene.
La spingo con forza contro lo specchio dietro di lei ma, invece di fermarsi, lei lo attraversa. Le sue risate lasciano il posto a un grido di terrore. La vedo agitare le braccia, come se oltre quel confine ci fosse un baratro.
Afferro l'impugnatura della frusta e la colpisco allo stomaco con un calcio. L'altra me attraversa lo specchio e sparisce nel nulla.
«È finita» mormoro accasciandomi a terra.

Quando riapro gli occhi sono nella sala delle simulazioni. Eric è seduto accanto a me e si tiene la testa tra le mani. Non dice una parola ed io non riesco a vedere la sua espressione, ma la posizione che ha assunto mi fa capire che ho fatto qualcosa di sbagliato.
Divergente. È l'unica interpretazione che riesco a dare al suo silenzio.
«Eric» lo chiamo con voce tremante.
Ho paura della sua reazione. Conosco la sua reputazione e so che dovrei scappare, ma lui non sembra minaccioso. Se avesse capito cosa sono mi starebbe fissando con il suo sguardo freddo e distaccato. Invece sembra più sconvolto di me.
Allungo il braccio e appoggio la mia mano sulla sua. Lui non si muove, continua a tenere la testa bassa come se quello che ha appena visto fosse troppo per lui.
«Ti prego, dimmi qualcosa, qualsiasi cosa!» esclamo disperata.
«Perché proprio tu...» mormora. Io mi sento il cuore in gola. Lui ha capito cosa sono.
«Proprio io, cosa?» domando, anche se conosco già la risposta.
Eric alza la testa e mi guarda. È affranto, non pensavo che Eric potesse provare tristezza per qualcuno.
«Sei una Divergente.»
La paura mi percorre come una scarica elettrica. I suoi occhi mi dicono che non vuole farmi del male ma che dovrà farlo.
«Che cosa significa Divergente?»
«Theia, mentirmi non ti aiuterà» dice sospirando. «L'avevo già intuito l'altra volta, ma adesso è evidente. Hai manipolato la simulazione.»
Ormai il mio destino è segnato, non posso più salvarmi, solo Eric potrebbe farlo, ma non so se è ciò che vuole.
«È una cosa molto brutta?» domando abbassando lo sguardo.
«Sì» risponde in tono lapidario.
Il panico mi assale. Mi alzo dalla poltrona ma lui mi afferra per la spalla costringendomi a sedermi di nuovo. Cerco inutilmente di liberarmi dalla sua presa ma, alla fine, mi arrendo al mio destino.
«Eric, ti prego, non farmi del male. Abbandonerò la fazione e mi nasconderò da qualche parte e non causerò problemi a nessuno.»
«Mi vuoi lasciare?» domanda con un candore talmente inappropriato alla situazione da lasciarmi inebetita.
Gli ho appena promesso che non sarà più costretto a prendersi cura di me, che sarà libero dal peso della mia divergenza e l'unica cosa che ha pensato è che voglio lasciarlo. Possibile che per lui io sia più importante della sua missione?
«Io non voglio lasciarti, ma...» faccio un profondo respiro. «Ho paura. Io non so cos'è un Divergente, dici che è una cosa brutta... come faccio a capire se sono quello che hai detto oppure no?»
«Qual è il risultato del tuo test attitudinale?» mi domanda.
«Pacifica, te l'ho già detto» mento e non capisco perché lo faccio. Lui ha già capito cosa sono.
Io non mi sento lucida, è da quando Quattro mi ha iniettato per la prima volta il siero che mi sento agitata e so che fino a quando avrò quella sostanza in circolo rischierò di fare dei passi falsi. Ho bisogno di sapere più cose sui Divergenti, quello che mi ha detto Tori non mi ha chiarito le idee.
I Divergenti sono difficili da controllare: è questa l'unica cosa che so e non mi aiuta.
«Eric, se tu mi spiegassi cos'è un Divergente, forse riuscirei a capire se davvero sono quello che sospetti.»
«I Divergenti ottengono più di una predisposizione al test attitudinale» mi spiega. «Queste persone sono pericolose perché hanno comportamenti imprevedibili, spesso violenti, e sono ostili alle regole di comportamento del sistema delle fazioni.»
«Io non sono antisociale e neanche violenta» mi difendo.
Ripenso a quello che è accaduto con Peter e inizio a dubitare di me stessa. Forse Eric ha ragione. Io sono nata e cresciuta tra i Pacifici, siamo la fazione che più di tutte è contro la violenza, ma io non riesco ancora a sentirmi in colpa per quello che ho fatto a Peter. Se i Divergenti sono di natura violenta allora è vero che sono un mostro.
«È per questo che mi sono accanita in quel modo su Peter?»
«No. Lui ti ha provocata. Credeva di farti crollare dicendoti quelle cose su di me, pensava che tu fossi vulnerabile ma tu sei forte» mi rassicura ed io mi domando perché lo fa. Sta cercando di trovare una scusa per non dover ammettere che sono una Divergente.
«Io non sono in conflitto con il sistema delle fazioni, anzi, mi fa sentire tranquilla e al sicuro. Non riesco a immaginare di vivere senza, mi fa molta più paura di quello che vivo nelle simulazioni.»
Le simulazioni. È grazie al mio comportamento durante le allucinazioni che Eric ha capito cosa sono e l'unico modo per salvarmi è capire dove sbaglio.
«Eric, cosa ti ha fatto capire che io sono una diversa?» gli chiedo indicando il macchinario delle simulazioni.
«Solo un Divergente è in grado di manipolarle come fai tu.»
«Io non le ho manipolate, ho seguito solo la logica. Ero davanti a me stessa, non è una cosa che si vede tutti i giorni ed è normale intuire che la situazione non può essere reale» mi giustifico.
«È proprio questo il problema. Tu non dovresti essere cosciente che quello che accade durante la simulazione non è reale. E comunque non hai usato la logica» puntualizza.
«Come fai a dirlo? Cosa ho sbagliato?»
«Avresti dovuto combattere e l'altra te non avrebbe attraversato lo specchio ma l'avrebbe mandato in frantumi» mi spiega.
Nella mia mente sembrava logico: non esiste e quindi posso farla scomparire. Forse è questo il mio errore, sapere che non era reale e creare qualcosa di surreale per superare lo scenario.
È così che ragiona un Divergente? Crea cose dal nulla come pesci luminosi e baratri oltre gli specchi.
Devo cambiare il mio approccio alle simulazioni, ma non saprei come fare perché per me è normale comportarmi in quel modo.
«Insegnami» dico risoluta fissandolo dritto negli occhi.
Eric si guarda intorno come se temesse di essere spiato, avvicina il suo viso al mio e mi sussurra: «Andiamo a fare una passeggiata».

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