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C’era sangue ovunque, caldo e scarlatto, ma il silenzio invece era piatto, freddo, come una folata di vento invernale in pieno viso.
Sentivo ogni cellula del mio corpo tremare per il freddo, nonostante il corpo del cavaliere fosse ancora caldo.
Gridavo il suo nome ma la mia voce pareva quasi un eco troppo lontano da poter sentire.
I miei occhi erano spalancati, catturavano, involontariamente, ogni singola immagine: il corpo di Kovu scosso dalla convulsioni, il cavaliere mentre sputava sangue, le sue unghie dentro la carne delle mie braccia, il colore dei suoi occhi quasi completamente nullo.
Tentava di parlare ma il sangue sembrava trascinare via con sé le parole.
High volava come un pazzo sulle nostre teste, senza poter far niente per svegliarci da quell’incubo.
«Kovu, non morire!», la ferita ancora aperta zampillava sangue, imbrattando il tessuto della maglietta come una macchia d’inchiostro sulla carta bianca, «Ti prego!», tenni i palmi premuti sulla ferita aperta, sperando di bloccare l’emorragia.
Con forza mostruosa, vedendo le sue condizioni sempre più critiche, Kovu alzò una mano e mi sfiorò la guanchia, forzando il mio viso affinché potessi guardarlo dritto negli occhi.affinché potessi guardarlo dritto negli occhi.
Boccheggiò, l’aria intorno a noi sapeva di pioggia e sangue, la tensione così densa da poterla tagliare con un coltello da burro.
«E’ tutto buio, Alba», le sue parole mi spiazzarono.
Il suo corpo smise improvvisamente di tremare, come se quel segreto, mantenuto fino a quell’istante, fosse la causa di tutto ciò.
«Avevo sentito qualcosa quando ho avuto un black-out», parlava a bassa voce, non si sforzava, prendeva lunghi respiri prima di lasciar andare le parole.
«Conosci la strada, High ti stava avvisando, perché non sei tornato indietro?», singhiozzai, rifiutandomi di guardarlo negli occhi.
Niente sarebbe mai successo se fosse tornato indietro, quella freccia non avrebbe mai colpito il suo corpo che fosse tornato a casa.
«Ho avuto paura», la sua voce parve così sincera da spezzarmi il cuore, «avevo un gran mal di testa, volevo solo dell’aria, poi High ha iniziato ad urlare ed il buio mi attanagliava, non sapevo cosa fare», forse per la prima volta, Kovu pianse.
«Non sono riuscito a proteggerti, mi dispiace tanto», le lacrime gli rigavano il viso, scivolavano giù, mischiandosi col sangue, sfiorandogli il mento e gli zigomi.
Pensandoci meglio, guardandomi intorno, non sentivo nessuno sguardo puntato addosso, nessuno, nonostante fossi una facile preda, aveva tentato di colpirmi, nessuno aveva scoccato la freccia.
Non ero io, quindi, l’obiettivo dei sicari, ma Kovu.
«Io sto bene, è a te che devi pensare», bisbigliai.
La pelle di Kovu era sempre più pallida, il sangue caldo mi scorreva tra le dita, e mi chiesi per quanto ancora avrei potuto sopportare quella terribile visuale.
Gli occhi del cavaliere iniziarono pian piano a socchiudersi, le sue mani abbandonarono il mio viso per ritornare a terra, silenziose come spettri.
«Kovu non chiudere gli occhi, dimmi cosa devo fare!», solo allora mi resi conto della mia completa inesperienza, nella mia inutilità sul campo. Ed io volevo diventare un cavaliere?
In quel momento, quel desiderio mi fece quasi ridere.
L’iralità però, non durò molto, perché Kovu, rifiutandosi di ascoltarmi, perse i sensi, ricadendo bruscamente a terra, la freccia ancora in bella vista nel suo addome.
Dalla quantità di sangue poteva aver reciso qualche vena, ma se fosse stata un organo ad essersi danneggiato? Avrei dovuto estrarre la freccia o forse lasciarla lì dov’era?
Se le mie mani non fossero state abbastanza ferme in quel momento di panico, Kovu avrebbe potuto morire per colpa mia, senza più alcuna possibilità di salvezza.
Misi entrambe le mani sul corpo della freccia e supplicai di avere la forza necessaria per salvarlo.
Quando, con uno scatto troppo veloce, iniziai a far salire la freccia, il sangue fuoriuscì dalla ferita, intimidendomi. Lasciai immediatamente la presa, terrorizzata.
«Dannazione!», il mio corpo fu scosso da un lungo brivido, dall’idea che l’avrei ucciso con le mie stesse mani, ma qualcosa, una consapevolezza, o un messaggio divino forse, mi convinse di ritentare; con più delicatezzia iniziai ad estrarre la freccia, il corpo lungo e sottile fino ad arrivare alla punta, affilata e letale.
Mi parve di sentire Kovu sospirare di sollievo una volta estratta del tutto e la cosa mi fece sorridere.
Ce l’avevo fatta! Inesperta, sola, eppure ce l’avevo fatta!
Anche il sangue sembrava aver smesso di scorrere con la violenza passata, riducendo la ferita ad un brutto buco arrossato e gonfio. Avrei dovuto disinfettarlo e bendarlo.
