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Sentir nominare il mio nome mi fece accapponare la pelle.

Mi voltai di scatto verso il cavaliere, staccandomi dalla sua presa, i miei sensi a mille per paura che potesse farmi del male, nonostante avesse appena tentato di proteggermi da quel buzzurro.

Quel che vidi mi sconvolse: il ragazzo davanti a me doveva avere più o meno la mia età, aveva i capelli scuri e gli occhi di un pallidissimo verde che volgeva quasi al trasparente, come se stesse perdendo la sua tonalità. Inoltre, una sottile cicatrice volgeva da una parte all'altra del viso, coinvolgendo l'occhio destro per intero.

Rimasi immobile a fissarlo, nonostante ogni cellula del mio corpo mi stesse pregando di abbassare gli occhi e tornare a casa, da mia madre, per consolarla dal suo dolore.

«Tranquilla», sulle sue labbra, di un rosa delicatissimo, si aprì un sorriso, «so già di essere di una bellezza accecante», e si tirò dietro l'orecchio una ciocca di capelli scuri.

Sussultai impercettibilmente, come destata da un sogno, e mi sentii una sciocca ad essermi soffermata così tanto a guardarlo e che lui l'avesse notato. Arrossii.

«Come fai a sapere il mio nome?», chiesi in modo tutt'altro che gentile.

Il solo fatto che lui potesse sapere qualcosa su di me o sulla mia famiglia m'infastidiva, anche solo per il semplice fatto di non saper niente di lui che mi avrebbe permesso di proteggermi.

«Conoscevo tuo padre», sentirlo nominare fu un tuffo al cuore, una stilettata in pieno petto. Mi trattenni dal piangere, non volevo dimostrargli quanto potesse far male quella ferita aperta.

«Lui mi ha salvato la vita», rimasi in silenzio e tornai a guardarlo, a guardare la cicatrice, e mi chiesi se fosse per questo che mio padre non era lì quel giorno.

Poi il cavaliere sospirò, voltandosi verso i suoi compagni che avevano, intanto, già raggiunto la fattoria, «Non sai quanto mi dispiace per la tua perdita», e abbassò lo sguardo sulle mie mani che tremavano. Le coprì con le sue, in segno di conforto, e non ebbi la forza di scostarle.

Non riuscivo a pensare ad altro che a mio padre, al ricamo dei suoi capelli mori e morbidi, la leggera barbetta che pizzicava quando mi baciava sulle guance, gli occhi scuri che si riflettevano nei miei, il suo sorriso dolce che non avrei visto mai più, le sue braccia a cullarmi quando non riuscivo a dormire. Nemmeno il ricordo equivaleva a tanta bellezza e gentilezza e la cosa mi sconcertava: nemmeno coi ricordi avrei potuto tenerlo con me, le immagini che il mio cuore custodiva non sembravano più verosimili, erano lontane anni-luce, come se niente fosse mai successo, come se fosse un sogno lontano, dimenticato al mattino.

E poi tutto esplose in frammenti di vetro quando un grido distrusse il silenzio della sera, facendomi venire la pelle d'oca; mi voltai verso la fattoria: il fantasma di una donna che credevo di conoscere era in ginocchio a terra, abbracciandosi il petto in modo disperato, cullandosi da sé, urlando piena di dolore solo una parola «No!», come se avesse il potere di riportare in vita il suo cuore, spezzato in un milione di frammenti. Quell'immagine fece così male da farmi mancare l'aria.

«Madre!», gemetti, mettendomi in piedi di scatto, allontanandomi dalla presa del cavaliere.

I piedi sembravano pesare come macigni, facendomi sprofondare nella terra, sembravano chilometri a dividermi da lei, mi pareva così lontana ed irraggiungibile, nella sua sfera di puro dolore, anche quando la raggiunsi, stringendomi a lei e cullandola come faceva lei quando ero bambina, chiedendole di smettere, dicendole che non sarebbe servito a niente tutto questo dolore, nonostante le lacrime stessero cadendo sul mio stesso viso.

The white knightDove le storie prendono vita. Scoprilo ora