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Arrivammo ai confini del bosco poco dopo il tramonto.
Kovu si era sfilato la parte metallica dell'armatura, una sottile maglia metallica, lamentandosi rumorosamente per il caldo nonostante la temperatura fosse scesa di molti gradi.
Indossava una larga maglia color muschio, con le maniche rigirate fino a mostrare i muscoli delle braccia e dei pantoloni scura ma almeno della misura esatta.
Nonostante più di una volta i miei occhi fossero caduti su di lui, tentai di ammirare il paesaggio il più possibile.
Davanti a noi si stagliava una lunga rete di strade circondate dalle grigie case popolari che facevano da base ad un intricato labirinto di mura e cemento che nascondevano, sulla cima di un sentiero montuoso il palazzo reale, innalzato quasi fino al cielo, con le sue immense stanze, sale e prigioni.
Niente che avessi mai potuto immaginare, figurarsi desiderare!
«E' davvero...», non riuscivo a trovare le parole ma sapevo che i miei occhi esprimevano solo la meraviglia di quel paesaggio maestoso.
«Enorme? Grigio? Dispersivo?», Kovu sembrava sollevato che fossi arrivati alla meta senza nemmeno una ammaccatura e sfoggiava un sorriso luminoso, tutto pieno di sé.
«Io direi più fiabesco», ero così presa nell'osservare ogni singolo dettaglio di quel luogo che quasi non sentii il cocchiere fermare i cavalli e chiederci il suo pagamento.
«Il pugnale, per favore», mi sussurrò Kovu in un orecchio e immaginai che il cocchiere lo avesse sentito perché vidi la sua schiena irrigidirsi, a disagio.
Guardai il cavaliere e sperai che stesse scherzando mentre gli passavo, incerta, l'arma.
Mi venne quasi da ridere quando il ragazzo, sfilando il pugnale, rivoltò contro la mano, messa a coppa, il fodero, e tre monete d'oro luccicante ne ricaddero sonoramente.
«A lei», disse dopo averle donate all'uomo, sorridendo mentre scendeva dal carro e porgendomi una mano per aiutarmi a scendere. Accettai ben volentieri l'aiuto, più calma dopo aver riposato contro la sua spalla e dopo aver spiegato ad alta voce quel sogno orribile, abbandonandolo completamente.
Mi avvicinai ai cavalli, accarezzandone piano il muso, mentre Kovu ringraziava il cocchiere per l'ottimo lavoro.
Il cavaliere mi rese il fodero e il pugnale.
Mi avvicinai ai cavalli, accarezzandone piano il muso, mentre Kovu ringraziava il cocchiere per l'ottimo lavoro.
«Tenete questo», disse il cocchiere allungandogli una giacca di pelle nera dall'aspetto insolito.
A Città tutti vestivano con abiti tipici di un epoca oltrepassata da tempo che molti chiamavano Medioevo, la tappa di mezzo tra il passato e l'era nuova che ci aveva portato alla rovina.
Era per questo che eravamo tornati alle origini e spesso la legge proibiva qualsiasi cosa legata all'era del peccato, quella che, con crisi ed inquinamento, aveva quasi distrutto il nostro pianeta.
Sentii la presenza del cavaliere prima ancora che aprisse bocca.
Sentivo il suo corpo vicino al mio, il torpore della sua pelle che mi aveva cullato nel sonno solo poche ore prima. Riconoscevo il suo odore e quello dei suoi abiti come se vi avessi convissuto sempre, ogni giorno della mia vita.
Non lo avrei mai ammesso ma mi ricordava da morire l'odore degli abiti di mio padre ogni volta che tornava a casa, quell'odore penetrante di terre lontane e di bosco che mi faceva venire la nostalgia tutte le volte che doveva andarsene via.
«Dobbiamo andare», sussurrò posando una mano sulla mia, che accarezzava ancora il pelo dell'animale, facendomi venire una sorta di strano formicolio sulle dita.
Sfilai la mano dalla sua e gli passai accanto, sentendo i suoi passi seguirmi qualche secondo dopo.
Per non guardarlo, alzai lo sguardo al cielo e mi accorsi che High non c'era.
«Tranquilla, è già al palazzo», fece sorpassandomi e guardando, di tanto in tanto, per vedere se lo stessi seguendo, cosa che, ovviamente, ero costretta a fare.
Quella non era Città, ogni metro che percorrevo mi ricordava sempre di meno la mia casa, il luogo dov'ero nata e cresciuta, di cui conoscevo ogni angolo.
«Come avevi descritto questo posto?», Kovu sembrava divertito mentre io sentivo le mura circondarmi, troppo alte e numerose, facendomi mancare l'aria.
«F-Fiabesco», gemetti e mi fermai di colpo, sentendo le gambe molli.
Possibile che non avvertisse anche lui quel senso di nausea, la claustrofobia che sembrava chiudermi i polmoni?
Kovu si lasciò sfuggire una risata mentre si allontanava sempre di più da me e la sua figura sembrava confondersi con le ombre della sera, «Non sai quanto ti sbagli!».
Tentai di pronunciare il suo nome, piegandomi sulle ginocchia, esausta.
Oddio, ti prego non ora, sembravano secoli che non mi accadeva la stessa cosa.