C’erano sicuramente bende in cucina e qualche bevanda alcolica avrebbe fatto sicuramenttoal caso nostro.
Non avrei potuto chiedere aiuto, il Re aveva sicuramente avverito le autorità e la stampa del deliddo di cui Kovu si era macchiato.
Eravamo criminali ormai, fuori legge sfuggiti ad una giustizia senza senso.
Ma era davvero così?
Nonostante fossi andata contro il volere del Re, non era a me che i sicari avevano mirato.
Mentre Kovu aveva ucciso un uomo con le sue stesse mani, ucciso un Cavaliere, un paladino del Re, ed era stato punito per questo.
«Kovu!», colpii il cavaliere e lui aprì gli occhi e guardandondomi, notai che il colore dei suoi occhi stava tornando man mano, pallido e bellissimo, «Ce la fai a rimanere in piedi? Dobbiamo tornare a casa, al sicuro», lui sorrise alla mia domanda e lo presi come un sì.
«Oh, grazie, mio prode cavaliere», nonostante la brutta ferita il suo umorismo non se n’era mai andato,  «questa donzella vi sarà per sempre debitrice!»
«Conserva le forze, andiamo a casa, principessa», gli tesi la mano e scoppiai a ridere.
Con fatica, riuscii a rimetterlo in piedi, una mano premuta contro la ferita aperta e l’altra in un intreccio di mani e braccia, per far sì che non cadesse a terra come un sacco di patate.
«Ce la stiamo facendo», sorrisi pronunciando quelle parole, passo dopo passo, sempre più vicini alla porta aperta della casa.
Avevamo seppellito da meno di due ore il cadavere di mia madre e buttato via tutte le parti mal messe degli animali, morti da troppe ore per far sì che le mosche non vi avessero ancora banchettato.
La casa era vuota e silenziosa, troppo, e i gemiti e le parole sconnesse di Kovu quasi mi risollevarono.
Giunti all’ingresso, portai Kovu fino alla cucina –era ovvio che non ce l’avrebbe mai fatta a salire anche le scale fino alla camera da letto- e lo feci stendere sul tavolo di legno.
Una volta steso, il cavaliere emise una sorta di grugnito di piacere, ed immaginai fosse davvero così. Forse il dolore era più sopportabile se rimaneva immobile.
«Vado a prendere delle bende, e anche dell’alcol per disinfettare la ferita, torno presto», prima che potessi fare un giro completo per dargli le spalle, Kovu fermò ogni mio tentativo afferrandomi il polso tra le dita da guerriero, lunghe e fredde.
Mi voltai lentamente e all’improvviso tutto quel sangue mi fece impressione, come se prima l’adrenalina avesse cancellato dai miei occhi tutto quell’orrore scarlatto.
«Dimmi qualcosa», bisbigliò guardandomi fisso.
Non capivo cosa intendesse, aveva perso così tanto sangue da iniziare a delirare?
«Te l’ho detto: sto salendo su per prendere le bende e l’alcol, sai, per non fare infettare la ferita e farti morire sul tavolo della mia cucina», strano come potessi ancora definire mia quella casa.
Un tempo era mia perché ci vivevo io, ci viveva mia madre e a volte anche mio padre.
Era il posto in cui mi svegliavo la mattina e dove potevo sentirmi al sicuro.
Ma ora…
«Dimmi qualcos’altro», i suoi occhi sfiorarono la mia figura, impazienti.
«Forse ci vorranno dei punti», indicai con lo sguardo la ferita.
Kovu non sembrava contento.
«Alba…», coi suoi occhi verdi e pallidi sembrava poter scorgere quella macchietta nera dritto nella mia anima. Poteva leggere le ansie e i timori, poteva leggere i desideri antichi, mai esauditi, e quelli nuovi che riguardavano tutti lui.
«Cosa vuoi che ti dica, Kovu?», iniziavo ad impazientirmi.
Vedermi così scoperta, così nuda interiormente davanti agli occhi di chi, indirettamente, mi aveva tolto tutto, anche quelle barriere di sicurezza che mi avevano protetta fino ad allora, mi fece sentire improvvisamente stanca e debole.
«Dovrei dirti quanto sono spaventata e stanca di tutto ciò? Vuoi che ti dica che probabilmente dovrò farti vedere da un dottore pur di non lasciarti scoprire, nonostante questo implichi una sicura imboscata dai Cavalieri del Re? O forse vuoi che ti dica che ho bisogno di aiuto?», avevo iniziato ad urlare senza rendermene conto.
La rabbia, la tristezza e la delusione, uscirono da me con la potenza di un tornado, spazzando via ogni cosa intorno a me.
Ero così stanca di dover sempre chiedere aiuto…
Anche Kovu sembrava scandalizzato da quell’improvviso scatto di rabbia, ma non deluso.
Infatti sorrise, lasciando andare delicatamente il mio polso, ancora segregato tra le sue dita.
«Questa è la mia ragazza!», rise ma ciò gli provocò un attacco di tosse ed  un lungo gemito di dolore.
«Kovu!», mi precipitai verso di lui ma il cavaliere mi fermò, sorridendo ancora.
«Voglio solo che tu mi dica che starai bene», la sua voce si fece improvvisamente seria, ferma.
Annuii.
«Starò bene».

The white knightWhere stories live. Discover now