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Corsi giù dalla piccola collinetta verde quando, rapido come il suono di un tuono, il rumore martellante degli zoccoli dei cavalli non giunse alle mie piccole orecchie da bambina, scatenando in me due forti emozioni: entusiasmo e paura. 

Avevo sempre adorato quel momento, l'arrivo dei Cavalieri del Re: vederli marciare era per me un grande divertimento, guardarli tutti in ghingheri nelle loro scintillanti armature di metallo, come nei vecchi libri che la mamma mi leggeva.

I cavalieri erano tutti estremamente belli ed eleganti, in sella ai loro destrieri puro-sangue, con le spade al fianco sulla prima fila, e gli archi e le frecce sulla seconda. Promettevano pace, i nostri guerrieri, avventure e grandi viaggi, erano la promessa della speranza di un mondo migliore in cui tutti fingevano di credere per il bene di Città e di tutto il Reame.

Ma, nonostante la loro bellezza, il terrore predominava sull'entusiasmo: i cavalieri erano soliti girare per le grandi piazze, ridendo e scherzando tra di loro, baciando e facendo promesse ai bambini; noi vivevamo nell'isolata campagna oltre i confini di Città.

Nella mia mente milioni di pensieri iniziarono a saltar fuori, a ritmo con il suono degli zoccoli sul terreno secco: erano lì per giustiziare qualcuno? O forse semplicemente per mettersi in mostra, come ormai capitava sempre più spesso, sotto l'ordine del Re?

Tutte le domande, però, sembravano arrivare sempre alla stessa conclusione.

L'autunno era giunto al termine e presto sarebbe arrivato l'inverno, con le sue gelide folate di vento, e la neve bianca avrebbe distrutto i nostri orti e danneggiato per qualche periodo Città.

Erano tempi bui, e la guerra proseguiva a gran passi, il Re aveva bisogno di un esercito e l'esercito aveva bisogno di uomini: avevano bisogno di mio padre.

Non avevo più alcun dubbio.

Ed era per questo che non potevo smettere di correre, nonostante mi costasse una gran fatica e l'aria che mi schiaffeggiava con violenza, facendomi quasi mancare il respiro.

«Padre!», gridai nonostante l'ossigeno nei polmoni stesse già scarseggiando, «Padre!», la casa non mi era mai sembrata tanto lontana.

E poi comparve, la nostra piccola dimora di legno, umile, a volte fredda, ma pur sempre la nostra casa: era lì, dopotutto, che i miei genitori avevano costruito la loro vita, lì, dove si erano giurati amore eterno, sposandosi, lì, dove avevano avuto me e lì dove mi avevano cresciuta, nel pieno rispetto della natura e di tutto ciò in cui la vita scorreva.

Avrei voluto urlare, correre da mio padre e dirgli di scappare via, lontano, così che la guerra non lo portasse via da me e dalla mia mamma, ma lui era già lì, nel piccolo cortile ancora verde, e i Cavalieri del Re gli stavano già porgendo il foglio con cui il nostro sovrano lo avrebbe condannato per sempre.

Mio padre era un bell'uomo, giovane ed attraente: aveva i capelli neri e lunghi fino alle spalle, la pelle chiara, il viso magro e leggermente spruzzato di barba e due occhi neri e profondi come pozzi. A volte, quando sorrideva, i suoi occhi si illuminavano e sulle sue guance si formavano due piccole fossette che, raccontava mia mamma, le avevano fatto perdere la testa la prima volta in cui si erano incontrati, al Ballo d'Autunno, quando mio padre si era trasferito qui con i miei nonni.

Da sempre avevo creduto di riuscire a scorgere un bagliore di luce in quegli occhi di pece, mentre adesso non vedevo altro che pura oscurità.

Mi parve di sentire mia madre singhiozzare ma la sua esile figura era nascosta dalla spalla di mio padre che, invece, sembrava serrare le labbra per non piangere anche lui.

«Ed è per questo», disse il cavaliere davanti a lui, «che il nostro buon sovrano, Re Flavius, richiede i vostri servigi», non parve accorgersi della mia presenza ma mio padre si.

