13. Underwater

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Louis

Pensare. Contemplare il retro di una coperta illuminata dal buio.

Chiudere gli occhi ed osservare la macchia scura espandersi, contornata da piccoli frammenti di luce svolazzanti. Il martellare pulsante del sangue nelle orecchie, del cervello nella calotta cranica, del cuore nella cassa toracica.

E puzzavo. Erano due giorni che ero rinchiuso in quella stanza, senza farmi una doccia, senza il coraggio di uscire.

Effetti ottici di un post sbornia da dimenticare.

Danni fisici causati da parole che non potevo più rimangiarmi.

Vergogna per quello che avevo fatto e per quello che avevo detto, per quanto avessi bevuto, per la reazione eccessiva, per il vomito, per la spinta, per la rabbia con la quale avevo gridato a Liam di essere gay.

Quella sera non mi disse niente, mi accompagnò a letto, buttandomici sopra. Il venerdì pomeriggio, dopo circa dieci ore di sonno, entrò nella mia stanza lasciandomi un bicchiere con del caffè e una bottiglia d'acqua con delle aspirine. Io non mi ero mosso, codardo e lui non aveva parlato. Non ero andato a lezione, non avevo acceso il cellulare. Avevo bisogno di stare da solo a leccarmi le ferite come avevo sempre fatto per tutta la mia vita.

Sabato non l'avevo visto. Mi ero limitato ad andare in bagno, scendere al piano di sotto per fare scorta di viveri quando sapevo che nessuno era in casa, rinchiudermi di nuovo nella stanza, mangiare cioccolato e stare in silenzio, completo non rumore.

Non ero abituato a vergognarmi di me stesso, avevo fatto i miei errori in passato, mi ero pentito, ma da un po' d'anni a quella parte, tralasciando il fatto che fingessi di non essere gay, non avevo mai avuto rimorsi per qualcosa che non dovevo fare. Andavo in giro a testa alta come mi era stato insegnato, trattavo gli altri come loro trattavano me e non mi ubriacavo in giro per bar affollati da etero, dove un passo falso avrebbe potuto gettare all'aria i miei sforzi e la mia copertura. Non bevevo la tequila leccando il sale dalla mano di altri, non facevo gli "occhi dolci" come mi era stato detto, non facevo scenate e non vomitavo nei vicoli sbraitando. Ma il mio autocontrollo quella sera era andato letteralmente a farsi benedire, insieme al mio orgoglio. Ammettere che Harry mi avesse ferito era troppo, ammettere che quelle parole scandite sillaba dopo sillaba, rimbombassero ancora nel mio cervello come musica ad un volume troppo alto pompata nelle orecchie era forse esagerare, ma visto che dovevo fare solo i conti con me stesso, tanto valeva essere onesto. Mi sentivo preso in giro, mi sentivo usato perché non ci aveva nemmeno provato a cercare di capire chi fossi, a conoscermi, si era limitato all'apparenza e quello non potevo sopportarlo.

Dopo ore e ore di idee ronzanti, arrivai alla conclusione che Harry non aveva bisogno di me, né tanto meno delle mie cure o attenzioni. Avrebbe trovato altrove queste cose, avrebbe continuato a dormire tra le braccia di un altro e continuato nella sua vita e così io.

Ma dire e fare erano avversari da tempi immemori, un dualismo tra verbi, un contrasto in chi parlava senza agire, un connubio nei coerenti, una sfida ardua da vincere per tutti. Dire e fare, come il bene e il male, erano strettamente legati, la vita dell'uno dipendeva da quella dell'altro. E le mie erano destinate a rimanere solo parole.



Alle nove di domenica mattina, la porta della mia camera si spalancò di colpo, dei tacchi a spillo con plateau iniziarono a picchiettare nel marmo, si avvicinarono alla finestra, spalancarono le tende facendo entrare troppa luce indesiderata e si misero a strillarmi contro.

-Non mi rovinerai questa giornata Louis Tomlinson! Quindi alza il culo, fatti una doccia, indossa il tuo Armani insieme al migliore dei tuoi sorrisi e non ti lagnare.-

No Sound but the WindWhere stories live. Discover now