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- Ermine! - urla Evan. L'urgenza velata nella sua voce mi spaventa.
La ragazza arriva poco dopo, fermandosi a poca distanza da noi.
- Cosa desiderate, signore?
- Voglio che accompagni Miss Donato nella sua stanza e che tu la chiuda a chiave. Non deve uscire per nessun motivo. Ho delle faccende da sbrigare, andrò io da lei una volta che avrò terminato - ordina freddamente. Qualcosa scatta nella mia testa, preoccupandomi all'istante.
Chiudermi a chiave? Perché?
- Cosa? - esclamo, - perché? Evan, che sta succedendo?
Fa un gesto della mano ed Ermine mi afferra un braccio. - Andiamo, miss. Vi porto nella vostra stanza -.
Cerco di divincolarmi, ma la sua presa si fa incredibilmente ferrea. Per essere una ragazza esile, è incredibilmente forte. - Evan...- tento di nuovo, ma lui non mi guarda. Ermine mi trascina su per le scale. - Evan! - grido un'ultima volta, scorgendo un sentimento simile alla preoccupazione nei suoi occhi smeraldo, prima di essere risucchiata dai corridoi scuri della villa.
- Ermine, non voglio andare nella mia stanza - dico, sperando di non apparire come una bambina capricciosa. Lei alza le spalle. - Il signor Woods ha dato un ordine. Ed è stato abbastanza esplicito. Ogni sua richiesta è un ordine - replica, aprendo la porta della mia camera e spingendomi dentro.
- Aspetterete qui - informa, prima di chiuderla di nuovo. Sento la serratura scattare e mi siedo sul letto, frustrata. Sono bloccata senza una via d'uscita. Perché Evan ha ordinato una cosa simile?
Perché relegarmi in una sola stanza della casa? Cosa sta succedendo? Che faccende deve sbrigare? Le domande si rincorrono nella mia mente, ma qualcosa mi dice che la reazione di Evan abbia a che fare con ciò che ha visto nel labirinto. Deve essere così. So che ha visto qualcosa, ed io non mi sono immaginata i fruscii ed i movimenti catturati con la coda dell'occhio.
Quando la serratura scatta di nuovo, è già buio. Mi allontano dalla finestra e mi volto verso la porta, che si apre e lascia entrare Evan.
- La cena è pronta, Miss Donato - annuncia con un tono cordiale, come se non fosse accaduto nulla. Sento gli occhi bruciare e sbatto le palpebre più volte.
- Cosa è successo? Perché avete agito in quel modo, prima? Perché avete ordinato ad Ermine di chiudermi a chiave nella mia stanza? - domando, cacciando indietro l'improvviso groppo in gola. - Se dovete prepararvi prima di scendere, fate in fretta. Non vorrei che vi si freddasse la cena - dice, ignorandomi completamente.
- Cosa avete visto, là fuori? - insisto.
Un lampo di fastidio gli attraversa gli occhi. - Avanti, andiamo. Siete stanca, potrete riposare dopo aver mangiato qualcosa - continua porgendomi il braccio.
Stringo gli occhi, mentre qualcosa simile ad un pugno mi colpisce lo stomaco, e gli occhi mi si inumidiscono per il colpo.
- Non ho fame! - esclamo, odiandomi per la mia reazione. Sono davvero in procinto di piangere per Evan Woods? Un mostro, un vampiro?
Volto la testa per nascondere il viso da lui.
- Andatevene - dico.
- Dovete mangiare - la sua risposta.
Sono abituata ai continui sbalzi d'umore di Evan e ai suoi interscambi fra formalità ed informalità, ma adesso, il suo essere formale mi fa incredibilmente male, poiché enfatizza la sua freddezza. Come può essere così distaccato dopo quello che c'è stato tra noi? Gli ho permesso di bere il mio sangue, ma i baci e le carezze ci sono stati per sua volontà. Non ha significato nulla per lui?
Indignata, faccio un passo indietro.