Quando si voltò a guardarmi, quasi mi parve di non riconoscere lo stesso uomo che mi aveva cullato per tanti anni tra le sue braccia per farmi addormentare; al suo posto vi era un manichino senza vita, le labbra tremolanti e gli occhi tristi.

«Padre...», quando parlai mi sembrò quasi che tutto il plotone si fosse girato a guardarmi, riconoscendo forse nella mia età quella dei loro figli che avevano dovuto abbandonare per seguire gli ordini di un folle.

«A-Alba», la sua voce tremò ma si sforzò di sorridermi.

Camminammo l'uno verso l'altro ma io fui la prima a fermarmi.

Nonostante gli avessi sempre ammirati, per un momento odiai quegli uomini che stavano per strapparmi via mio padre.

Tutti sapevano cosa accadeva a famiglie senza mariti o figli maschi.

La maggior parte delle donne era troppo debole per i lavori manuali, a causa dello scarso cibo e del loro scarso valore nutrizionale, per cui molte famiglie non riuscivano a guadagnare abbastanza soldi per continuare a pagare la propria casa e le materie prime che permettevano la sopravvivenza, e per questo divise e vendute come schiavi.

Era successo alla famiglia Klaint e temevo dal profondo del cuore che la stessa cosa sarebbe successa anche a noi, senza mio padre pronto a proteggerci.

Quando mio padre mi raggiunse, si mise in ginocchio davanti a me e mi guardò sforzandosi di sorridere, nonostante tutto: «Alba, mia piccola cucciolotta, cosa succede?», doveva aver notato le lacrime che stavano rischiando di cadere dai miei occhi.

«Quanto?», trovai la forza di chiedere, «Per quanto ci lascerete, padre?».

Non rispose subito, prima si voltò verso il cavaliere in testa che, però, scosse la testa, abbassando gli occhi con fare triste.

«Non sarà molto, Alba, lo sai che non posso stare molto tempo lontano dalle mie ragazze», sorrise e mi accarezzò la guancia, «e poi ogni volta che potrò verrò a farvi visita qui alla fattoria», la sua espressione vacillò vedendomi piangere, «te lo prometto cucciolotta», asciugò il mio viso e in qualche modo mi sentii rincuorata, «e né i Cavalieri né il Re stesso potranno far sì che io non mantenga onore a questa mia promessa, Alba, lo giuro», mi abbracciò forte e mi baciò la testa.

Avrei voluto che quel momento non avesse tempo, che potesse non aver mai fine.

«Signor Wood», la voce del cavaliere tagliò l'aria, «mi dispiace molto ma la truppa deve partire prima del tramonto, quindi la prego di prendere il suo cavallo e seguirci», mi guardò e mi sentii rabbrividire. Come poteva essere così crudele? Lo sapeva quale destino ci aspettasse senza lui?

Mio padre mi sorrise e mi guardò dritto negli occhi, così simili ai suoi.

«Alba, devi farmi una promessa», non aspettò una mia risposta per continuare, sapeva già che, qualsiasi cosa mi avrebbe chiesto, io avrei fatto di tutto per lui, «devi essere i miei occhi, devi badare alla mamma, non permettere che la tristezza la invada», e mi chiesi come avrei potuto confortare la mamma quando, ogni volta che mi guardava, le diceva che le ricordavo terribilmente mio padre, per aspetto e carattere. E se avessi solo peggiorato le cose?

Nonostante ciò, però, non potei che annuire, sentendo ancora le sue braccia stringermi.

E in quel momento avrei voluto che la guerra non fosse mai iniziata e che il Re non fosse mai salito al trono. Sapevo che una frase del genere, ripetuta ad alta voce, avrebbe causato sicuramente la mia morte e quella dei miei cari e non potevo permettermelo.

Infondo l'avevo promesso a mio padre...


Nota autrice:

Ciao a tutti!  Questa è la mia prima storia su Wattpad e spero vi piaccia!

Questo ovviamente è  solo un prologo ma spero vi abbia invogliato a continuare la mia storia :)

Se vi va, lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate, un abbraccio :*

-M

The white knightWhere stories live. Discover now