Era successa la notte in cui mio padre era partito, la stessa quando mia madre aveva tentato di farsi del male quando aveva scoperto che mio padre sarebbe partito per il fronte, mi era successo il primo giorno di scuola. L'aria veniva meno, nonostante tentassi in tutti i modi di farla entrare nei polmoni, facendo respiri profondi e chiudendo gli occhi per concentrarmi.
Avanti, Alba, mi ripetevo nella mia mente.
Non c'è nulla che possa farti del male, nulla, ma le parole risuonavano confuse nei miei pensieri, il loro significato pareva lontano chilometri, troppo lontano per tendere la mano ed afferrarlo.
«Signorina, si sente bene?», due mani ruvide mi sfiorarono le spalle e sussultai forse un po' troppo violentemente; davanti a me c'era un vecchio uomo, il viso pallido e pieno di rughe, gli occhi infossati e le iridi di un azzurro brillante, quasi innaturale.
Le sue mani, ferme saldamente sulle mie spalle, avevano la stessa rigidità di mio padre, le stesse mani di chi aveva combattuto per dare un futuro migliore ai propri figli.
«Signorina?», sentivo pian piano riprendere la lucidità.
Alzai lo sguardo e vidi Kovu voltarsi, forse udendo la voce dell'uomo.
I suoi occhi si spalancarono nel vedermi e lo vidi correre verso di me, quasi con un ringhio sul volto. Una volta che mi ebbe raggiunto, la prima cosa che fece fu allontanare il vecchio con una spinta che gli fece quasi perdere l'equilibrio, «Stia lontano da lei!», la sua voce risuonò così forte da farmi tremare.
«Signore, la prego!», in quel momento non temetti più per me ma, mentre diventavo sempre più consapevole di me stessa, iniziai ad aver paura per l'uomo che Kovu aveva davanti a me.
Avevo visto di cosa era capace e non credevo si sarebbe limitato con quel vecchio se avesse continuato a credere che mi avesse fatto del male.
«Stai bene? Pensavo fossi dietro di me, ti avevo detto di seguirmi!», le sue mani mi sfiorarono le guance con insistenza, i suoi occhi cercavano nei miei una verità che non riuscivo a spiegargli a causa della sua insistenza.
«Cosa succede qui?», un ragazzo, che riconobbi come il figlio del vecchio grazie ai grandi occhi azzurri, si avvicinò a noi, lanciando occhiate d'odio verso Kovu e impaurite verso il vecchio.
Finalmente riuscii a trovare le parole: «Non mi sono sentita bene e suo padre è corso in mio soccorso», riuscii a dire tutto d'un fiato, «ma ora sto bene», rivolsi lo sguardo a Kovu che, però, manteneva lo sguardo basso, pieno di vergogna, «ma il mio amico qui deve aver frainteso la situazione. Sa', è un tipo parecchio impulsivo», poi chiusi la bocca, consapevole di aver parlato troppo.
«Tranquilla, figliola», il vecchio mi mise una mano sulla spalla e mi sorrise, «deve tenerci proprio tanto a te se ha agito in questo modo, senza nemmeno rifletterci su», mi fece l'occhiolino e guardò Kovu, con ancora la testa bassa nascosta tra i capelli scuri, «e tu non demoralizzarti, ragazzo», le sue mani passarono sul braccio muscoloso di Kovu che, finalmente, lo guardò.
«Sono stato incaricato di proteggerla ed è quello che ho tentato di fare», disse con un tono così duro da spiazzarmi del tutto, «mi dispiace di aver pensato male di lei e di averla colpita», i suoi occhi sembravano decisamente dispiaciuti ma il suo corpo era teso come una molla, il cavaliere alla quale mio padre mi aveva affidata sembrava un animale rabbioso pronto a balzare sulla sua preda e la cosa mi spaventò.
Il ragazzo fece segno al padre di avvicinarsi e una volta averlo riavuto al suo fianco disse: «Beh, ora che abbiamo risolto la faccenda mi sembra ora di tornare a casa, padre, la notte sta scendendo e voi», disse guardandoci, «non dovreste rimanere qui con le ombre che calano, vi conviene incamminarvi, qualunque sia il vostro punto d'arrivo».
Kovu annuì ed io sorrisi a padre e figlio facendo per incamminarmi, ma più velocemente, affinché il cavaliere non mi raggiungesse.
Sapevo che era una cosa sciocca, ma le sue parole mi avevano ferita.
Ero solo un ordine da svolgere per lui, nient'altro.
Una volta che il Re mi avrebbe ricevuta non sarei stata più niente.
Che sciocca a pensare che saremmo diventati amici, come forse avrebbe voluto mio padre!
«Ehi! Non correre!», quando mi ebbe raggiunto mi fermò per un polso, costringendomi a voltarmi verso di lui.
«Non. Toccarmi», scossi la mano, affinché mi liberassi dalla sua presa, poi tornai a camminare, a passo deciso, un piede dopo l'altro.
Lo sentii fermarsi a qualche passo da me ma io non l'aspettai.
Chiusi gli occhi e sentii due grandi lacrime calde scivolare sul mio viso.
Le cancellai rapidamente, sperando di arrivare il prima possibile a destinazione.
Volevo solo arrivare a palazzo, così che, una volta arrivati fin lì, Kovu si liberasse dal peso che mio padre gli aveva affidato.
Sperai che sarebbe stato felice.
Dopo essersi liberato di me.

The white knightWhere stories live. Discover now