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«Forse dovresti leggere la lettera, cara», aveva detto mia madre mentre il cavaliere mi scortava alla sedia più vicina, per paura che le gambe mi cedessero all'improvviso com'era successo vicino al ruscello poco prima, «infondo se tua padre l'ha indirizzata a te è perché la leggessi».

Ma non riuscivo, non potevo, farlo.

Leggere quelle ultime parole avrebbe spazzato via le precedenti, come un forte acquazzone, e avrei dimenticato tutto ciò che era stato mio padre per ricordare di lui solo il dolore che ci stava causando.

Non ero riuscita a risponderle, la mia intera concentrazione si basava su quel foglio di carta, rinchiuso ancora nella sua busta, fredda ed immobile contro i miei polpastrelli caldi.

Forse il foglio si sarebbe sciolto tra essi, lasciandoci per sempre all'oscuro di tutto, forse l'inchiostro con cui aveva scritto si sarebbe disintegrato, rendendo impossibile la lettura.

Per un momento la mano di Kovu sulla mia spalla fu un supporto, mentre l'attimo dopo la sua presenza mi era parsa pesante come la gravità che mi costringeva lì.

Infondo era stato mandato da mio padre per avvertirci della sua morte.

La sua presenza, quindi, era avvertita quasi come un segno maligno, qualcosa di oscuro e di malvagio pronto a strapparmi via tutto ciò che più amavo.

Come un Angelo della Morte aveva attraversato quelle terre con un tremendo presagio.

«Hai tutta la notte per leggerla, Alba», aveva pronunciato quelle parole a voce bassa, per non scombussolarmi le idee, «ma, prima che l'esercito parta, dovrai darmi la tua risposta».

Quelle parole furono seguite da un lungo, lunghissimo, silenzio, il tempo che il mio cervello analizzasse quelle parole: «Cosa vuoi dire?», la mia voce era uscita dalle mie labbra gracchiante, come se avessi ingoiato del vetro.

«Quando leggerai la lettera capirai» e, detto questo, si era avviato verso la stanza della veglia, per dare un ultimo addio a mio padre...

Avrei dato il cambio con mia madre qualche ora dopo l'alba, così avevamo concordato.

Si era rifiutata che io facessi il primo turno di veglia, mentre cavalieri e soldati entravano ed uscivano dalla porta d'ingresso per salutare l'uomo, il padre, l'eroe che aveva permesso molte delle vittorie ottenute dal nostro benevolo Re Flavius che, per scusarsi della sua assenza durante le veglie dei caduti, aveva lasciato una piccola somma di denaro alle famiglie colpite (un sacchetto con l'equivalente di dieci monete di bronzo e due d'argento).

Lei aveva semplicemente detto «Tanto non dormirò comunque» e si era intestardita al tal punto che mi fu impossibile dirle di no.

Preferivo approfittarne per stare sola, così non c'avevo messo molto per sgattaiolare nella mia stanza, chiudendo la finestra per non fare entrare l'aria gelida della notte.

Nella notte riuscivo a scorgere la luna piena, statica e pallida che illuminava le cime degli alberi e le acque in movimento del ruscello.

Da lì avevo poca visione di Città ma ne riconoscevo i contorni illuminati, alti e spigolosi, e lontani come in un sogno. Immaginai i bambini giocare per le piazze, schizzarsi con l'acqua in un'afosa giornata di estate e le loro madri che gli sgridavano a voce alta, senza nessun risultato.

La luna sembrava diversa quella sera, distante: ogni notte, prima di quella, la guardavo chiedendomi quale avventura mio padre stesse affrontando e quando sarebbe tornato per riferirmele con la luce degli astri riflessi nel nero delle sue iridi.

The white knightWhere stories live. Discover now