V. LEO

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IL FIGLIO di Efesto stava fuggendo a rotta di collo nella vecchia officina di sua madre, dove lei era morta quando lui aveva otto anni. Non sapeva di preciso che cosa lo stesse inseguendo, ma era sempre più vicino, ed era grosso, malvagio e carico di odio.

Leo inciampava fra i bancali, rovesciava cassette degli attrezzi e incespicava sopra i cavi. Intravide l'uscita e si lanciò in quella direzione, ma una sagoma gli si stagliò di fronte: una donna avvolta in vesti fatte di terra turbinante, con il viso coperto da un velo di polvere.

<<Dove vai, piccolo eroe?>> La voce di Gea sembrava venire da ogni direzione. <<Resta, e fai la conoscenza del mio figlio preferito>> Leo scartò a sinistra, ma la risata della dea della terra lo seguì. Sbattè contro un contro un tavolo da lavoro, la vecchia postazione della madre, e fece cadere tutto per terra. Il suono dei chiodi che cadevano gli ricordò quando Daphne aveva frugato nell'officina della sua mente, e mentre continuava a correre lontano si ricordò che la romana gli aveva assicurato che tutto sarebbe tornato al proprio posto.

<<La notte in cui tua madre morì, ti misi in guardia. Ti dissi che le Parche non volevano concedermi di ucciderti, allora. Ma ora hai scelto la tua strada. La tua morte è vicina, Leo Valdez>> svoltò l'angolo e si ritrovò in un vicolo cieco, davanti a lui una parete tappezzata dei disegni che lui stesso aveva fatto con le matite colorate. Singhiozzò per la disperazione e si voltò, ma la cosa che lo inseguiva gli intralciava il cammino: un essere colossale avvolto nell'ombra, la forma vagamente umanoide, la testa che sfiorava il soffitto alto sei metri.

Le mani di Leo si incendiarono. Colpì il gigante con una raffica di fuoco, ma le tenebre estinsero le fiamme. Cercò di pescare qualcosa dalla cintura degli attrezzi, ma le tasche erano cucite. Tentò di parlare – di dire qualunque cosa pur di salvarsi la vita – ma non riusciva a emettere un suono, come se qualcuno gli avesse rubato l'aria dai polmoni.

<<Mio figlio non ti consentirà di accendere fuochi, stanotte>> disse Gea dalle profondità dell'officina. <<È il vuoto che consuma ogni magia, il freddo che consuma ogni fiamma, il silenzio che consuma ogni parola>>

Leo avrebbe voluto gridare: <<E io sono quello che se la svigna!>> Ma, dato che non aveva voce, usò le gambe. Sfrecciò verso destra, chinandosi per sfuggire alle mani del gigante, e si tuffò attraverso la soglia più vicina.

All'improvviso si ritrovò al Campo Mezzosangue, che però era in macerie. Le capanne erano gusci di legno carbonizzato. I prati anneriti dalle fiamme fumavano alla luce della luna. Il padiglione della mensa era ridotto a un cumulo di bianche rovine. La Casa Grande era a fuoco; le finestre luccicavano come gli occhi di un demonio.

Leo continuò a correre, certo che il gigante d'ombra fosse ancora alle sue spalle.

Corse schivando i corpi di semidei greci e romani, si rese conto che fossero i suoi amici quando riconobbe i capelli bianchi e distinguibili di Daphne, e notò di fianco a lei la chioma riccia di Hazel e il ciuffo biondo di Jason. Avrebbe voluto controllare se erano vivi. Avrebbe voluto aiutarli. Ma in qualche modo sapeva di non avere molto tempo.

VIDI | leo valdezDove le storie prendono vita. Scoprilo ora