- Ho detto di non avere appetito - ripeto, non curandomi di essere scortese o maleducata.
Un bagliore rosso lampeggia negli occhi di Evan, mentre aggrotta le sopracciglia. Serra i pugni per un istante, poi distende le dita, lasciando cadere le mani lungo i fianchi. - Non mi interessa. Il cibo serve per il sostentamento di un essere vivente, umano soprattutto. E tu sei ancora umana - scandisce, parlando lentamente, lasciando che una fredda calma avvolga le sue parole. Rabbrividisco.
- Andiamo, adesso. Venite con me -  dice senza smettere di guardarmi negli occhi. Mi porge nuovamente il braccio, in un esplicito invito.
Indietreggio scuotendo la testa, ponendo così maggiore distanza fra noi. - Non vengo da nessuna parte con voi - sputo.
Un verso simile ad un ringhio diretto dal suo stomaco è la prova della sua imminente perdita di controllo. La mano destra stretta in un pugno vola verso il muro, crepandolo leggermente. Sobbalzo terrorizzata, allontanandomi ancora di più. Evan rimane a lungo ad osservare il punto in cui il suo pugno ha colpito il muro, seguendo con lo sguardo l'andamento delle crepe verso l'alto. Dopodiché lo abbassa e si porta una mano sul viso, stringendosi con due dita il setto nasale. Chiudendo gli occhi, prende una serie di respiri profondi.
- Non è una richiesta, Eleanor. O vieni con me a cena di tua spontanea volontà, oppure sarò costretto ad usare le cattive maniere. E credimi, Eleanor, non passerai un bel momento. Perciò sii ragionevole e non costringermi a farti del male - dice piano, sollevando lentamente lo sguardo su di me. Deglutisco, soppesando le sue parole.
- Mi avete chiusa qui dentro per l'intero giorno, senza darmi una spiegazione. Una spiegazione che pretendo, dal momento che credo di meritarla. So che è accaduto qualcosa in quel giardino, perché l'ho...visto anche io e...
- Cosa hai visto? - scatta Evan, interrompendomi. Non mi rendo conto che nel frattempo ha iniziato ad accorciare le distanze.
Scuoto la testa. - Ho solo sentito un fruscio e poi ho scorto un movimento con la coda dell'occhio.
Evan annuisce, pare sovrappensiero. - Cosa è successo, Evan? - provo, addolcendo il tono di voce.
- Non ti riguarda - ringhia, mentre gli occhi gli si tingono di rosso.
Indietreggio, spaventata, sbattendo la schiena contro la parete. Il colpo improvviso mi toglie il repiro, facendomi boccheggiare.
In un battito di ciglia, ecco che torna il verde smeraldo dei suoi occhi. Mi afferra per un polso ed avvicina il volto al mio. L'improvvisa vicinanza del suo corpo al mio mi fa avere un tremito. Odio dover reagire in questo modo. È un vampiro, una creatura demoniaca.
Scosto la testa di lato per non doverlo guardare negli occhi.
Inizia lentamente a muovere il pollice su e giù lungo il mio polso, poi in movimenti circolari. Mi affonda la testa nell'incavo del collo e resta immobile.
- Vieni con me - dice scattando imdietro e costringendomi a seguirlo fuori dalla stanza. Cerco di divincolarmi, ma invano.
- Dove mi state portando? - domando.
- Ogni vostro tentativo di opporre resistenza sarà misero e totalmente vano - informa ad alta voce. Raggiungiamo la porta della sua stanza e lui la spalanca di colpo, spingendomi al suo interno e chiudendomi la porta in faccia.
Sento la serratura scattare. Batto i pugni sul legno, ma sento i suoi passi allontanarsi. Mi ha fatta uscire da una stanza per chiudermi in un'altra. Sono una prigioniera. Lo sono sempre stata fin dalla nascita. Il mio destino allora era già scritto: non avrò mai la libertà tanto desiderata.

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